Suona la campanella. É finita. Tutti fuori, in cortile, è una bella giornata.
Enne corre perché vuole giocare a calcio, e già sceglie gli altri ragazzi della sua squadra, nel SUO campetto di calcio.
Emme arriva un po’ in ritardo, si è fermato a mangiare qualcosa, ma vuole giocare anche lui, e la palla, è la SUA.
E così, si formano due squadre.
Si comincia, tutti corrono, la palla passa da un piede all’altro, qualche spintone, uno scivola e cominciano a litigare. Ma solo per un attimo. Si riprende, si deve giocare. Intorno si è già formato il solito gruppetto di compagni che tifano per una squadra o l’altra.
É un gioco.
Enne si arrabbia molto col suo attaccante, lo sgrida da lontano, poi corre, lo supera e, rubandogli la palla, tira in porta. Ma sbaglia. Non importa, ma ad Enne importa. E calcia per terra, urla agli altri ragazzi, non è colpa sua, gli altri non sanno giocare.
Emme lo chiama sfidandolo, con la SUA palla in mano, pronto a rimandarla in campo. Si ricomincia.
Il gioco diventa crudele, calci negli stinchi e spallate, offese e sguardi di sfida. Il campo sembra più piccolo, le corse più affannose, Enne è il campione del quartiere, non può perdere, non DEVE perdere.
Altro tentativo, altro flop.
Enne corre, corre e prende per la maglietta Emme che afferra e stringe la SUA palla, lo strattona, lo insulta, lo butta a terra. Gli altri lo circondano, cercano timidamente di fermarlo ma nessuno si mette di mezzo. Calci, calci, ancora calci.
<FERMATI!> Un urlo, nel silenzio.
Si voltano e vedono arrivare un bambino, avrà forse sette o otto anni. Si fa largo nel gruppetto e si mette davanti ad Enne.
< SMETTILA!> Tutti lo guardano, questo piccolo Davide che osa affrontare Golia.
Enne lo osserva divertito all’inizio, poi, comincia a pensare che forse questo bimbetto ha la protezione di qualcuno, forse non conviene reagire. Gli da un buffetto e gli ordina di portare via Emme, ma di lasciare a loro la palla.
Il bambino non capisce.
Enne lo guarda fisso, gli circonda le spalle e risponde: <Vedi questo campo, lo vedi bene? É MIO. Io sono Enne, ricordatelo. >
Il bambino non proferisce parola, annuisce, poi si volta ad aiutare il ragazzo, sanguinante, a terra, e lo accompagna fino ad una panchina. Gli porta un po’ d’acqua e un fazzoletto. Rimangono così a guardare gli altri che hanno ripreso rabbiosamente a giocare.
Il ragazzo, dopo essersi ripreso, si gira verso il bambino : < Stanno giocando con la MIA palla. Non è giusto. Comunque, ti ringrazio, come ti chiami?>
Il bambino, continuando a guardare verso il campo, gli rispose: < Sono IO. E tutto quello che vedi, intorno al campo di calcio, è mio.>
Foto di Javier Garcia da Unsplash

Un bel racconto dove mio, tuo sono l’alter ego di noi adulti.
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