La Fama Postuma

Ho appena letto il post di Melissa Miele e lo trovo un bellissimo preambolo al mio.

Scrivere un romanzo è complicato. Gli Autori, quelli degni di questa qualifica, scrivono quello che hanno nel cuore e nella mente, strappano un pezzo della loro carne, delle loro viscere, per tradurle in parole. Non c’è niente di artefatto o forzato, è naturale. Nascono così i racconti, le poesie ed anche i romanzi.

Su questo Social ho letto molto, in cerca di sorprese, gemme nascoste, non ancora catturate dal marketing, non ancora su uno scaffale del supermercato. Autori. E ne ho trovati, così come ho trovato blog interessanti, ricchi di contenuti. Mi piace condividere, ripubblicare post che fanno riflettere, poesie o racconti talmente belli che vorrei averli scritti io.

È come essere Alì Baba di fronte alla grande Caverna WP, e “apriti sesamo” è l’augurio che faccio a tutti noi, perché si dischiuda lasciandoci girovagare nella ricerca di ciò che più ci aggrada. 

Questo lo possiamo fare, siamo al timone, in questa nuova comunicazione che sfreccia sul binario del marketing, noncurante del carico ma solo della meta.

Molti, forse anch’io, resteranno sconosciuti, anche se hanno avuto la fortuna di essere selezionati da una delle rare Case editrici che non chiedono una co-produzione, ma offrono un contratto normale (tralascio il capitolo provvigioni vendite che in Italia varia dall’8% al 10%). 

Soddisfatta? Mah. Sono due livelli separati, l’avere successo e il piacere di scrivere qualcosa di bello. Sì, di bello.”

bene sit vobis 


Vanagloria

P: “Vanagloria. Cosa significa?” Chiese il professore.

P: ” Cercate di non darmi definizioni scontate, cercate di usare le vostre esperienze, l’immaginazione.”

Vanità, autocompiacimento, presunzione, fatuo orgoglio, superbia, megalomania, esibizionismo…

Fioccarono le risposte, prima piano, poi come una valanga improvvisa e incontrollabile. Li lasciò sfogarsi, nella ricerca della definizione più appropriata o originale, tra i ricordi di quanto letto, studiato o ascoltato in qualche video.

P: “L’ambizione, può essere vanagloria? Chi è diventato famoso, rientra in questa categoria?”

Occhi fissi, telefonini sotto i libri, bocche che, semiaperte, hanno tanto da dire ma proprio non riescono ad articolare una risposta semplice.

P: “Pensate ai vostri idoli, ai personaggi che ammirate… Peccano di vanagloria?”

S: ” Beh… no. Sono arrivati perché hanno avuto l’intelligenza, il fiuto, la prontezza e anche la furbizia di fare la cosa giusta al momento giusto…”

P: “E la preparazione? L’impegno? La cultura?”

S: “Certo, servono, ma non sempre.”

P: ” Non sempre. Perché?”

S: “Perché oggi devi esistere, devono già conoscerti, poi, il resto arriva.”

Finita la lezione, si cambia classe.

P: “O Capitano, mio Capitano!”.

Il professore pensò a Whitman e al film, l’Attimo fuggente, che spronava i ragazzi a vivere per sé stessi, ad inseguire i propri sogni, e che, alla fine, esistere, significava essere.

Prima di uscire, osservò i ragazzi, teste basse sugli schermi, scrollavano le immagini velocemente. Tutto e subito, non importa se è vanagloria.


Foto di erik-eastman- da Unsplash

C’era stato un tempo

Sono quasi le 09:30. Eccoli. Come ogni giorno, lui, che tenendo per mano sua madre, cammina piano, sul marciapiedi. Ha lo sguardo vuoto, i capelli ingrigiti e il passo stanco. Una vita di passi stanchi. Ma non era stato sempre così.

Se lo ricordava, un pò sopra le righe, studente alla facoltà di ingegneria, timido o riservato, sicuramente schivo. Camminava veloce, lo sguardo fisso a terra, preso dai suoi pensieri. C’era stato un tempo in cui aveva avuto una ragazza, carina, allegra, e anche lui, aveva perso quella patina grigia. Una storia durata pochi mesi, tra i lamenti della madre, un mugugno continuo e incessante, come un rubinetto gocciolante. Lo sapevano tutti, ma non sapevano fino a che punto.

Suo padre era morto da pochi anni e la madre si era avvinghiata a lui, una mantide che aveva scambiato l’amore per il possesso. Nessuna era abbastanza per suo figlio, nessuna poteva intromettersi tra loro. Erano gli anni in cui, se restavi incinta, venivi bruciata nel rogo dei pettegolezzi più crudeli e il matrimonio riparatore era l’unica soluzione.

Sono sicuramente andati a fare la spesa, come ogni giorno, per percorrere poi, a ritroso, la via fino a casa.

Si sentono delle urla, qualcuno sta chiamando. É lui, sua madre è scivolata sui gradini della piccola salita nel borgo antico. É a terra, la mano che tiene stretta la borsetta, non dice niente, si appoggia alle gambe di lui.

Tempo di arrivare e ci sono già due signore anziane che cercano di aiutare. State ferme! Ci manca solo che cadiate anche voi.

Come una squadra di soccorso, lui con le ginocchia dietro la schiena della madre e lei, prendendola sotto le ascelle, la sollevano piano piano, dopo aver constatato che non avesse fratture.

É leggera, piccola e ossuta, e la guarda fisso negli occhi. Non la riconosce subito e il suo sguardo diventa pungente, la bocca si allunga in una linea sottile. Fa un movimento stizzoso per staccarsi dalle sue braccia, poi volge lo sguardo a lui.

“Ma è la moglie di Alessandro, mamma. Non la ringrazi?”

Si volta ed ora sorride, dietro quelle labbra sottili, ma lo sguardo rimane freddo, vivido e sfidante. Lui ringrazia e riprendono a camminare. Ora, lui, la segue.

A fine mese, nel giornale locale, in prima pagina:

“Orrore in Via Pascoli”

L’ing. Piena accusato di omicidio

I Carabinieri sono intervenuti ieri sera, nell’appartamento dei signori Piena, in Via Pascoli, dopo una segnalazione, da parte dei vicini, di grida convulse. Una volta entrati si sono trovati di fronte ad una scena agghiacciante. La signora Neve, deceduta, nel suo letto, ma ancora vestita. Il figlio, l’ing. Fausto Piena, era invece nudo e in stato confusionale, con i polsi sfregiati. Da esami accurati, è emerso che la signora non è morta per cause naturali ma per soffocamento. L’ing. Fausto Piena non è in pericolo di vita ma è attualmente ritenuto colpevole di omicidio. Conosciuti entrambi da tutta la comunità, l’accaduto ha suscitato sgomento e incredulità.


Foto di juan-davila da Unsplash

Il racconto è frutto della fantasia dell’autrice. Ogni riferimento a fatti o persone è del tutto casuale.

Il 43

Arriva il 43, quasi in orario. Non c’è molta gente ma qualcuno deve sempre passare davanti agli altri, in coda. Piccoli soprusi da piccole persone. Non ci fa caso, non è importante, c’è posto e il tragitto sarà breve. L’autobus riparte tra il rumore di ferraglia, sbuffando, con la gente ancora in piedi che si aggrappa ovunque e si siede come se fosse emersa da una nuotata infinita. Lei, se ne sta in piedi, appoggiata al finestrino, vicino allo spazio per le carrozzine.

Mentre osserva fuori, due ragazze stanno ridendo forte, coprendo il vociferare e i dialetti incomprensibili che riempiono l’abitacolo. Risate squillanti, che tolgono il fiato, emanano quasi luce, un’aura leggera, come se fossero sospese. Tutt’intorno c’è il grigiore di percorsi conosciuti, fotocopie di stanche routine, occhi che hanno smesso di guardare il paesaggio e rimangono fissi sul sedile davanti. Vite ammaccate da sogni infranti, perduti, dimenticati.

Teste, tante teste. Chissà a cosa pensano? C’è una vecchietta con i capelli schiacciati sulla nuca, le gambe che non arrivano a terra e una borsa enorme sul sedile di fianco. Qualcuno le darà una mano quando dovrà scendere? Quel signore di fianco, seduto al di là del corridoio, si alzerà?

Appanna il vetro con il fiato, per disegnare un cuore, come se avesse dodici anni, come quando le batteva forte il cuore, vedendolo salire, quel ragazzino, riccio e un po’ timido, che la guardava da lontano. Quando aveva perso quell’emozione? Quando erano apparse le barriere ai brividi, alla vergogna, all’entusiasmo innocente? Si diventa più forti nascondendo i turbamenti, eccitazione e commozione sono tenuti in serbo, come il servizio buono, per le occasioni speciali. 

Il 43 rallenta e si ferma. La signora anziana arranca col suo grosso bagaglio fino alle porte che si aprono. Sta per andare ad aiutarla ma una delle ragazzine la precede, sorride e le scarica il grosso fagotto, poi, salta di nuovo sul bus e si siede.

Quanta luce.


Foto di sam mcnamara – da Unsplash

Giro di vite

Impulso di scrittura giornaliero
Se ci fosse una biografia su di te, quale sarebbe il titolo?

Parto subito scrivendo che le migliori biografie sono quelle fatte dopo la dipartita del soggetto. Quindi, gesti scaramantici a parte, è molto difficile avventurarsi in una “auto-descrizione” da vivente, perché si spera, tra l’altro, di avere ancora tanto da fare… Così anche il titolo potrebbe cambiare, più volte. Oggi, forse, guardandomi negli anni vissuti e nelle scelte fatte o subite, volendomi un po’ bene, direi che “Giro di vite” , Il titolo del romanzo di Henry James (horror a parte),  mi appartiene.

La dama di ghiaccio

Arrivava ogni mattina, quasi sempre alla stessa ora, quando il sole era abbastanza alto per farsi notare tra gli spogli rami grigi dei castagni.

Fuori dal bar, le sedie erano vuote, i tavolini deserti, tutto era ricoperto da una patina di brina, anche quelli che stavano sotto il piccolo pergolato di gelsomino, che non aveva ancora perso le foglie, nonostante il freddo. 

Lei entrava nel bar, ordinava sempre lo stesso e si sedeva fuori, cercando la luce, l’aria e una sedia asciutta. La gente da dentro la osservava, allibita, vista la temperatura.

Indossava un solo guanto, la mano scoperta sollevava la tazza di cappuccino fumante. Rimaneva un po’ a fissare la minuscola torre di vapore combattere l’aria gelata, resistere il più possibile, in suo onore. E i raggi del sole, lambivano le foglie tutt’intorno, illuminandone i contorni argentei.

Anche l’asfalto della strada brillava, lasciando intravedere una lunga striscia fino al campetto di calcio, abbandonato.

Dietro di lei, riparati nella “costruzione di mezzo”, né al chiuso, né all’aperto, diverse persone stavano fumando in piedi, muovendosi, riparate da pareti di plastica trasparente, come topi da laboratorio.

Ora il sole era arrivato a baciarle le fronte, scaldarle la mano. Si accese una sigaretta, sorridendo.

Buongiorno anche a te.


Foto di demi-kwant- da Unsplash

Partenze

É presto. La stazione, già gremita, l’accoglie con le fauci aperte, l’alito pesante di zaffate di polvere, cornetti precotti scaldati sulle piastre. Un rumore continuo, in sottofondo, incomprensibile. Voci sgarbate, cadenze straniere, pianti di bambini, lamenti di chi si è perso, quasi ritmati dall’arrivo e partenza dei treni.

Controlla il suo treno sul cartellone ma, ancora, non è stato assegnato il binario. Alla fine, le toccherà correre, unirsi ad una di quelle lunghe file di gente che cammina veloce, trascinandosi il bagaglio, la famiglia. Sembra un reticolato di vene pulsanti, in tutte le direzioni, si formano spontaneamente, basta che uno sussurri “siamo al binario 12”, e come Mosè, viene seguito, con fiducia. 
Si è posizionata nel mezzo, azzardando una statistica in base alle partenze precedenti, a volte funzionava. E lo vede. Anzi, prima lo sente, avverte uno sguardo. 
Si gira e per un attimo, incrocia degli occhi, sembrano immensi e familiari.

Ma appare il suo binario, ed è lontano. Correre. Infilarsi nel lungo verme di passeggeri che stanno andando proprio la’, attenta a non inciampare in qualche bagaglio, a non urtare nessuno. 
Mancano quattro minuti, sembrano pochi ma ci arriverà, come sempre.  Salire sul treno, raggiungere il suo posto e sistemarsi, sorretta da un’adrenalina che sfuma non appena si siede. Chiude gli occhi un momento, ignorando il via vai nel corridoio, guardando fuori.

E lo sente, di nuovo, quello sguardo. 
Lui è poco più in là, con un libro davanti, gli occhiali un po’ scesi, la sta guardando. Un sorriso di circostanza, un eureka sommesso, un’ inspiegabile connessione tra le pagliuzze della sua iride e quelle di lui. Parte il treno, lentamente, occhi negli occhi. 
Si parleranno. Troveranno il modo, il momento giusto.

La vita, glielo indicherà, basta aspettare che appaia sul suo cartellone


Goto di bacila-vlad- da Unsplash

Folla senza volto

Oggi sta andando al MAXXI, per la Collezione di Design Contemporaneo.  Reinterpretazione a tutto tondo, il gioco-design. Quello che avrebbe dovuto fare con la sua vita. Da quanto tempo non giocava? Arriva e c’è un albero blu, al centro di una fontana.

Legge: Brainforest di Pascale Marthine Tayou. La natura che fiorisce nel cuore della città eterna, da cui partono tutte le strade che abbracciano la terra.

Ha il colore dei fiumi, dell’acqua che arriva ovunque, e offre i suoi frutti colorati, in forma di oggetti etnici, maschere e documenti di viaggio, testimoni del dramma del presente. La colpisce che la artista parli dello …sguardo minaccioso della folla senza volto.

Nella lobby del MAXXI la accoglie la Falena, di Nico Vascellari, due metri e mezzo di fulgidi raggi, falci, placcate in oro. Eclettico.

Legge: Riflessioni sull’Uomo, sulla Natura e sul Divino. Vita e morte, il giorno e la notte, la luce e il buio.

La sua vita.

E si dirige alla Galleria 2: La Nuova Collezione di Design. Tra Designer e Studi, sono in tredici. Molto da vedere: arredi, oggetti, grafica, materiali, prodotti digitali, del XX secolo e dei primi decenni del XI secolo. Cammina rilassata, passa da un’artista all’altro, e pensa alla libertà nell’essere un artista, alla soddisfazione di vedere riconosciuto il proprio lavoro ed esposto in un museo importante, diventarne addirittura parte integrante.

Vorrebbe restare ancora, c’è tanto da vedere, ma non può. Tornerà. Si avvia alla macchina, il cielo è chiazzato da pennellate di nuvole, sembra finto. Passa davanti a una panetteria.

Mi ci vuole un pezzo di pizza, bianca, con la mortadella.

Apre la porta e viene investita dal profumo del pane, dal chiacchiericcio di signore del quartiere che si voltano, la scrutano e tornano a parlare. È come essere tornata indietro nel tempo, ci sono anche gli espositori con le caramelle, forse sono scadute da anni, con gli involucri della sua infanzia.

< Dimmi, bella.>

Tocca a lei.

Si sente come quando aveva nove anni e andava da Marta, vicino a casa, a fare la spesa per mamma, e si sentiva grande. Ci andava in monopattino, lo parcheggiava e rientrava a casa, scendendo la rampa del garage frenando con la suola delle scarpe da ginnastica.

< Ce l’ha una Coca Cola?>

Paga, ringrazia e prende l’involucro tiepido e profumato. Esce e viene travolta dalla gente, piedi che corrono, braccia che gesticolano e tante voci. Troppe.

Lo mangerò nella piazzetta qui davanti, su una panchina.


Foto di paul-zoetemeijer da Unsplash

Fiammata

Oggi è un giorno speciale. Non per qualche evento particolare o unico nella sua vita, era appena stata investita da una fiammata di felicità. Inseguiva, come tutti, l’agognata serenità ma, quell’istante in cui, all’improvviso, era arrivata la fiammata ardente ad incendiarle il cuore, il viso, consumando tutta la sua energia, sapeva che sarebbe rimasto per sempre nei suoi ricordi.

Le risultava difficile pensare ad altri attimi di felicità nel passato, se ne ricordava alcuni, come braci quasi spente di un camino. Quegli istanti in cui la sintonia era perfetta come un tondo di Giotto, o la risata era piena da stordire, o l’emozione aveva intrecciato le viscere. Ecco.

Oggi le era sembrato di essere catapultata in aria, sottile come un raggio di luce, così lontana dal resto del mondo che osservava dall’alto, altrove. Come catturare questa percezione? Le sensazioni sgradevoli restavano appiccicate, riapparivano improvvise, di tanto in tanto, come la lama del dolore che aveva trovato comodo rifugio dentro di lei. Era silente e continua, come un mal di denti che si rivela lentamente, cala e poi aumenta.

Non c’era modo di archiviare le fiammate in un file? Non era proprio possibile trovare una parola chiave che fungesse da propellente?

Scosse la testa, i suoi ricci ballarono, ebbri, ancora per un po’, come i serpenti della Medusa le ricordarono che i sogni possono aprire varchi illuminanti. Ma quello di oggi non era stato un sogno, piuttosto un Uroboro, che si divora, per rigenerarsi attraverso una vampata che nutre e consuma allo stesso tempo.

Rimase la sensazione sdrucciolevole, simile all’acqua del mare sulle tavole da surf, mentre cerchi l’equilibrio e, anche se fatichi, sorridi.


Foto di Dark Rider da Unsplash

Ghiaccio

Oggi il vento è gelido e forte. Da dentro la macchina non te ne accorgeresti, se non fosse per quel lembo di stoffa che viene trasportato da raffiche, quasi fossero fantasmi che si divertono. 

Tutto è coperto di brina, il sole non riesce a dominare questo gelo, non può, non è il suo momento. 

Ora, regna il ghiaccio.

In alcuni punti candido, in altri grigio e opaco, brilla solo quando viene colpito dai raggi del sole, quasi ad avvertirlo che, nella loro battaglia, sarà lui a dominare, comunque. La notte scenderà ad aiutarlo, l’aria è sua alleata, ogni angolo è una roccaforte. 

Fa fatica il sole, lui così immenso e lontano, a bucare le nuvole, altro ghiaccio. 

Eppure, quando appare, anche solo un suo raggio, come la spada di Excalibur, reclama la sua regalità, accarezzando la brina, facendola piangere dai pini, in gocce trasparenti. 

Ripassa il lembo di stoffa, ancora non ha toccato terra, come un naufrago sbattuto dai flutti, è abbandonato al suo destino. 

Giocate fantasmi, divertitevi folletti del gelo, ora che il tempo è vostro.

Chiudo la portiera della macchina, sollevo la sciarpa a coprirmi anche il naso, mentre l’aria glaciale soffia tra gli occhiali e mi ruba una lacrima. 
Il ghiaccio non chiede, prende.


Foto di Max Kleinen su Unsplash

Scappare

Le luci del Commissariato sono bianche, alogene, fredde. Seduto in sala d’aspetto, dondolava un po’ sulle tre sedie che si stavano staccando dal pavimento, facendo sbattere a ritmo, contro il muro, la barra di metallo che le collegava. 

–       Allora? La pianti? 

Era passato un poliziotto, uno dei tanti, e, senza fermarsi, l’aveva ripreso, per poi sparire dietro ad una porta.

Stava aspettando i suoi genitori, li avevano chiamati dalla Centrale di polizia.

Chiuse gli occhi, rivedendo la scena, sentendo il vento nei capelli e le urla dei suoi amici, sul tetto di un treno regionale. Dieci minuti di pura adrenalina, la velocità che aumenta, le scivolate in cerca di un appiglio, i piedi che penzolavano e quel senso di euforia.
Poi, era successo qualcosa, ma non se ne era accorto, non subito. Matteo era saltato dal loro treno ad un altro che stava passando di fianco. 

Il loro treno stava andando via, lasciando indietro un amico.

–       Ma c’è riuscito? L’hai visto?

Le parole rubate dal vento, gli occhi che lacrimavano per l’aria, e il buio. Solo quei lampioni che di tanto in tanto, illuminavano le carrozze. Il buio, dietro.

Attraverso il vetro della porta vede arrivare due persone, poi altre due, sono sconvolte, stanno parlando con un poliziotto. Saranno i genitori dei suoi amici. Li avevano divisi, uno per stanza, ma erano solo in due. Mancava Matteo.

Aspetta. Arrivano altri poliziotti, una di loro accompagna una coppia da qualche parte. Rimangono due, in piedi, con i visi tirati e il pigiama che esce dai cappotti.

Poi, ecco i suoi genitori. Suo padre è arrabbiato, come sempre, sua madre lo segue, in silenzio.

Poche chiacchiere all’accettazione e li vede avvicinarsi alla porta col vetro, la sua porta.

Non ha il tempo di parlare, non l’aveva mai. Suo padre sembra enorme, ancora più del solito, e la sua mano arriva sulla guancia, potente come pugno, e lo fa cadere dalla sedia. Poi, urla, strattoni e un poliziotto che li separa. Sua madre stava vicino al muro. Una vita vicino al muro, qualsiasi muro.

–       Ma che stavate facendo? Delinquente! Ti volevi ammazzare? E invece è morto Matteo! Tu, dovevi morire, TU! Bastardo!

Viene portato via, rimane sua madre e chiudono la porta.

Lei si avvicina, si siede e lo guarda, non lo tocca. Ha sempre gli occhi tristi. 

Matteo è morto. 

Allora, non ce l’ha fatta.


foto di Giulia May da Unsplash

MIO. IO.

Suona la campanella. É finita. Tutti fuori, in cortile, è una bella giornata.

Enne corre perché vuole giocare a calcio, e già sceglie gli altri ragazzi della sua squadra, nel SUO campetto di calcio.

Emme arriva un po’ in ritardo, si è fermato a mangiare qualcosa, ma vuole giocare anche lui, e la palla, è la SUA.

E così, si formano due squadre.

Si comincia, tutti corrono, la palla passa da un piede all’altro, qualche spintone, uno scivola e cominciano a litigare. Ma solo per un attimo. Si riprende, si deve giocare. Intorno si è già formato il solito gruppetto di compagni che tifano per una squadra o l’altra.

É un gioco.

Enne si arrabbia molto col suo attaccante, lo sgrida da lontano, poi corre, lo supera e, rubandogli la palla, tira in porta. Ma sbaglia. Non importa, ma ad Enne importa. E calcia per terra, urla agli altri ragazzi, non è colpa sua, gli altri non sanno giocare.

Emme lo chiama sfidandolo, con la SUA palla in mano, pronto a rimandarla in campo. Si ricomincia.

Il gioco diventa crudele, calci negli stinchi e spallate, offese e sguardi di sfida. Il campo sembra più piccolo, le corse più affannose, Enne è il campione del quartiere, non può perdere, non DEVE perdere.

Altro tentativo, altro flop.

Enne corre, corre e prende per la maglietta Emme che afferra e stringe la SUA palla, lo strattona, lo insulta, lo butta a terra. Gli altri lo circondano, cercano timidamente di fermarlo ma nessuno si mette di mezzo. Calci, calci, ancora calci.

<FERMATI!> Un urlo, nel silenzio.

Si voltano e vedono arrivare un bambino, avrà forse sette o otto anni. Si fa largo nel gruppetto e si mette davanti ad Enne.

< SMETTILA!> Tutti lo guardano, questo piccolo Davide che osa affrontare Golia.

Enne lo osserva divertito all’inizio, poi, comincia a pensare che forse questo bimbetto ha la protezione di qualcuno, forse non conviene reagire. Gli da un buffetto e gli ordina di portare via Emme, ma di lasciare a loro la palla.

Il bambino non capisce.

Enne lo guarda fisso, gli circonda le spalle e risponde: <Vedi questo campo, lo vedi bene? É MIO. Io sono Enne, ricordatelo. >

Il bambino non proferisce parola, annuisce, poi si volta ad aiutare il ragazzo, sanguinante, a terra, e lo accompagna fino ad una panchina. Gli porta un po’ d’acqua e un fazzoletto. Rimangono così a guardare gli altri che hanno ripreso rabbiosamente a giocare.

Il ragazzo, dopo essersi ripreso, si gira verso il bambino : < Stanno giocando con la MIA palla. Non è giusto. Comunque, ti ringrazio, come ti chiami?>

Il bambino, continuando a guardare verso il campo, gli rispose: < Sono IO. E tutto quello che vedi, intorno al campo di calcio, è mio.>


Foto di Javier Garcia da Unsplash

L’ultima notte

Oggi hai paura. Chissà perché capita, ogni tanto. Dicono che è una risposta ad una percezione, e allora ti prepari ad attaccare, stai sulla difensiva. É che stai sempre a pensare, non fa bene, non fa bene. Finisci con l’avere paura della paura, e lo avverti, il battito cardiaco aumenta, hai le mani fredde.

Come quando eri bambina, ecco, quei momenti in cui, nascosta sotto il lenzuolo, nel buio, ti sembrava di sentire una presenza. Era tuo padre.

Via, scaccia il mostro.

Il mostro è nel passato e il passato non ti cerca, non può riconoscerti. Smettila di dargli la caccia.

Mentre fissi i macchinari dell’ospedale, le luci azzurrognole e fredde dei neon, quel vecchio davanti a te, pieno di tubicini, ramificazioni di fili che lo collegano a complessi apparati medici, senti i suoni metallici e lontani, i soli che ne confermano la vita.

Lo guardi, quello è tuo padre.

É tuo padre?

Sotto quelle luci ora lo vedi, in tutti i suoi lati oscuri, immobile, come se lo avessero bloccato, catturato. Ora non può più venire a trovarti nella notte, non potrà mai più.

Allora perché sento freddo? Perché ho paura? Forse ti ho voluto bene, o qualcosa di simile.

Volere bene.

Ora che lo vedi impotente, fragile, come un burattino a cui puoi tagliare i fili, ora che non parla più, quasi non ti interessa.

Ti alzi dalla sedia e sposti lo sguardo sui vetri, fuori fa freddo ma qui dentro si muore dal caldo. C’é un parcheggio, qualche albero, due persone che camminano veloci con una busta di carta. Che ci sarà dentro? Dei fiori, sicuramente. Tu non ne avevi portati. Sospiri e aspetti. Senti le voci nel corridoio, i passi attutiti, qualche risata.

È tanto che non rido.

Entrano due infermieri, salutano e vanno da lui. Lo sistemano, controllano.

Ha le labbra secche, sembra un frutto lasciato al sole, raggrinzito, contorto, con un ciuffo bianco sparso sul cuscino in cui sparisce la sua testa. La stessa che vedevi immensa, nel buio, a occhi chiusi. I suoi occhi non li ricordi, erano piccoli punti luminosi, non li ricordi.

“Signora, viene domani? Forse è l’ultima notte.”

L’ultima notte.

Per chi?


Foto di Angel Luciano da Unsplash