MARMO

Marmo. Le venature del marmo, come un reticolo di capillari. Non c’è vita nelle statue, neanche in quelle più sorprendenti, non c’è vita. Il miracolo lo possiamo fare noi uomini. Creiamo in continuazione, incubatrici, a volte nostro malgrado, di un miracolo. Lo fanno anche gli animali, ogni essere vivente, e questo non mi fa sentire molto speciale.

Io non avevo portato a termine il mio miracolo. Ci avevo provato ed avevo fallito. Dove sarai? Ti incontrerò? Io che stavo plasmando il mio capolavoro, la mia opera, rimasta incompiuta.

Scivolando sulle mie cosce, nella doccia, sangue misto all’acqua. Mi stavo mischiando al tuo sangue e so, ora so, che saresti stato un maschietto. Siamo colati insieme, sui miei piedi, tra le mie dita, mentre le mie mani cercavano di fermare ciò che era già compiuto. Facevano da ingenuo tappo, barriera inutile, mentre urlavo aiuto.

Il rosso diventava più intenso, come certi tramonti roventi, si raggrumava e defluiva nello scarico, io lo seguivo, non potevo fare altro, non volevo fare altro. Tu, io, colati via, correvamo lontano. Corri da me! Sono qui!

Ma dove sono? Cosa sono? Un movimento forte come un colpo di frusta che mi lancia, mi espando, gonfia, esplodo. E sono vuota. Senza te.

Vuota. Come posso spiegarmi questa sensazione, ora che non sono più involucro? Il vuoto ha senso se si contrappone a un corpo solido. Ma io non sono niente, provo emozioni? Forse, elaboro ricordi.

Ci sarebbe da impazzire se non fosse che non cambierebbe nulla. Essere in esplorazione presuppone una volontà che non ho, non mi appartiene più. Nessuna materia e nessuno spazio, un viaggio di allucinazioni infinite in itinere.

Come questa percezione di amore eterno per te, tra quei rivoli di sangue che si sono mischiati per sempre.

Non ho più il mio testimone

Quando si perde il proprio compagno/a, si vive a metà. Parlo dei fortunati, come me, che hanno vissuto l’amore.

Quello.

Non esiste altro tipo, tutte le altre esperienze di coppia, rimangono appunto, esperienze, con diversi gradi di profondità, intimità, condivisione. Forse non tutti cerchiamo lo stesso tipo di rapporto.

Oggi, ascoltando il prof. Galimberti che parlava di sua moglie, da poco deceduta, mi ha colpito la sua definizione di perdita. Non ha parlato di vuoto d’amore ma di assenza di testimone, dell’unica persona a cui raccontare di sé, dei propri pensieri, senza filtri, né vergogna, né remore, sicuro di non essere giudicato.

L’unica persona a cui lasciare tutto se stesso.

Ecco. Questa è stata la mia perdita.


Jean René est à Versailles

Quegli occhi

un tempo abissi

scintillavano, sì, direi così

profondi e inafferrabili

pulsavano vita

come nuvole cariche di ghiaccio

elettricità

ricordi?

Persa

in fondo no

aspetto

proprio qui

un lampo dorato

ancora una volta.

Ancora.

Tes yeux
étaient des abîmes
ils brillaient, oui, vraiment
profonds et insaisissables
ils palpitaient de vie
comme des nuages, pleins de glace
électricité
tu te souviens?
je suis perdu
au final non
J'attends
ici
un éclair doré
encore une fois.
Encore.

C’era stato un tempo

Sono quasi le 09:30. Eccoli. Come ogni giorno, lui, che tenendo per mano sua madre, cammina piano, sul marciapiedi. Ha lo sguardo vuoto, i capelli ingrigiti e il passo stanco. Una vita di passi stanchi. Ma non era stato sempre così.

Se lo ricordava, un pò sopra le righe, studente alla facoltà di ingegneria, timido o riservato, sicuramente schivo. Camminava veloce, lo sguardo fisso a terra, preso dai suoi pensieri. C’era stato un tempo in cui aveva avuto una ragazza, carina, allegra, e anche lui, aveva perso quella patina grigia. Una storia durata pochi mesi, tra i lamenti della madre, un mugugno continuo e incessante, come un rubinetto gocciolante. Lo sapevano tutti, ma non sapevano fino a che punto.

Suo padre era morto da pochi anni e la madre si era avvinghiata a lui, una mantide che aveva scambiato l’amore per il possesso. Nessuna era abbastanza per suo figlio, nessuna poteva intromettersi tra loro. Erano gli anni in cui, se restavi incinta, venivi bruciata nel rogo dei pettegolezzi più crudeli e il matrimonio riparatore era l’unica soluzione.

Sono sicuramente andati a fare la spesa, come ogni giorno, per percorrere poi, a ritroso, la via fino a casa.

Si sentono delle urla, qualcuno sta chiamando. É lui, sua madre è scivolata sui gradini della piccola salita nel borgo antico. É a terra, la mano che tiene stretta la borsetta, non dice niente, si appoggia alle gambe di lui.

Tempo di arrivare e ci sono già due signore anziane che cercano di aiutare. State ferme! Ci manca solo che cadiate anche voi.

Come una squadra di soccorso, lui con le ginocchia dietro la schiena della madre e lei, prendendola sotto le ascelle, la sollevano piano piano, dopo aver constatato che non avesse fratture.

É leggera, piccola e ossuta, e la guarda fisso negli occhi. Non la riconosce subito e il suo sguardo diventa pungente, la bocca si allunga in una linea sottile. Fa un movimento stizzoso per staccarsi dalle sue braccia, poi volge lo sguardo a lui.

“Ma è la moglie di Alessandro, mamma. Non la ringrazi?”

Si volta ed ora sorride, dietro quelle labbra sottili, ma lo sguardo rimane freddo, vivido e sfidante. Lui ringrazia e riprendono a camminare. Ora, lui, la segue.

A fine mese, nel giornale locale, in prima pagina:

“Orrore in Via Pascoli”

L’ing. Piena accusato di omicidio

I Carabinieri sono intervenuti ieri sera, nell’appartamento dei signori Piena, in Via Pascoli, dopo una segnalazione, da parte dei vicini, di grida convulse. Una volta entrati si sono trovati di fronte ad una scena agghiacciante. La signora Neve, deceduta, nel suo letto, ma ancora vestita. Il figlio, l’ing. Fausto Piena, era invece nudo e in stato confusionale, con i polsi sfregiati. Da esami accurati, è emerso che la signora non è morta per cause naturali ma per soffocamento. L’ing. Fausto Piena non è in pericolo di vita ma è attualmente ritenuto colpevole di omicidio. Conosciuti entrambi da tutta la comunità, l’accaduto ha suscitato sgomento e incredulità.


Foto di juan-davila da Unsplash

Il racconto è frutto della fantasia dell’autrice. Ogni riferimento a fatti o persone è del tutto casuale.

La figlia prediletta

É domenica, al piccolo parco del centro, si cammina sui vialetti di ghiaia, respirando l’aria fresca mentre il sole buca le nuvole.

I bambini, che ancora sognano senza chiedere il permesso, corrono, tra capricci e risate per un nonnulla. Non tutti.

C’è una bimba, avrà sei anni, osserva i fratellini, due. É seduta come una mamma in miniatura, invece che correre con gli altri, sta attenta che i fratellini non si mettano in pericolo. Sta aspettando che i genitori arrivino, sono andati a fare due passi da soli, saranno a venti metri, ma sembrano lontanissimi.

Tornano e, la mamma, a malincuore, lascia la mano dell’amato, per andare a raccogliere il fratello più piccolo dal prato, mentre il papà, inizia a giocare a pallone con l’altro. La bambina si avvicina, vorrebbe una carezza, parla un po’. Fanno le foto, la mamma tiene in braccio prima un fratello, poi l’altro. Lei, no. lei è grande.

Si siede sulla panchina, osserva il papà giocare a pallone, invidia il fratello che corre felice, invidia il piccolo che prende tutti baci della mamma, anche quelli che erano i suoi. Si alza per andare sull’altalena ma la mamma le grida di non allontanarsi. Si gira, è felice.

< Vieni qui e tieni tuo fratello un attimo che devo andare in bagno.>

Mentre cerca di tenere a bada il fratello piccolo, osserva le altre bambine, non le conosce, non ne ha il tempo. Ma la mamma tornerà presto e allora, allora andrà proprio da quella bambina con i capelli lunghi, quella che sta rispondendo male alla sua mamma e le tirerà i capelli così forte da farla piangere. Guarda il fratello piccolo che le sta dando dei calci, non gli dice niente, cerca solo di schivarli, ma lui scivola e cade. Batte la fronte sulla panchina di ferro e scoppia in un pianto disperato.

Ora, lei è disperata. Stanno arrivando di corsa i suoi genitori, cosa dire? Come scusarsi?

< Ti avevo detto di stare attenta! Ma proprio non ci si può fidare di te!>

Vorrebbe piangere ma non ci riesce, corre verso l’altalena, ci sale e si spinge forte, sempre più forte, arriva così in alto che qualcuno le grida di smetterla, che è pericoloso.

Ma non sono i suoi genitori.

Racconto inspirato dal post “Insicurezza e bisogno di approvazione” della dott.ssa Giusy di Maio


Foto di kelly-sikkema da Unsplash

Il 43

Arriva il 43, quasi in orario. Non c’è molta gente ma qualcuno deve sempre passare davanti agli altri, in coda. Piccoli soprusi da piccole persone. Non ci fa caso, non è importante, c’è posto e il tragitto sarà breve. L’autobus riparte tra il rumore di ferraglia, sbuffando, con la gente ancora in piedi che si aggrappa ovunque e si siede come se fosse emersa da una nuotata infinita. Lei, se ne sta in piedi, appoggiata al finestrino, vicino allo spazio per le carrozzine.

Mentre osserva fuori, due ragazze stanno ridendo forte, coprendo il vociferare e i dialetti incomprensibili che riempiono l’abitacolo. Risate squillanti, che tolgono il fiato, emanano quasi luce, un’aura leggera, come se fossero sospese. Tutt’intorno c’è il grigiore di percorsi conosciuti, fotocopie di stanche routine, occhi che hanno smesso di guardare il paesaggio e rimangono fissi sul sedile davanti. Vite ammaccate da sogni infranti, perduti, dimenticati.

Teste, tante teste. Chissà a cosa pensano? C’è una vecchietta con i capelli schiacciati sulla nuca, le gambe che non arrivano a terra e una borsa enorme sul sedile di fianco. Qualcuno le darà una mano quando dovrà scendere? Quel signore di fianco, seduto al di là del corridoio, si alzerà?

Appanna il vetro con il fiato, per disegnare un cuore, come se avesse dodici anni, come quando le batteva forte il cuore, vedendolo salire, quel ragazzino, riccio e un po’ timido, che la guardava da lontano. Quando aveva perso quell’emozione? Quando erano apparse le barriere ai brividi, alla vergogna, all’entusiasmo innocente? Si diventa più forti nascondendo i turbamenti, eccitazione e commozione sono tenuti in serbo, come il servizio buono, per le occasioni speciali. 

Il 43 rallenta e si ferma. La signora anziana arranca col suo grosso bagaglio fino alle porte che si aprono. Sta per andare ad aiutarla ma una delle ragazzine la precede, sorride e le scarica il grosso fagotto, poi, salta di nuovo sul bus e si siede.

Quanta luce.


Foto di sam mcnamara – da Unsplash

L’amore umiliato

….

Sono colei che t’invoca
di farmi tornare indietro
quando il sangue ancora caldo
scorreva nelle mie vene
ora fredde di una vita inattesa.

…..

Non perdurare nel sentimento atroce
di chi non sa cosa sia amare.

“L’ amore non ricambiato. Inutile, dice il mito di Apollo e Dafne, amare qualcuno che non ricambia: qualunque sia la scelta che l’altra persona farà di fronte ai nostri sentimenti, deve essere rispettata senza ammettere violenza.”

Foglie bagnate

Le foglie sono bagnate, fradice, i colori si mischiano alla terra. Eppure sono state verdi, piene di vita, di linfa. É la vita.

Ora, sul sentiero che profuma di muschio, mano nella mano, camminavano piano, attenti a non scivolare. Era così bello, così magico stare di nuovo insieme. Lui la guardava ogni tanto, cercava i suoi occhi, ma lei guardava per terra sorridendo.

Questo bastava.

Da quando era andato a riprenderla, da quando aveva deciso che in qualche modo ce l’avrebbe fatta, si sentiva di nuovo forte, protettivo, la sua roccia. Ora che erano di nuovo insieme, i pensieri correvano a quelle stanze così asettiche, quei corridoi così lunghi, tutti quegli anziani persi nella solitudine. Il vuoto, si ricordava la sensazione di vuoto.

L’immagine di lei su una sedia di fronte a una vetrata che dava su un cortile, da sola. Quel sorriso esploso nel vederlo, forse lei non sapeva chi era, ma sapeva che era venuto per lei, che l’avrebbe abbracciata e portata con sé.

Come gli era venuto in mente? Come aveva potuto pensare di vivere senza lei? Ma, purtroppo, si ricordava bene i pomeriggi a discutere con i figli e gli si increspava l’anima, nel rimorso di essersi fatto convincere.

Papà, è la soluzione migliore, non sei più in grado di starle dietro. Mamma non c’è più.

Mamma è ancora qui, è qui con me, mamma non è mai andata via. É di fianco a me, nel suo mondo fatto di pensieri che non conosco, di immagini che non vedo, ma so leggere il suo cuore e, soprattutto, ne ha bisogno il mio.

Le foglie si sono attaccate sotto gli stivali, si ferma, cerca una roccia dove farla sedere e l’accompagna con dolcezza. Poi, sollevandole un piede alla volta, toglie il fango e le foglie con le dita.

Dobbiamo comprare degli stivali con la suola liscia, con questi si fa più fatica. Domani, domani li compriamo.

Mentre cerca di pulirsi le mani, lei lo accarezza sulla testa, così, come un tempo. Mamma è qui, lo sarà per sempre.

Ma quanto sono belli i colori delle foglie bagnate?


Foto di Oleksandra Bardash da Unsplash

Vita

Siamo alla fine, quasi.

Fine di cosa in fondo? Fine del nostro computo del tempo annuale, non più legato a meridiane ma a orologi.

Eppure, continua, anche se vogliamo ingabbiarlo, sorge sempre il sole, lo stesso sole che tramonta in qualche altra parte.

Oggi è nata una bimba, una dei 240.000 che nascono nelle 24 ore. Ma, per i genitori è unica, è la loro occasione di lasciare una radice, il segno del loro breve passaggio su questa terra. É una meraviglia, veder nascere un bambino è davvero un miracolo, aspettare che faccia il primo grido, che cominci ad annusare la vita.

Un’energia che non possiamo catturare, quella della vita, la sua potenza, che pensiamo di poter consumare per sempre. Ma per sempre, non esiste.

Oggi, hanno ricoverato una persona meravigliosa, non più giovane, per una recidiva del tumore alle ossa. La sua energia è terminata? Avrà fatto tutto quello che avrebbe voluto? Sarà in pace con se stesso?

Io lo immagino in uno dei suoi quadri, pieni di forza, passare da una pennellata di colore ad un’altra, danzare pattinando sulla tela, senza dolore, solo pace.

Oggi sarà l’ultimo giorno di quest’anno, un altro ultimo giorno per qualcuno e un primo giorno per altri. E festeggeremo la fine e il nuovo inizio. Festeggeremo la vita.

Buon Anno, cari amici e Buona Vita!


foto i di benjamin-davies da Unsplash

Farfalla

Smettila di accontentarti di chiunque pur di non restare sola.

Scacciò i pensieri brutti, stasera si vestirà come una farfalla, vorrebbe essere una farfalla, di quelle che vivono solo poche ore.

In fondo non conta quanto, se non ne vale la pena.

Ha appuntamento con lui, non glielo aveva confermato ma non importava, l’aveva fatto altre volte. Eccola davanti al ristorante, è in orario e aspetta. Aspetta.

L’amore, quando si rivela,
Non si sa rivelare.
Sa bene guardare lei,
Ma non le sa parlare.

Prima vede i suoi piedi, poi vede lui. É seduto a un tavolo, con un’altra. Lui parla e lei annuisce e sorride.

Ma non le aveva scritto. Non le aveva detto di avere un altro impegno. 

Le sue ali si sono afflosciate, lui non l’aveva vista e si sentiva come se la avessero messa in una teca con gli spilli conficcati.

Che fare? Andare? Salutarlo?

 Aspetta.

Mai agire d’impulso.

In fondo non si sentiva mortificata perché lui stava uscendo con un’altra, si sentiva miserabile per quel suo continuo sbagliare,

Accontentarsi di chiunque pur di non restare soli

Avevano finito. Se ne stavano andando.

Non fai niente?

No.


Foto di mario-kravcak da Unsplash

Babbo Natale arriva il 25

Sono quasi le 23,30. Dobbiamo muoverci o arriveremo tardi alla Messa di Natale.

La tavola è un campo di battaglia, tra briciole e dolcetti, un pezzo di panettone è finito su una sedia. Si è giocato fino a poco fa, dopo aver aperto i regali. La gioia dei bambini è il vero regalo.

Per quanto riguarda i pacchetti che si erano scambiati, a parte il solito copri-spalle triste, forse riciclato, e quella crema per il corpo anti-cellulite, non proprio un gesto gentile, i cesti con le marmellate fatte in casa e i salumi erano piaciuti.

Le carte regalo sono state strappate, quasi tutte, lei odiava riciclare, almeno quelle. Il bello sta nell’aprire con foga, come se si tornasse bambini.

Poi, giocare a Tombola, Otto e mezzo, Bestia, col sottofondo del concerto di Natale alla tele, e bere, mangiare torrone, seduti sui cuscini, sul tappeto. Domani, rimetteremo a posto domani.

Fa freddo? Sveglia la piccola, dai che dobbiamo mettere le scarpette, dai che che dobbiamo uscire. Macchina? No, no, andiamo a piedi, non è lontano. Voi andate avanti intanto, noi arriviamo.

E l’ascensore è bloccato, si stanno salutando. E quanto ci mettono? Ci vediamo in Chiesa.

E sono fuori, il portone si chiude. Fa freddo e la notte è stellata, da quanto tempo non succedeva? Si cammina sui ciottoli, incontrando altre persone, ci si scambia gli auguri.

Non potrebbe essere così sempre? Cosa costa salutarsi?

Rimbombano i passi, l’eco di voci allegre, qualcuno un po’ brillo. Fili luminosi pendono, sembrano traguardi messi troppo in alto, qualche lampadina è già fulminata. Un piccolo abete triste, decorato alla bene meglio, davanti ad un negozio, il cassonetto riempito all’inverosimile con tante scatole appoggiate, Babbi Natali ormai consunti che si arrampicano sui muri. e sulle finestre.

Poi si gira a destra, e la piazza è illuminata a giorno, macchine che cercano parcheggio e famigliole che stanno salendo i gradini della Chiesa.

Ti ricordi? Ti ricordi quando, da piccoli, aspettavamo il giorno di Natale per aprire i regali e ci svegliavamo all’alba? E lasciavamo il latte e i biscotti per le renne? La meraviglia quando vedevamo che erano rimaste solo le briciole e poco latte… Quella era magia.

Aspettavamo Babbo Natale.


Abbracci

I miei Auguri: vorrei che fosse Natale per tutti, che gli affetti abbracciassero ognuno di noi così forte da fare male. ❤️

da TRA LA POLVERE E LE NUVOLE

È la Vigilia di Natale, cosa ho chiesto a Babbo Natale? Sono stata brava? Non direi, ho rubato, maledetto un sacco di gente, forse ho anche bestemmiato, anzi, ho bestemmiato e, come se non bastasse, ho rubato anche in Chiesa. Sono stata egoista, ho pensato a me, sempre di più.

Vorrei svanire come i fiocchi di neve che cadono, lievi e soavi, in silenzio, mossi dall’aria. Qualcuno si posa, altri spariscono lentamente, assottigliandosi, evanescenti.

Questo buio non può durare per sempre, se guardo attraverso le fessure, le piccole crepe dell’armatura che mi sta ricoprendo, posso vedere la vita, quella fuori da me. Potessero vedere anche gli altri attraverso, vedrebbero il mio sguardo, come quello di chi è sott’acqua, quasi senza fiato.

….


Foto di jess-zoerb da Unsplash

Candele rosse

Sono andati via.

Avevano tanti giri da fare ancora.

Sono rimasti gli incarti luccicanti a terra, sul tappeto, fili d’argento e rossi che pendono anche dalla stella di Natale. Qualche nastro scende dal lampadario, l’aveva lanciati il piccolo, mentre giocava.

Quanto sono carini i miei nipoti.

La televisione ha il volume ancora basso, e scorrono balletti sullo sfondo di alberi natalizi e luci colorate. Saranno rimasti contenti delle buste con i soldi? Non posso dargli di più, ma è meglio che comprare un regalino che poi non gli piace. E poi, cammino così male che qui intorno non avrei trovato niente di adatto. 

La bimba mi ha dato un bacetto e quel “Grazie nonna”, ancora mi batte nel cuore.

Mi hanno regalato una coperta di pile, come l’anno scorso. Ma è utile.

Peccato che si siano fermati così poco, hanno mangiato solo una fettina di pandoro e qualche cioccolatino. neanche il torrone. Quando c’era papà, mangiavamo sempre un pezzo di torrone insieme, era la tradizione.

Da un po’ di tempo non riesco più a fare la pasta fatta in casa, ma il brodo sì, lo avevo preparato, speravo che si fermassero almeno stasera, visto che domani saranno dall’altra nonna. Lei è più giovane, è ancora attiva, e poi, ci sono tutte quelle zie che li riempiranno di regali.

“Vai a dormire presto, mi raccomando mamma!”

I ricordi riappaiono vividi mentre li saluta, e il “Buon Natale” rimbomba nella tromba delle scale. L’ascensore si è chiuso.

É la Vigilia e per lei è già finita. Babbo Natale, qui, passa molto presto, e non si ferma.

Si prepara un piatto di anolini in brodo, uno solo, ma lascia apparecchiato per cinque. Aveva messo la tovaglia rossa e la decorazione al centro, con i candelabri e le candele rosse accese. Mette il suo piatto sul vassoio del girello e va lentamente dalla cucina alla sala.

Che silenzio.

Alza un po’ il volume della televisione, si mette a tavola e vorrebbe un bicchiere di spumante ma non ha la forza per aprirlo. Non lo avevano voluto, dovevano guidare.

La canzone Merry Christmas rimbalza sui muri, sulle fiammelle delle candele che cominciano a colare. Il brodo è caldo, lo beve lentamente, alza il viso verso la sala vuota e una lacrima scende piano, fino al piatto.


foto di Vasilina Sirotina da Unsplash

BOCCIOLI DI ROSE

L’accendino non funzionava. Continuava a fare cilecca. Poi, finalmente, la fiamma fece il suo lavoro e, dopo aver aspirato, salì una nuvola bianca. Era in cortile, l’ora d’aria.

Si avvicinò qualcuno a chiederle di accendere e non rispose. Guardava la punta delle scarpe, scarponcini blu, con i lacci, coperti da un po’ di polvere. Poi alzò lo sguardo e la persona se ne era andata.

Tutti camminavano, in due o tre, e parlavano. Quando qualcuno alzava la voce, arrivava subito un agente del penitenziario. Lei invece se ne stava seduta ad osservare, a volte guardava il cielo, poi seguiva il perimetro delle mura.

Le ricordava un muretto della sua casa, ma là c’era una rosa e dell’edera, e il colore del cielo era più bello.

Sarà per lo smog, pensò. Chissà se qualcuno ha concimato le rose, dovrò ricordarmi di chiederlo.

Aspettava l’avvocato, c’erano risvolti, così le aveva detto. Il tempo rallenta quando aspetti, la sabbia nella clessidra sembra bagnata.

Succede.

Qualcuno le si siede vicino. Le parla. Le mostra una foto con due bambine. Perché? Chi sei? Perché hai la foto delle mie figlie? Le strappa di mano la foto e comincia ad urlare.

PERCHÉ HAI LE FOTO DELLE MIE FIGLIE? CHI SEI?

Gli agenti arrivano di corsa, braccia che la bloccano mentre scalcia e si dimena, come un animale che intuisce la sua fine. Sembra di gomma e la riportano dentro in quattro, fino al reparto medico, dove una iniezione pone fine all’esagitazione.

E la mente appare più chiara, i ricordi affiorano. Tutto quel sangue, nei lettini, sui cuscini.

NO.

Il rifiuto, la corsa verso i lettini, gli abbracci e le urla chiamando le sue bambine.

Il sangue addosso e LUI, dietro di lei. LUI che non era più lui. Lui che le aveva fatto battere il cuore in gola, lui che aveva amato con ogni centimetro della sua pelle, lui che era stato suo. Le sue bambine, che erano state, LORO.

É confusa, ha paura. Cosa succede? Perché sono qui? Devo andare a casa.

E una flebo riporta la calma.

Ma vede. Chiaramente.

Ora vede e ricorda il dolore di un lama che le colpisce il braccio, l’urlo che rimane in gola, la fuga tra calci e orrore, scivolando sul pavimento, aggrappandosi ai mobili. Sente il fiato di LUI ma non si gira, sta correndo verso il balcone, esce e urla. Un’altra coltellata al fianco, la sua mano che cerca qualcosa, afferra un attrezzo, non sa cosa.

Poi un colpo, secco.

Si ricorda del suono, come quello delle noci spaccate a mano, mentre LUI crolla a terra.

E silenzio. Orribile silenzio, terrificante silenzio, assordante silenzio.

Devo dire a qualcuno di dare il concime alle rose.


foto di Manmohan Pandey da Unsplash

Richiam-ami.

Ti richiamo, mi avevi detto. A più tardi.

Aspetto. Aspetto la tua chiamata. Seduta al bar mentre la gente passa e io osservo.

Piccoli alberi sovrastano aiuole ormai secche, folate di vento sollevano granelli di sabbia ed io, chiudo gli occhi, un attimo.

Le tue mani, ho sempre amato le tue mani, con quelle vene scolpite come nel marmo, perfette. Mi sembra di vederle mentre dai briciole di croissant agli uccellini che venivano sempre. Ora non ci sono.

Portiere che si chiudono, macchine che partono.

Vuole un altro caffè? No, grazie. Aspetto.

Sono tutti dentro perché fa freddo, ma non lo sento. Vedo il mare in lontananza, si distingue appena dalla battigia, è plumbeo, quasi immobile.

Il tavolino di metallo riflette la mia ombra, la ingigantisce e non lascia spazio alla tua, che non c’è più.

Richiamami, ti prego. Richiamami.


foto kajetan-sumila- Unsplash.com