Sono sdraiata da più di mezz’ora. Forse meno. Non respiro bene, mi sento rintronata, ho la bocca secca e un saporaccio che mi fa venire conati di vomito in continuazione.
La mia macchina è là, di traverso e un po’ rialzata. Sembra tentare di scavalcare il guard-rail ma senza riuscirci, e perde ancora del liquido, forse dell’olio, anche se i vigili del fuoco la hanno inondata di schiuma. C’é tanto caos ma ora l’aria è più chiara, spostata dalle eliche di un elicottero atterrato lontano, in mezzo al campo. Mi arriva l’odore dell’erba, mischiato a quello del cherosene e del sangue. Proprio sotto la coltre di fumo si vede l’asfalto bagnato, intriso, lucido, e tanti scarponi lambiti da tute fosforescenti che sembrano senza un corpo.
Appena dopo l’impatto, che ricordo come uno spintone violento e rumoroso, devo aver perso i sensi. Non so chi mi ha estratto dalla macchina e mi ha deposto qui, sul ciglio della strada, nella corsia di emergenza. Non sono sola, ci sono altre tre persone stese a terra.
I rumori sono ovattati, non sento, vedo solo delle sagome che corrono e, al di là della cortina grigia, appare e scompare una lunga carovana di macchine, i fari accesi, ombre in piedi che guardano da questa parte.
Non riesco a girare il collo, mi devo muovere piano, dovrei girare anche il busto per guardare dall’altra parte.
In quell’inferno schizzano lapilli, piccoli fuochi d’artificio tra le luci rosse, e le figure che appaiono, per un attimo, sono maschere coperte di fuliggine, con la bocca che si apre e si chiude in un urlo.
Il cielo, il cielo è ancora là, in alto.
Arriva un po’ d’aria e si sentono, in lontananza, le sirene delle ambulanze che cercano di farsi spazio nel traffico immobile, dall’altra parte dell’autostrada.
Dovrei telefonare. Sì, devo avvisare. Ora chiedo.
Sposto lo sguardo perché hanno smesso di tagliare lamiere, non ci sono più lapilli. Dall’alone grigio sta emergendo una carcassa enorme e lunga, un pachiderma ferito e sdraiato su un fianco dipinto di viola e giallo, piegato in due, una enorme V che ha abbracciato una macchina, ma l’ha stretta troppo, davvero troppo.
C’è silenzio.
Di colpo, due mani mi prendono il viso, qualcuno mi parla, è un medico. Non sento. Mi spara una luce nelle pupille e ho un momento di terrore, come un attimo prima dello schianto. Si allontana.
Dove vai? Cosa faccio? Devo telefonare.
Passa una barella, poi un’altra, un’altra ancora. Sono corpi, feriti coperti di sangue che si mischia ai capelli e a quello che rimane di abiti bruciati, incollati alla carne carbonizzata. Ad uno manca una scarpa. Sembrano vivi, si muovono, si contorcono. Sembrano vivi.
C’è una barella grande, enorme, con un cucciolo d’uomo. Non ha più capelli, è un bambolotto bruciato a metà. Non si lamenta, guarda fisso in alto, guarda il cielo. Dentro di me sento le sue lacrime e mi sembra di affogare.
Devo telefonare.





