Riscrivere la realtà non è menzogna

Il rumore della porta che si chiude dietro di lei, ed è al buio, in casa, col cuore che sembra essersi fermato. Si guarda le mani che stanno tremando, la saliva sa di metallo, il respiro è corto. Accenna qualche passo ma crolla sulle ginocchia con la testa tra le mani, sta piangendo, ma si ferma, e pensa.

Cerca di rialzarsi sulle gambe tremule, si appoggia al muro con gli occhi chiusi e, quell’immagine, quel tonfo, lo sbandamento dell’auto, tutto continua a venirle in mente.

Non riesce a pensare ad altro. Non si era fermata. Corre ad aprire la finestra, ha caldo, fa troppo caldo, non respira. Fuori è silenzio, persiane chiuse, asfalto illuminato a chiazze dai lampioni, zone buie, zone di pericolo.

Perché? Perché a lei? Forse non era successo niente, forse lo aveva solo ferito. Non aveva visto nessuno, era buio, non c’era nessuno.

Che fare? E se è morto? E se ha visto la mia targa? Che fare? Chi chiamare a quest’ora ? Se mi fanno l’alcool test mi tolgono la patente, non posso rimanere senza macchina. E se è morto? Mi arresteranno, perderò il lavoro, sarò sula bocca di tutti. Chi chiamo?

La curva, la musica alta, la sigaretta e, nel buio, un’ombra.

Era un’ombra, non si vedeva niente, sembrava un cespuglio, un piccolo albero. Non l’ho fatto apposta, quella curva è pericolosa, ho dovuto stringere, è stato impossibile evitarlo.

C’è solo una piccola rientranza sul paraurti davanti a destra, come se avesse preso un palo durante un parcheggio.

Chi chiamo?

L’immagine nel retrovisore di una sagoma che rotolava dietro di lei sull’asfalto, fino a rimanere a faccia in su, immobile.

Qualcuno si sarà fermato, sarà già in ospedale. Tra poco sarà chiaro, chiamerò un avvocato, mi farò consigliare. L’ho solo urtato, l’ho solo urtato. Dirò la mia verità, non è menzogna, è il mio ricordo.

Non ricordo.


Foto da unsplash

Lo strano odore della notte

Le luci dei lampioni colpivano il cofano della macchina prima di ferire i suoi occhi. Aveva lasciato il finestrino un po’ abbassato, solo quel tanto che bastava a far entrare un soffio costante di aria fredda, che sfiorava la sua guancia e la sua spalla sinistra.

A quell’ora, non c’era molto traffico in autostrada, solo alcuni grossi camion che lo sorpassavano rumorosi, veloci, illuminando l’asfalto a giorno. L’ultimo che aveva visto, mostrava sul fianco un’immagine di un lupo dalle fauci aperte, e una serie di luci che trionfavano sul parabrezza.

Pensate che io non valga, mi rifiuto di essere piccolo perché voi pensate in piccolo.

Aveva acceso la radio e stava fumando. Le colline, massicce e scure, sembravano disegnate con la china, la luna era proprio dietro quei confini, nascosta. Vide una stazione di servizio.

La prossima, mi fermerò alla prossima.

Invece, di colpo, sterzò il volante ed entrò nel parcheggio immenso, desolato e deserto. Rimase seduto, col motore spento, in silenzio, poi, scese dalla macchina.

Non ridurrò la mia visone perché non riuscite a raggiungermi.

Camminò lentamente, respirando profondamente, ed entrò nel piccolo bar, dove un ragazzo stava lavando il pavimento.

Che strano odore ha la notte in questi posti, sa di metallo e sporco, pizzica il naso.

Prese un caffè, col sottofondo rumoroso del frigorifero, e vide il suo viso riflesso nello specchio dietro al bancone. Sembrava finto, grigio, una foto. Si girò verso il ragazzo che stava sistemando i pacchi di biscotti e gli sparò alla testa, appena sopra la nuca.

Un suono secco, come quello di un petardo, un tonfo, poi, più niente. Solo il rumore del frigorifero.


Foto di khamkeo-vilaysing da Unspalsh

Il cuscino a righe

Certe notti, quando apriva gli occhi di colpo, come se l’avessero svegliata, in quelle notti, sentiva il male di vivere. Le lacrime uscivano, i singhiozzi le toglievano il fiato, le veniva da urlare. Si può dare un nome a tutto questo? Uno solo? Avevano redatto un lungo elenco, in verità, per descrivere a fondo quella sensazione opprimente, quel senso di solitudine viscerale accompagnato da un dolore costante, profondo. La cosa grave era che se ne rendeva conto, sapeva di poter trovare la forza, continuando a sondare a fondo la sua vita. Una tortura, lenta e crudele, per ottenere la risposta, solo quella, quella che tutti si aspettavano.

Come inquisitori, con quello sguardo vuoto, assente, seduti mollemente ad osservare, scegliendo con cura lo strumento di supplizio più atroce: quello che ti lascia in vita, togliendotene la voglia.

Nei corridoi, si sentivano passi veloci, porte che si aprivano e si chiudevano, poi, silenzio. Gocce di sangue, gocce di sale, lamenti e urla.

Chiudi gli occhi, presto!

Fingeva di dormire, quando sentiva aprirsi la sua porta, e rimaneva immobile come una statua di cera.

No, ancora una pillola no! Ma l’acqua già scivolava nella gola, fredda, arrivava nello stomaco, pungente. E un buio pesante calava sui suoi occhi, obbligandola a chiuderli, la mente ancora attiva che s’infuriava, pensava di muoversi, lo pensava soltanto.

La luce filtrava dalle sbarre della finestra sul cuscino del letto di fianco, un cuscino a righe.


Foto da unsplash

C’era stato un tempo

Sono quasi le 09:30. Eccoli. Come ogni giorno, lui, che tenendo per mano sua madre, cammina piano, sul marciapiedi. Ha lo sguardo vuoto, i capelli ingrigiti e il passo stanco. Una vita di passi stanchi. Ma non era stato sempre così.

Se lo ricordava, un pò sopra le righe, studente alla facoltà di ingegneria, timido o riservato, sicuramente schivo. Camminava veloce, lo sguardo fisso a terra, preso dai suoi pensieri. C’era stato un tempo in cui aveva avuto una ragazza, carina, allegra, e anche lui, aveva perso quella patina grigia. Una storia durata pochi mesi, tra i lamenti della madre, un mugugno continuo e incessante, come un rubinetto gocciolante. Lo sapevano tutti, ma non sapevano fino a che punto.

Suo padre era morto da pochi anni e la madre si era avvinghiata a lui, una mantide che aveva scambiato l’amore per il possesso. Nessuna era abbastanza per suo figlio, nessuna poteva intromettersi tra loro. Erano gli anni in cui, se restavi incinta, venivi bruciata nel rogo dei pettegolezzi più crudeli e il matrimonio riparatore era l’unica soluzione.

Sono sicuramente andati a fare la spesa, come ogni giorno, per percorrere poi, a ritroso, la via fino a casa.

Si sentono delle urla, qualcuno sta chiamando. É lui, sua madre è scivolata sui gradini della piccola salita nel borgo antico. É a terra, la mano che tiene stretta la borsetta, non dice niente, si appoggia alle gambe di lui.

Tempo di arrivare e ci sono già due signore anziane che cercano di aiutare. State ferme! Ci manca solo che cadiate anche voi.

Come una squadra di soccorso, lui con le ginocchia dietro la schiena della madre e lei, prendendola sotto le ascelle, la sollevano piano piano, dopo aver constatato che non avesse fratture.

É leggera, piccola e ossuta, e la guarda fisso negli occhi. Non la riconosce subito e il suo sguardo diventa pungente, la bocca si allunga in una linea sottile. Fa un movimento stizzoso per staccarsi dalle sue braccia, poi volge lo sguardo a lui.

“Ma è la moglie di Alessandro, mamma. Non la ringrazi?”

Si volta ed ora sorride, dietro quelle labbra sottili, ma lo sguardo rimane freddo, vivido e sfidante. Lui ringrazia e riprendono a camminare. Ora, lui, la segue.

A fine mese, nel giornale locale, in prima pagina:

“Orrore in Via Pascoli”

L’ing. Piena accusato di omicidio

I Carabinieri sono intervenuti ieri sera, nell’appartamento dei signori Piena, in Via Pascoli, dopo una segnalazione, da parte dei vicini, di grida convulse. Una volta entrati si sono trovati di fronte ad una scena agghiacciante. La signora Neve, deceduta, nel suo letto, ma ancora vestita. Il figlio, l’ing. Fausto Piena, era invece nudo e in stato confusionale, con i polsi sfregiati. Da esami accurati, è emerso che la signora non è morta per cause naturali ma per soffocamento. L’ing. Fausto Piena non è in pericolo di vita ma è attualmente ritenuto colpevole di omicidio. Conosciuti entrambi da tutta la comunità, l’accaduto ha suscitato sgomento e incredulità.


Foto di juan-davila da Unsplash

Il racconto è frutto della fantasia dell’autrice. Ogni riferimento a fatti o persone è del tutto casuale.

BOCCIOLI DI ROSE

L’accendino non funzionava. Continuava a fare cilecca. Poi, finalmente, la fiamma fece il suo lavoro e, dopo aver aspirato, salì una nuvola bianca. Era in cortile, l’ora d’aria.

Si avvicinò qualcuno a chiederle di accendere e non rispose. Guardava la punta delle scarpe, scarponcini blu, con i lacci, coperti da un po’ di polvere. Poi alzò lo sguardo e la persona se ne era andata.

Tutti camminavano, in due o tre, e parlavano. Quando qualcuno alzava la voce, arrivava subito un agente del penitenziario. Lei invece se ne stava seduta ad osservare, a volte guardava il cielo, poi seguiva il perimetro delle mura.

Le ricordava un muretto della sua casa, ma là c’era una rosa e dell’edera, e il colore del cielo era più bello.

Sarà per lo smog, pensò. Chissà se qualcuno ha concimato le rose, dovrò ricordarmi di chiederlo.

Aspettava l’avvocato, c’erano risvolti, così le aveva detto. Il tempo rallenta quando aspetti, la sabbia nella clessidra sembra bagnata.

Succede.

Qualcuno le si siede vicino. Le parla. Le mostra una foto con due bambine. Perché? Chi sei? Perché hai la foto delle mie figlie? Le strappa di mano la foto e comincia ad urlare.

PERCHÉ HAI LE FOTO DELLE MIE FIGLIE? CHI SEI?

Gli agenti arrivano di corsa, braccia che la bloccano mentre scalcia e si dimena, come un animale che intuisce la sua fine. Sembra di gomma e la riportano dentro in quattro, fino al reparto medico, dove una iniezione pone fine all’esagitazione.

E la mente appare più chiara, i ricordi affiorano. Tutto quel sangue, nei lettini, sui cuscini.

NO.

Il rifiuto, la corsa verso i lettini, gli abbracci e le urla chiamando le sue bambine.

Il sangue addosso e LUI, dietro di lei. LUI che non era più lui. Lui che le aveva fatto battere il cuore in gola, lui che aveva amato con ogni centimetro della sua pelle, lui che era stato suo. Le sue bambine, che erano state, LORO.

É confusa, ha paura. Cosa succede? Perché sono qui? Devo andare a casa.

E una flebo riporta la calma.

Ma vede. Chiaramente.

Ora vede e ricorda il dolore di un lama che le colpisce il braccio, l’urlo che rimane in gola, la fuga tra calci e orrore, scivolando sul pavimento, aggrappandosi ai mobili. Sente il fiato di LUI ma non si gira, sta correndo verso il balcone, esce e urla. Un’altra coltellata al fianco, la sua mano che cerca qualcosa, afferra un attrezzo, non sa cosa.

Poi un colpo, secco.

Si ricorda del suono, come quello delle noci spaccate a mano, mentre LUI crolla a terra.

E silenzio. Orribile silenzio, terrificante silenzio, assordante silenzio.

Devo dire a qualcuno di dare il concime alle rose.


foto di Manmohan Pandey da Unsplash