F, G o C.

Se ne stava seduta su una seggiolina, guardandosi intorno. Era arrivata da quasi dieci minuti, e la tensione stava salendo. C’era silenzio in quella parte del palazzo, una casa isolata, non antica ma vecchia, in mezzo ad un grande parco comune. L’inconfondibile odore di muffa e terra bagnata saliva dalla tromba delle scale fino al suo piano, l’ultimo. Sembrava che fosse l’unico appartamento abitato. D’altra parte, il “mestiere ” dell’inquilina, poteva mettere un pò a disagio. Si era fatta convincere da un’amica che la frequentava da tempo, ed era entusiasta delle potenzialità della signora.

Stava fissando una mattonella sul pavimento quando sentì aprirsi il chiavistello della porta. Voci, una signora elegante che ringrazia ed esce veloce, saluta appena e scende di corsa le scale. Dietro la porta, nella penombra, una figura scura la invita ad entrare, parlando veloce. Neanche il tempo di alzarsi ed entrare in un ingresso poco illuminato, che da una stanza poco più in là, qualcuno le chiede, o meglio, le dice, di chiudere la porta.

Pochi passi e si trova in una stanza piena di immagini sacre, profumata con, al centro, un tavolo e delle sedie. Una signora dai lunghi capelli neri raccolti in una lunga treccia, le chiede il nome, la invita ad accomodarsi.

“Stia tranquilla. Se non vogliono parlare con lei, non verrà nessuno.”

E l’ansia cresce.

Potrebbero non volermi parlare? Certo. In fondo forse li disturbo.

“Guardi che non li disturba.” La signora stava spargendo alcol nell’aria.

“Per gli spiritelli. Sono davvero snervanti.”

Meglio non chiedere. Da dove comincio?

“Allora, ce n’è uno di fianco a lei.” Intanto la signora stava scrivendo, assorta, e non si fermava.

“Comincia con la lettera F. Lo spirito è una donna, e le vuole bene. Perché le vuole parlare?”

Continuava a scrivere, sembrava una furia, riempiva pagine con una calligrafia che sembrava un disegno.

“Potrebbe essere mia mamma…”

“Non parli con me, parli con sua madre.”

Non ce la faccio, non ce la faccio. Ma che sto facendo? Mamma, se sei tu, voglio solo dirti che mi dispiace, mi dispiace.

La voce non le usciva. La medium si fermò, alzo lo sguardo, due occhi scuri e vuoti. Le prese le mani e le sembrò che le luci della sala brillassero, mentre avvertiva una sensazione di assoluta calma. La signora riprese a scrivere.

“Non so se sia sua madre, di certo le vuole bene e sta bene. Sta parlando di una scatola o un contenitore, qualcosa che sembra importante… Ora se ne è andata. Ci sono anche altri due, sono voluti venire, uno è davvero piccolo, è una bambina, molto intelligente, mi sembrava un adulto, l’altro invece sta parlando di una pipa.”

” Papà! Sei tu? E la bambina? Dice qualcosa?”

“La sta osservando, non la conosce molto, è curiosa… intelligente. G o C, no, G.”

La mente che sta impazzendo, G. Chi conosco che comincia con G? Anzi, chi conoscevo. Ma il mio papà? Non dice più niente?

“Mia cara, sono attimi. Perdono molta energia quando si manifestano. Solo nei film si fanno quattro chiacchiere… il fatto che siano venuti senza chiamarli è davvero un bel segno. La pensano quando lei li pensa, ma sono altrove, hanno altro da fare.”

La seduta si conclude e le sembra che sia durata pochissimo, invece è passata quasi un’ora. La signora è spossata, muove il collo e parla veloce.

Lei paga un’offerta, si alza seguendo la treccia nera che oscilla sulla schiena della signora, saluta nella penombra dell’ingresso ed è fuori.

Non sa se è delusa o sconvolta o dubbiosa. Certo, aveva azzeccato le iniziali di mamma, e la pipa la fumano in molti, ma la lettera G? Quella bambina.

GIADA! La prima figlia di mio zio! Saranno passati più di 40 anni…

Cosa le rimaneva di questa esperienza? Una sorta di tremore, le mani sudate, l’insicurezza e una voglia incredibile di piangere.

A casa, a casa cercherò la scatola dove mamma metteva tutte le foto e i suoi scritti. A casa.

E s’incamminò sul selciato tra gli alberi, respirando, guardando il cielo.


foto da unsplash

Riscrivere la realtà non è menzogna

Il rumore della porta che si chiude dietro di lei, ed è al buio, in casa, col cuore che sembra essersi fermato. Si guarda le mani che stanno tremando, la saliva sa di metallo, il respiro è corto. Accenna qualche passo ma crolla sulle ginocchia con la testa tra le mani, sta piangendo, ma si ferma, e pensa.

Cerca di rialzarsi sulle gambe tremule, si appoggia al muro con gli occhi chiusi e, quell’immagine, quel tonfo, lo sbandamento dell’auto, tutto continua a venirle in mente.

Non riesce a pensare ad altro. Non si era fermata. Corre ad aprire la finestra, ha caldo, fa troppo caldo, non respira. Fuori è silenzio, persiane chiuse, asfalto illuminato a chiazze dai lampioni, zone buie, zone di pericolo.

Perché? Perché a lei? Forse non era successo niente, forse lo aveva solo ferito. Non aveva visto nessuno, era buio, non c’era nessuno.

Che fare? E se è morto? E se ha visto la mia targa? Che fare? Chi chiamare a quest’ora ? Se mi fanno l’alcool test mi tolgono la patente, non posso rimanere senza macchina. E se è morto? Mi arresteranno, perderò il lavoro, sarò sula bocca di tutti. Chi chiamo?

La curva, la musica alta, la sigaretta e, nel buio, un’ombra.

Era un’ombra, non si vedeva niente, sembrava un cespuglio, un piccolo albero. Non l’ho fatto apposta, quella curva è pericolosa, ho dovuto stringere, è stato impossibile evitarlo.

C’è solo una piccola rientranza sul paraurti davanti a destra, come se avesse preso un palo durante un parcheggio.

Chi chiamo?

L’immagine nel retrovisore di una sagoma che rotolava dietro di lei sull’asfalto, fino a rimanere a faccia in su, immobile.

Qualcuno si sarà fermato, sarà già in ospedale. Tra poco sarà chiaro, chiamerò un avvocato, mi farò consigliare. L’ho solo urtato, l’ho solo urtato. Dirò la mia verità, non è menzogna, è il mio ricordo.

Non ricordo.


Foto da unsplash

Lo strano odore della notte

Le luci dei lampioni colpivano il cofano della macchina prima di ferire i suoi occhi. Aveva lasciato il finestrino un po’ abbassato, solo quel tanto che bastava a far entrare un soffio costante di aria fredda, che sfiorava la sua guancia e la sua spalla sinistra.

A quell’ora, non c’era molto traffico in autostrada, solo alcuni grossi camion che lo sorpassavano rumorosi, veloci, illuminando l’asfalto a giorno. L’ultimo che aveva visto, mostrava sul fianco un’immagine di un lupo dalle fauci aperte, e una serie di luci che trionfavano sul parabrezza.

Pensate che io non valga, mi rifiuto di essere piccolo perché voi pensate in piccolo.

Aveva acceso la radio e stava fumando. Le colline, massicce e scure, sembravano disegnate con la china, la luna era proprio dietro quei confini, nascosta. Vide una stazione di servizio.

La prossima, mi fermerò alla prossima.

Invece, di colpo, sterzò il volante ed entrò nel parcheggio immenso, desolato e deserto. Rimase seduto, col motore spento, in silenzio, poi, scese dalla macchina.

Non ridurrò la mia visone perché non riuscite a raggiungermi.

Camminò lentamente, respirando profondamente, ed entrò nel piccolo bar, dove un ragazzo stava lavando il pavimento.

Che strano odore ha la notte in questi posti, sa di metallo e sporco, pizzica il naso.

Prese un caffè, col sottofondo rumoroso del frigorifero, e vide il suo viso riflesso nello specchio dietro al bancone. Sembrava finto, grigio, una foto. Si girò verso il ragazzo che stava sistemando i pacchi di biscotti e gli sparò alla testa, appena sopra la nuca.

Un suono secco, come quello di un petardo, un tonfo, poi, più niente. Solo il rumore del frigorifero.


Foto di khamkeo-vilaysing da Unspalsh

Il cuscino a righe

Certe notti, quando apriva gli occhi di colpo, come se l’avessero svegliata, in quelle notti, sentiva il male di vivere. Le lacrime uscivano, i singhiozzi le toglievano il fiato, le veniva da urlare. Si può dare un nome a tutto questo? Uno solo? Avevano redatto un lungo elenco, in verità, per descrivere a fondo quella sensazione opprimente, quel senso di solitudine viscerale accompagnato da un dolore costante, profondo. La cosa grave era che se ne rendeva conto, sapeva di poter trovare la forza, continuando a sondare a fondo la sua vita. Una tortura, lenta e crudele, per ottenere la risposta, solo quella, quella che tutti si aspettavano.

Come inquisitori, con quello sguardo vuoto, assente, seduti mollemente ad osservare, scegliendo con cura lo strumento di supplizio più atroce: quello che ti lascia in vita, togliendotene la voglia.

Nei corridoi, si sentivano passi veloci, porte che si aprivano e si chiudevano, poi, silenzio. Gocce di sangue, gocce di sale, lamenti e urla.

Chiudi gli occhi, presto!

Fingeva di dormire, quando sentiva aprirsi la sua porta, e rimaneva immobile come una statua di cera.

No, ancora una pillola no! Ma l’acqua già scivolava nella gola, fredda, arrivava nello stomaco, pungente. E un buio pesante calava sui suoi occhi, obbligandola a chiuderli, la mente ancora attiva che s’infuriava, pensava di muoversi, lo pensava soltanto.

La luce filtrava dalle sbarre della finestra sul cuscino del letto di fianco, un cuscino a righe.


Foto da unsplash

Non ho più il mio testimone

Quando si perde il proprio compagno/a, si vive a metà. Parlo dei fortunati, come me, che hanno vissuto l’amore.

Quello.

Non esiste altro tipo, tutte le altre esperienze di coppia, rimangono appunto, esperienze, con diversi gradi di profondità, intimità, condivisione. Forse non tutti cerchiamo lo stesso tipo di rapporto.

Oggi, ascoltando il prof. Galimberti che parlava di sua moglie, da poco deceduta, mi ha colpito la sua definizione di perdita. Non ha parlato di vuoto d’amore ma di assenza di testimone, dell’unica persona a cui raccontare di sé, dei propri pensieri, senza filtri, né vergogna, né remore, sicuro di non essere giudicato.

L’unica persona a cui lasciare tutto se stesso.

Ecco. Questa è stata la mia perdita.


Jean René est à Versailles

Quegli occhi

un tempo abissi

scintillavano, sì, direi così

profondi e inafferrabili

pulsavano vita

come nuvole cariche di ghiaccio

elettricità

ricordi?

Persa

in fondo no

aspetto

proprio qui

un lampo dorato

ancora una volta.

Ancora.

Tes yeux
étaient des abîmes
ils brillaient, oui, vraiment
profonds et insaisissables
ils palpitaient de vie
comme des nuages, pleins de glace
électricité
tu te souviens?
je suis perdu
au final non
J'attends
ici
un éclair doré
encore une fois.
Encore.

L’ultima notte

Oggi hai paura. Chissà perché capita, ogni tanto. Dicono che è una risposta ad una percezione, e allora ti prepari ad attaccare, stai sulla difensiva. É che stai sempre a pensare, non fa bene, non fa bene. Finisci con l’avere paura della paura, e lo avverti, il battito cardiaco aumenta, hai le mani fredde.

Come quando eri bambina, ecco, quei momenti in cui, nascosta sotto il lenzuolo, nel buio, ti sembrava di sentire una presenza. Era tuo padre.

Via, scaccia il mostro.

Il mostro è nel passato e il passato non ti cerca, non può riconoscerti. Smettila di dargli la caccia.

Mentre fissi i macchinari dell’ospedale, le luci azzurrognole e fredde dei neon, quel vecchio davanti a te, pieno di tubicini, ramificazioni di fili che lo collegano a complessi apparati medici, senti i suoni metallici e lontani, i soli che ne confermano la vita.

Lo guardi, quello è tuo padre.

É tuo padre?

Sotto quelle luci ora lo vedi, in tutti i suoi lati oscuri, immobile, come se lo avessero bloccato, catturato. Ora non può più venire a trovarti nella notte, non potrà mai più.

Allora perché sento freddo? Perché ho paura? Forse ti ho voluto bene, o qualcosa di simile.

Volere bene.

Ora che lo vedi impotente, fragile, come un burattino a cui puoi tagliare i fili, ora che non parla più, quasi non ti interessa.

Ti alzi dalla sedia e sposti lo sguardo sui vetri, fuori fa freddo ma qui dentro si muore dal caldo. C’é un parcheggio, qualche albero, due persone che camminano veloci con una busta di carta. Che ci sarà dentro? Dei fiori, sicuramente. Tu non ne avevi portati. Sospiri e aspetti. Senti le voci nel corridoio, i passi attutiti, qualche risata.

È tanto che non rido.

Entrano due infermieri, salutano e vanno da lui. Lo sistemano, controllano.

Ha le labbra secche, sembra un frutto lasciato al sole, raggrinzito, contorto, con un ciuffo bianco sparso sul cuscino in cui sparisce la sua testa. La stessa che vedevi immensa, nel buio, a occhi chiusi. I suoi occhi non li ricordi, erano piccoli punti luminosi, non li ricordi.

“Signora, viene domani? Forse è l’ultima notte.”

L’ultima notte.

Per chi?


Foto di Angel Luciano da Unsplash