C’era una volta, Emily Brontë

Praticamente scrivo, visto che tutti parlano. Ho cambiato spesso il mio manifesto, senza arrivare mai a dichiarazioni surreali o volutamente d’impatto. Io, che adoro il realismo onirico e quella capacità di avvinghiare il lettore al testo, quel flusso magico che rapisce, che non sfrutta termini ridondanti ma espressioni idiomatiche, utilizzando una narrazione riflessiva, visionaria e simbolica ma diretta. Diretta al cuore.

Scrivo, e quindi, leggo.

Leggo molto, da sempre. Una passione, una stanza mia in cui non può entrare nessuno perché il mio bambino interiore la riempie, ci si accomoda con le sue matite colorate e una musica bella. E capita che io legga più libri contemporaneamente, come in questo momento. A volte li scelgo per capire che tipo di letteratura ci sta definendo, spesso invece seguo solo i miei gusti. Come entrare in pasticceria e, prima, assaggiare anche quel dolcetto che non ti fa venire l’acquolina in bocca ma ti incuriosisce, sicura di aver già adocchiato i tuoi preferiti. Così, ora vago tra il debole Premio Nobel per la Letteratura 2024, Han Kang (La vegetariana), l’ennesimo superbo libro di Cees Nooteboom (Cerchi infiniti), i surreali racconti di Carver (Da dove sto chiamando), il lento Premio Strega 2021 Emanuele Trevi (La casa del mago).

Mi fissano dal divano gli ultimi, adorabili, terminati da poco, Yoshimura Keiko (108 rintocchi) e Emy Yagi (La Venere e io), mentre aspetta paziente (come il dolcetto poco appetitoso di cui sopra), Niccolò Ammaniti (La vita intima).

Sembra che stia facendo promozione… ma, veramente, leggo in contemporanea più scrittori. Mi piace cambiare sensazione di stile e ritmo, mi incuriosisce quando non condivido la percezione comune (per lo più dettata da recensioni di marketing mirato), nella ricerca di qualcosa di succulento che mi faccia sanguinare il cuore.

Consapevole che ognuno predilige un certo tipo di scrittura, userò una citazione che tutti conosciamo, modificata per l’occasione: “Tutti gli scrittori sono uguali, ma alcuni scrittori sono più uguali degli altri”. E mi perdonerà Orwell.

Led cage❤️

Finito. Ho postato l’ultimo reel. Sono le 2:53. Controllo il numero di follower, sono tantissimi. E ce n’è voluto di tempo, di lavoro, tanto lavoro. Quello che all’inizio sembrava un divertimento, ora è la mia occupazione. Un lavoro.

Dovrei coricarmi, sì, anche se non avverto la stanchezza ma gli occhi sono due spilli e bruciano.

E questo? Un commento cretino, che faccio? Rispondo. Ma no. Lascio perdere.

All’inizio rispondevo a tutti, ma ora so come manipolare gli algoritmi, so come manipolare le persone. Si impara.

OK! Chiudi l’applicazione e vai a coricarti.

Il letto non è più la mia cuccia, il letto è una propaggine del computer, del tablet. Dal telefono sul comodino la luce piano piano si spegne ma la mia mente invece continua a pensare. E il telefono vibra, una volta, poi una seconda. Alla terza lo prendo. Apro l’applicazione. Commenti nuovi. Condivisioni.

Ma come? Il numero dei follower è calato!

Mi siedo e comincio a rispondere. Poi cancello e riscrivo. Uno, due, tre, troppi che scrivono che sono falsa. Fosse stato solo uno non ci avrei fatto caso, ma sono tanti. Qualcuno ha postato un emoji incazzato.

Perché? Cosa sta succedendo?

Il mio ultimo reel non è piaciuto. Quell’emoji rosso mi sta fissando. Lo ignoro.

Ti ignoro. Domani, forse, risponderò.

Mi corico. Chiudo gli occhi e sospiro.

Devo postare alle 8:30, la fascia oraria migliore. Poi alle 13:00. E una storia alle 18:00.

L’algoritmo non perdona. Se perdi i colpi ti penalizza. Espiare – pagare. Se non sto al passo rischio di perdere collaborazioni importanti perché la mia immagine non è più, uniforme, e non produce più lo stesso risultato. Le persone lo avvertono e cominciano a dubitare. Mi risiedo e controllo. Valuto analitiche e statistiche: le interazioni sono in calo.

Perché? La mia performance è in calo, non bastano più gli hashtag mirati e gli audio trend? 

Sarà un momento. Devo ignorarlo.

Riprendi il controllo.

Ed è giorno. Mia madre mi chiama per la colazione. Ma sì, mi alzo e mi sciacquo il viso. Mangiare qualcosa mi aiuterà. Seduta al tavolo, con una tazza nella mano e il telefono nell’altra, sento mia madre che si lamenta.

  • Perché hai sempre quel coso in mano?
  • Questo coso, mamma, è il mio lavoro.
  • Lavoro? Lavoro significa fatica! Non giocare, non perdere tempo!

Non capisce. Non può.

Quando arriva un like, è una carezza, un pezzo di puzzle che definisce il mio ego.

Deciso!

Posto un video al naturale! Così come sono, senza filtri. Confesserò che sono stanca, racconterò delle mie insicurezze. Vulnerabile. Un atto di coraggio. Questo ci vuole.

Fatto. Postato.

Riguardo la clip. Non mi piace. Ma stanno arrivando i primi commenti.

“Mi hai toccato il ❤️”

Ma ripartono le critiche.

“ Ah falsa!😎”

“Ma a chi la vuoi dare a bere? Reciti pure male”

“Vergognati 🙈, c’è chi sta male davvero”

“Ma quanto sei grassa?😱”

Come tante punture dolorose, uno sciame di commenti, tossici, crudeli. E non smettono.

Prendo il telefono. Ora rispondo con una storia. Ma i commenti continuano.

Una notifica.

“So chi sei. Smettila”

Un crampo allo stomaco. Rispondo, poi cancello.

Il messaggio è sparito. Account inesistente.

Ed è già notte. La stanza mi sembra enorme. Vado alla finestra, lampioni che illuminano zone di pericolo. C’è qualcuno là fuori.

C’è qualcuno?

Arriva una storia sul telefono. Qualcuno ha taggato il mio nome, davanti a casa mia.
Una foto. Sembra casa mia. È casa mia.

Ho freddo.
L’algoritmo è affamato.
Fuori, un’auto rallenta davanti al mio portone.


La luce del display si spegne.

Jōhatsu in un soffio

Le fronde degli alberi, fuori dalla finestra, erano vigorose e piene di minuscoli germogli verdi e fragili che preannunciavano il Cherry Blossom. Aveva terminato di lavorare e se ne stava immobile davanti al computer spento. I colleghi erano già in movimento, si salutavano e correvano agli ascensori. Lei era una delle più anziane ma non aveva fatto carriera, non come gli altri. Troppi pensieri sempre in testa, tra un compito da svolgere e l’altro, troppa famiglia, troppo.

Si sentiva debole, non vecchia ma, matura, come un bel cedro del Libano dalla scorza spessa. Emanava profumo solo se ci si avvicinava alla buccia e lei, non aveva mai permesso a nessuno di esserle così vicino. Il marito, quello sì, suo malgrado, le si avvicinava spesso, con brutalità, mentre la suocera aveva invaso da subito e per quasi trent’anni, tutto. La casa, quel nido in cui aveva cresciuto due figli, ormai lontani, non aveva mai avuto il suo odore. Ovunque aleggiava la presenza di quell’altra donna che dominava, unica e despota.

Non se ne era accorta subito, non aveva fatto caso alla lenta erosione che l’aveva consumata negli anni, facendo disperdere la sua forza come l’acqua tra i ciottoli. Si era rifugiata nella sua anima, la sola parte che non poteva essere toccata, lasciando che gli altri si cibassero del resto, sbranandola a piccoli pezzi. Quando avvertiva che il dolore del suo spirito era più insopportabile delle botte, si chiudeva nel silenzio, attendendo che terminasse, affaccendandosi nei gesti quotidiani, sempre gli stessi, svolti in fretta, come una presenza invisibile. Per non dare fastidio.

Col tempo, osservando ciò che era rimasto di lei, corrosa, consumata, aveva preso una decisione, senza fretta.

Uscì dal palazzo e s’incamminò tra la folla verso la metropolitana. Salutò con un cenno del capo una collega in fila alla fermata dei taxi, e prosegui scendendo le scale, seguendo le migliaia di persone che correvano in tutte le direzioni, come un formicaio ordinato. Fece il solito tragitto fino alla sua fermata e si mise in fila aspettando, dietro la linea gialla. A sinistra, il buco nero della galleria, davanti a lei, i binari che l’avvisavano, con un sordo rumore lontano, dell’arrivo del suo treno. Si avvinghiò alla borsa mentre sul tabellone iniziava il conto alla rovescia: 3 minuti, due, uno. Si sentiva come un birillo tra i tanti, in attesa, immobile e silenziosa.

La metropolitana arrivò col suo fruscio morbido e lei non si mosse. Fece un passo indietro, poi un altro e un altro ancora. Gli altri stavano salendo sul mezzo e un annuncio delicato avvisava della partenza disperdendosi nel chime che segnalava la chiusura porte. La stazione stava svanendo, perdendo i contorni in una luce nuova. Nessuno la vide, nessuno si accorse della calma del suo sorriso mentre, passo dopo passo, svaniva dietro ad una colonna.

Da quel momento sarebbe stata una *jōhatsu, una persona “evaporata”, una persona che aveva in qualche modo ceduto. Era fuggita.

La sua mano, affondata nella tasca, stringeva un foglietto stropicciato, come un talismano, un lasciapassare, con una frase di Flaubert: “Viaggiare rende modesti, fa capire quanto il posto che occupiamo nel mondo sia piccolo.

Era solo un soffio, pronta a viaggiare senza biglietto verso un altrove che non avrebbe avuto più obblighi né vincoli.

* Johatsu” (蒸発), che significa “evaporazione” in giapponese, si riferisce alle persone che scompaiono volontariamente per abbandonare la propria vita precedente e iniziare una nuova esistenza in anonimato. Questo fenomeno è spesso legato a fattori come la vergogna sociale, le pressioni lavorative, i problemi familiari o il desiderio di sfuggire alla società. Non è esclusivo del Giappone, ma è osservato anche in altri paesi come Stati Uniti, Cina, Corea del Sud, Regno Unito e Germania. 

Fuori tempo

*il brano ha partecipato al gioco degli incipit, ideato e condotto da Luz (https://iolaletteraturaechaplin.blogspot.com/)

  • MA… evidentemente mi sono persa la fase in cui si dovevano esprimere 2 preferenze tra tutte le storie pubblicate sul sito d Luz, quindi sono stata esclusa. 😬 Era la mia prima partecipazione, un mini contest interessante che chiedeva un INCIPIT, basato su una tra le tre foto proposte da Luz. Comunque questo è stato il mio incipit, scaturito da questa immagine che avevo scelto. PS: il titolo sembra quasi una premonizione 😜

FUORI TEMPO

Il viale si distendeva davanti a lui come uno spartito dimenticato sul leggio. Il maestro avanzava piano, inghiottito da un silenzio così denso che sembrava ascoltarlo. Ogni passo era una nota che si scriveva da sola, ogni colpo del bastone un accordo sommesso, improvvisato da un’orchestra invisibile. L’aria fredda profumava di legno antico e di velluto, come la sala di un teatro vuoto dopo la standing ovation. Il bastone ticchettava sulla pietra come una bacchetta d’orchestra dimenticata sul podio dopo l’ultimo applauso. Gli alberi, nudi e contorti, si piegavano appena al suo passaggio, simili a violinisti stanchi. Camminava immerso in un tempo sospeso mentre, sotto il cappotto elegante, il cuore batteva con una cadenza curiosamente adolescente. Sposarsi. A quell’età. Con lei. La sola che lo aveva guardato non come un monumento polveroso, ma come un enigma ancora da risolvere. Lei. Appariva sempre così: improvvisa, nel mezzo dei suoi pensieri, come un tema musicale che riaffiora dopo un lungo interludio. La sua allieva insolente, con quel sorriso sghembo capace di bucare le convenzioni come un colpo di timpano in un quartetto d’archi. Era l’unica che lo guardasse senza reverenza, come se sotto i suoi anni vedesse ancora l’uomo, non il maestro.

–       Mi sposerai, vecchio direttore?

Sussurrava la sua voce dentro la nebbia, mescolandosi al fruscio degli alberi. Lui rise piano. Il viale si piegò su sé stesso, le luci si abbassarono come a teatro, e nella sua testa partì un valzer leggero. Poi, di colpo, tutto si fermò: l’orchestra era in pausa. Sentiva chiaramente i battiti del suo cuore.

Iene a perdere

Che succede? Si volta d’istinto, vede la gente che si muove, si sta spostando verso l’uscita quasi correndo. Sente solo una voce di donna che urla “Basta! Basta!No!” Si muove col suo carrellino come sempre stracolmo, e segue i rumori. Sente dei versi brutali e dei colpi sordi, sembra che stiano dando calci a qualcosa. Supera la corsia dei detersivi e vede. Anche lei, vede. Un giovane uomo é a terra, circondato da quattro ragazzi che lo stanno colpendo a pugni e calci, gli girano intorno. Sembra reagire un po’, cerca di coprirsi il viso e poi proteggere la pancia, poi si raggomitola.

Proprio all’entrata del supermercato, un’aggressione simile ad una danza macabra, come quando le iene decidono di aggredire un animale isolato. Ancora la voce che nel vuoto urla “Basta! Fermi!”

Lei è ferma, si guarda intorno e ci sono altre persone, giovani, anziani, donne e uomini. Nessuno interviene. Neanche lei. In due stanno filmando, forse per fornire prove alla Polizia. Qualcuno ha chiamato la Polizia? Sembra che tutto si muova al rallentatore, sembra la scena di un film. Forse stanno girando un film.

Gli assalitori hanno finito e se ne vanno, lasciando sul marciapiedi un corpo inerme, con lo stemma Security sulla camicia che brilla tra il sangue, i capelli, che sono diventati un casco compatto e umido, gli coprono il viso. Non si muove, non emette nemmeno un rantolo. Un ragazzo si avvicina e prova a spostarlo, lo scuote e dice che bisognerebbe chiamare un’ambulanza. La voce che prima urlava ora tace. Le persone stanno a guardare, qualcuno esce schivando con attenzione quel corpo, qualcun altro sta telefonando.

Lei osserva. Di fianco al corpo, un portafogli aperto, si vede una foto, la famiglia sicuramente. Non si sono nemmeno dati la pena di rapinarlo. Volevano solo sfogarsi. Potevi essere un coglione qualunque e invece hai voluto strafare. Forse voleva fermarli ma loro non sono scappati, sono rimasti un po’ a fissarlo prima di sferrare il primo pugno, e poi il secondo e poi un calcio e un’altro.

Si è formata una piccola folla intorno al corpo e dall’altra parte della strada. Il carrellino pesa.

Lei si avvicina alle casse ma sono deserte, non si muove niente. Dovrà aspettare.

Scegli la tua luce

Impulso di scrittura giornaliero
Quali strategie usi per mantenere la salute e il benessere?

Fuggire dalle tossicità è un atto di coraggio e cura di sé. Se qualcosa mi fa sentire a disagio, svuotata o fuori posto, cerco di ascoltare quell’istinto. Allontanarsi non è egoismo, ma protezione. Circondarsi di chi può farci crescere, non di chi ci consuma, perché meritiamo pace, chiarezza e relazioni che nutrono, non che prosciugano. La pace interiore vale più di mille legami forzati e liberarsi è il primo passo per rinascere.

E poi… tanta frutta e verdura, movimento, gioco, sport, risate e sogni!😜

Bukowski’s day 12.0.

Sono stata via… Uno stacco al mare, a Viareggio, che mi ha portato tanto relax e … un Premio letterario!

Ho infatti partecipato al XII Premio Letterario Nazionale Bukowski col mio racconto inedito “FUORI DAL PENTAGRAMMA”, selezionato ed inserito nell’antologia Bukowski. Inediti di ordinaria follia. Vol 12

Tantissimi i partecipanti alla XII ed. del Premio Letterario Nazionale Bukowski così suddivisi:

  • Romanzo inedito: 131
  • Racconto inedito: 257
  • Poesia inedita: 185

Una piccola, GRANDE soddisfazione!

Yasashisa

Impulso di scrittura giornaliero
Descrivi un semplice gesto che fai che porta gioia nella tua vita.

La gentilezza. (in giapponese)🪭

Un gesto affettuoso, una parola gentile, un sorriso. 

Il mio SalTO 2025

Per il secondo anno sono stata nel magma editoriale più importante d’Italia con i miei due romanzi… e tantissimi scrittori.

Non sono riuscita ad incontrare tutti quelli che avrei voluto, ma le giornate sono state caotiche e piene di appuntamenti. È un po’ un Luna Park,,, sicuramente una vetrina importante anche se i grandi editori la fanno da padroni, un cliché, ma questa è la realtà e chi scrive lo sa bene!

La verità sta nell’amore per la scrittura che, come tutte le forme d’arte, richiede tempo. In questo l’A.I batte tutti ma… come ho detto in un reel: “Se Michelangelo avesse avuto una fresa per il marmo, avrebbe impiegato due mesi e non tre anni per realizzare il David e, sicuramente, avremmo avuto tanti, tantissimi Michelangelo… ma nessun David.

ad maiorem 🪭

Quando sono triste guardo il cielo

Sono sdraiata da più di mezz’ora. Forse meno. Non respiro bene, mi sento rintronata, ho la bocca secca e un saporaccio che mi fa venire conati di vomito in continuazione.

La mia macchina è là, di traverso e un po’ rialzata. Sembra tentare di scavalcare il guard-rail ma senza riuscirci, e perde ancora del liquido, forse dell’olio, anche se i vigili del fuoco la hanno inondata di schiuma. C’é tanto caos ma ora l’aria è più chiara, spostata dalle eliche di un elicottero atterrato lontano, in mezzo al campo. Mi arriva l’odore dell’erba, mischiato a quello del cherosene e del sangue. Proprio sotto la coltre di fumo si vede l’asfalto bagnato, intriso, lucido, e tanti scarponi lambiti da tute fosforescenti che sembrano senza un corpo.

Appena dopo l’impatto, che ricordo come uno spintone violento e rumoroso, devo aver perso i sensi. Non so chi mi ha estratto dalla macchina e mi ha deposto qui, sul ciglio della strada, nella corsia di emergenza. Non sono sola, ci sono altre tre persone stese a terra.

I rumori sono ovattati, non sento, vedo solo delle sagome che corrono e, al di là della cortina grigia, appare e scompare una lunga carovana di macchine, i fari accesi, ombre in piedi che guardano da questa parte.

Non riesco a girare il collo, mi devo muovere piano, dovrei girare anche il busto per guardare dall’altra parte.

In quell’inferno schizzano lapilli, piccoli fuochi d’artificio tra le luci rosse, e le figure che appaiono, per un attimo, sono maschere coperte di fuliggine, con la bocca che si apre e si chiude in un urlo.

Il cielo, il cielo è ancora là, in alto.

Arriva un po’ d’aria e si sentono, in lontananza, le sirene delle ambulanze che cercano di farsi spazio nel traffico immobile, dall’altra parte dell’autostrada.

Dovrei telefonare. Sì, devo avvisare. Ora chiedo.

Sposto lo sguardo perché hanno smesso di tagliare lamiere, non ci sono più lapilli. Dall’alone grigio sta emergendo una carcassa enorme e lunga, un pachiderma ferito e sdraiato su un fianco dipinto di viola e giallo, piegato in due, una enorme V che ha abbracciato una macchina, ma l’ha stretta troppo, davvero troppo.

C’è silenzio.

Di colpo, due mani mi prendono il viso, qualcuno mi parla, è un medico. Non sento. Mi spara una luce nelle pupille e ho un momento di terrore, come un attimo prima dello schianto. Si allontana.

Dove vai? Cosa faccio? Devo telefonare.

Passa una barella, poi un’altra, un’altra ancora. Sono corpi, feriti coperti di sangue che si mischia ai capelli e a quello che rimane di abiti bruciati, incollati alla carne carbonizzata. Ad uno manca una scarpa. Sembrano vivi, si muovono, si contorcono. Sembrano vivi.

C’è una barella grande, enorme, con un cucciolo d’uomo. Non ha più capelli, è un bambolotto bruciato a metà. Non si lamenta, guarda fisso in alto, guarda il cielo. Dentro di me sento le sue lacrime e mi sembra di affogare.

Devo telefonare.

Divinus incensum profanus

Una nebbia sottile cominciava ad avvolgere tutto in un lieve manto simile all’incenso bruciato nei turibuli. Guardava i tronchi dei grandi alberi, giganti silenziosi, che affondavano le loro radici nel terreno umido come mani dalle lunghe dita. Stava rientrando a casa, camminando lungo la strada, persa tra il buio e il silenzio.  Solo le foglie, al passaggio del vento, emettevano un suono delicato, quasi un sussurro.

Il cielo divenne opaco e denso come se il tempo stesso fosse sospeso, privo di movimento. Sentì in lontananza lo scroscio dell’acqua del fiume che scivolava su sassi levigati e la nebbia pesante cominciò a salire, lenta e avvolgente. Un abbraccio gelido da cui non era possibile sfuggire. Quel chiarore quasi irreale confondeva, facendole perdere ogni riferimento. Si fermò, allungando le braccia in cerca di un tronco, una staccionata, un appoggio qualsiasi.

Da qualche parte, più lontano, udì il verso di un animale, un lamento sommesso, un richiamo alla solitudine che si perdeva in quel buio. Eppure, in quel nulla fatto di freddo grigiore, non si sentiva sola. Ogni tanto, le sembrava di vedere delle ombre sfuggenti, figure indistinte, vaghe, quasi avessero una vita propria. Non erano spettri, né apparizioni di fantasmi.  Erano forse i ricordi di un passato che non aveva mai vissuto?  O sogni di un futuro che non aveva il coraggio di immaginare?  

Se ne stava immobile, respirando profondamente l’aria umida e fresca, nel profumo di muschio e di terra bagnata. Il suo respiro e la nebbia, un unico soffio in un’atmosfera irreale. C’era qualcosa di divino. Seguì il mormorio dell’acqua, forse il cammino non aveva davvero una meta, né un inizio. Ad un tratto la nebbia si aprì, e le sembrò di vedere un’ombra incredibilmente familiare che si dissolse subito nell’aria.  Era tutto un continuo fluire di passato e futuro e ogni passo che faceva era una danza invisibile tra ciò che era stato e ciò che doveva ancora accadere.

Le apparve la discesa, sgombra, sicura. S’incamminò verso casa.

Ombra senza sole

Dovevi proprio andartene così? E adesso? Ora che i miei pensieri rimbalzano tra le pareti, ora che avverto come un senso di vertigine per il vuoto, cosa faccio? Da dove comincio?

Non si fa così.

Non è stato corretto da parte tua, in nessun modo. Anzi, avresti potuto trovare migliaia di parole, gesti, avresti dovuto.

Me lo dovevi.

Com’é potuto succedere? Mi viene da pensare ai suicidi, a quelli che decidono per un atto estremo, senza ritorno. Ecco. Hai suicidato il nostro amore. Era il nostro e io non mi sono accorta che era malato. Non si dice così anche per i suicidi? Era normale, sembrava stare bene.

Sembrava stare bene.

Ah, lo so dove mi vuoi portare! A pensare che è colpa mia, vuoi che sia la sola a provare dolore per questo lutto. Hai riempito solo una valigia, le tue camicie penzolano stirate nell’armadio. Il tuo odore é ovunque, vorrei urlare, ma non ci sei.

Ora entro nell’armadio e urlo.

Mi guardo allo specchio e non vedo più nulla, é vuoto. Ho cambiato forma così tante volte per te che ho dimenticato com’ero. Ho dimenticato pezzi di me, nascosto sogni, dolori e desideri, per non sbagliare.

Ora vedo solo un’ombra grigia.

Farò una doccia. Voglio lasciare scorrere l’acqua addosso, voglio lavare via quell’odore, voglio che questa crisalide si apra ma è impermeabile, è una fitta trama che blocca anche il respiro.

Vorrei inseguirti.

Ma non so il perché.

Perfetta nel cuore

Impulso di scrittura giornaliero
Scrivi della casa dei tuoi sogni.

Ah, la casa dei sogni! Potrei descrivere minuziosamente come me la immagino perché, nella realtà, manca sempre qualcosa. Manca il mare, manca la luce che filtra dalle tende leggere, manca una scala che scende proprio sulla sabbia, manca quell’essere isolati ma non troppo, mancano le altre case intorno che pullulano di vita. Eppure, ovunque mi trovassi, se il mio amore era con me, allora era casa. Ed era perfetta. Come due calici di cristallo, su una tovaglietta di fiandra appoggiata sugli scogli prima del tramonto.

Guardare l’abisso

Un rigagnolo d’acqua scivolava via, esattamente come un gorgo d’acqua nel lavandino. Un vortice che, anche se piccolo, portava via inesorabilmente, e quasi dolcemente, tutto. E per tutto, intendeva quella che era stata la sua vita fino a quel momento.

“Siamo spiacenti, non vorremmo fare a meno della sua figura professionale ma, la situazione contingente prevede una riorganizzazione aziendale.”

Pur essendo consapevole della crisi, pur constatando, giorno dopo giorno, un crescendo di tensione tra i colleghi che le apparivano sempre più scialbi, affranti, pallidi fino a diventare quasi evanescenti, non si era resa conto di essere a rischio, esattamente come gli altri. Ma quanta sicurezza! Quanta stupida certezza aveva maturato, semplicemente per aver lavorato in quell’azienda per oltre vent’anni. Riorganizzazione.

Fissava il suo caffè sul tavolino del bar dove andava spesso, e osservava le persone intorno, ignare del suo problema, di lei e della sua vita miseramente crollata. Poteva pensare a un fallimento o le era concesso di aggrapparsi alle colpe altrui? Da quando si era svegliata, la sua testa era una bolla grigia, come una pozza di fango bollente. Il mondo non era come lo aveva immaginato fino a quella fatidica comunicazione. La sua tracotanza ora cercava conferme che nessuno mai le avrebbe dato. Le sembrava di tremare, non riusciva a piangere, sicuramente non lì, mai lo avrebbe fatto. Il quadro della sua vita stava perdendo i contorni, liquefacendosi in un disegno astratto ma senza significato.

Passò una mamma con due bambini, diretta ad un altro tavolino. Rimase a fissare la scena, mentre arrivava il papà. E lei invece? Lei che aveva investito così tanto in sé stessa, lei che aveva creduto di far parte di qualcosa, ora si sentiva come un vecchio attrezzo, gettato via, rimpiazzato. Il quadro della sua vita, ora, era un ammasso di colori mischiati, come senape andata a male.

Il mondo va veloce, troppo. Non aveva avuto il tempo di pensare, ecco la verità. D’altra parte, pensare di cambiare dopo tutti quegli sforzi, quell’energia spesa, sarebbe stato, come minimo, un passo azzardato. Perché cambiare quando sai che, alla fine, qualcuno risolverà? Ne era certa.

Non esistono più certezze. I suoi genitori avevano cominciato e finito la loro carriera lavorativa sempre nella stessa azienda. Solo suo padre, a un certo punto, aveva inseguito una promozione ma, c’erano dei rischi, avrebbe dovuto cambiare città e quindi, alla fine, erano rimasti dov’erano. In fondo stavano bene, cosa mancava?

A cosa mi aggrappo adesso? Sono stanca. Ricominciare ora è come chiedermi di scalare l’Everest senza ossigeno. Mi manca l’aria.

Nella sua mente, il quadro della sua vita era ormai una tavola uniforme e vuota. Il rigagnolo continuava a scivolare tra le crepe dell’asfalto, veloce, diretto allo scarico, senza fare alcun rumore.

Glimmer

Che colore ha il dolore? Si era svegliata dall’intervento, ancora dopata dall’anestesia, i movimenti rallentati e la bocca impastata. Tra le bende che le fasciavano il viso poteva scorgere, di fronte a sé, un pezzo di muro e di soffitto, e rimase a fissare la linea che interrompeva due colori, era la sola cosa che le faceva comprendere di stare osservando due parti distinte. C’era il muro e c’era il soffitto.

Aveva sete, forse aveva voglia di parlare. I rumori erano attutiti, anche perché le orecchie… “Oh mio dio le orecchie”, chissà come erano diventate. E chissà com’era diventata la sua faccia, quel viso che era arrivata a detestare, che non riusciva più a guardare allo specchio. Un nemico, ecco quello che vedeva, un infame che le ricordava il tempo che aveva solcato ogni suo poro, modificandola come si fa con la creta. Un kintsugi senza oro, solo solchi che mantenevano unite tutte le parti ormai senz’anima, porzioni di sé che stavano crollando miseramente, incappucciando la vista, intristendo i sorrisi, il tutto in un grigiore refrattario anche alla luce del sole.

Non riusciva a spostare il collo, sentiva la pelle tendersi, pronta a strapparsi, e rimase immobile. Un prurito insopportabile sotto quelle bende, “Ma non viene nessuno?”, respirava a fondo senza muoversi. Come se non bastasse il prurito, incominciò ad avvertire dolore, una sorta di nevralgia che si stava impossessando di tutta la testa, viso compreso, lasciandole la sensazione di avere un timpano teso proprio sotto il cuoio capelluto.  Resistere. Doveva resistere, la avevano avvertita delle conseguenze di un intervento di face-lifting. Possibile cerchio alla testa. Altro che cerchio, era tra due morse che tiravano, non aveva neanche il coraggio di muovere la bocca o qualsiasi altro muscolo. Scintille. Ecco che colore aveva il dolore in quel momento! Non come i lapilli sprizzati dalla legna d’inverno ma simili a quello sfavillio che sprigiona da una levigatrice, di quelle utilizzate per affilare coltelli, luminescente, freddo, metallico.

Avvertì una presenza, era un’infermiera che era entrata e stava parlando. Non sentiva bene, la fissò con gli occhi, cercando di incrociare i suoi e farle capire cosa stesse provando. Ma niente, quella befana parlava, parlava, e trafficava con il sostegno della flebo.

“Morfina! Aumenta la morfina!” Cominciò a sudare e arrivarono anche nausea e vomito. Le veniva da piangere ma NO! Non poteva, non doveva.

L’infermiera se ne era andata, restò a fissare il muro e il soffitto davanti a lei mentre una lacrima scendeva tra le bende. La linea di divisione stava diventando più sottile, morbida, sembrava che si stesse muovendo, scivolando via. Rimase un’unica parete liscia, senza soluzione di continuità, rosea e levigata, quasi bombata, come un palloncino.

Un viso, il suo futuro viso.

Corro da te

Impulso di scrittura giornaliero
Qual è il regalo più grande che qualcuno potrebbe farti?

Capita. Capita a tutti, credo, di attraversare quei momenti così difficili da essere convinti di non farcela. Io sono stata talmente tanto nel baratro da pensare di arredarlo.

Eppure, sono ancora qui, col mio dolore ben conficcato nel cuore, ma so di non essere l’unica. Non mi consola, non consola nessuno, ma aiuta a guardarsi allo specchio dritto negli occhi e smettere di autocommiserarsi.

Proprio in uno dei momenti più dolorosi della mia vita, un’amica mi ha chiamato al telefono. Non mi ha fatto neanche finire di parlare, forse stavo biascicando, straparlando, o forse ha semplicemente avvertito che non avevo bisogno di parole ma di un abbraccio.

” Corro da te.”

Corro da te. Questo è stato uno dei regali più grandi.

IKIGAI

Ogni giorno ci si sveglia. É un dato di fatto. Il come, invece, dipende.

Così, oggi, si era alzata, col piede destro, aveva preso le sue pillole, bianca e rosa, e si era fermata a fissarsi nello specchio. Oggi, si sarebbe sposata.

C’era una strana calma in casa, d’altra parte era da sola, un silenzio pacifico, con la luce che filtrava dagli scuri e niente altro. Emozionata? Strano, non avvertiva frenesia o ansia. Mancava più di un’ora prima che arrivassero parrucchiere e truccatrice. Aspettava che sua madre suonasse da un momento all’altro, suo padre invece, sarebbe arrivato poco prima della partenza per la Chiesa.

Davvero si stava sposando? Mentre beveva il caffè, dopo essersi fatta la doccia con una cuffia da bagno enorme (quella di sua nonna) per non rovinare il lavoro fatto il giorno prima dal parrucchiere, si fece un selfie. E suonò il campanello. Fine.

Mamma era arrivata, lei sì, emozionata, e l’aveva stretta così forte da farle mancare il fiato. Mi sto sposando mamma, non sto partendo in guerra. Sua madre la fissava, con quello sguardo che conosceva bene, molto bene, e che voleva dire tutto. Voleva dire, principalmente, “Stai andando in guerra”. In fondo, i suoi genitori avevano vissuto la loro storia come una sfida, tutta la vita.

La casa era già invasa, lei non se ne era accorta. Chi le toglieva la cuffia dalla testa, chi apriva bauletti per il trucco, il phon che rumorosamente faceva da sottofondo, un via vai intorno che le ricordava la favola di Cenerentola. Tanti topolini che ce la mettevano tutta per regalarle un aspetto favoloso. Peccato che la truccatrice le avesse infilato lo scovolino del rimmel in un’occhio. Cominciò a lacrimare.

Ah no, non ti commuoverai adesso? Se piangi mi rovini tutto il lavoro.

Ma a nessuno interessava la sua risposta, erano tutti presi. Ed era arrivato l’attimo più atteso, indossare l’abito, trovato dopo infinite ricerche, infinite prove, nella più assoluta indecisione.

Mamma, ti aiuta mamma.

Una vestizione complicata, da papessa, tutto nuovo, la biancheria intima e la sottoveste in seta, le calze col pizzo, il reggicalze, la giarrettiera blu e, finalmente, calato dall’alto, con un cappuccio a coprire viso e pettinatura, si trovò infilata nel vestito. Come una bambola, sistemata ben bene, i bottoncini chiusi uno ad uno, le spalle scoperte leggermente, il raso color perla che scivolava fino a terra. Poi, si guardò allo specchio.

Chi era quella sposa? Chi era dentro quell’abito che, in fondo, non le piaceva poi così tanto? E quei capelli? Perché le avevano voluto mettere a tutti i costi quelle forcine con i brillantini? Ora sì che le veniva da piangere. Avrebbe voluto toglierselo, avrebbe voluto spettinarsi, avrebbe voluto urlare.

Devo chiamare Andrea.

No mamma, non porta male. No mamma, esci per favore. Arrivo subito. Vai a farti un caffè. Esci!

Uno squillo. Solo uno squillo e lo vede. É proprio lui, sorridente, con gli occhi più belli del mondo. Si guardano, non parlano. Si guardano e sorridono. Sono loro.

É arrivato papà.

Si guardano ancora, e sono già sposi. Chiudendo gli occhi chiudono la videochiamata. Prima di uscire dalla stanza decide di mandargli il selfie del mattino, con quella cuffia a fiori ridicola, le occhiaie e il suo sorriso. Aspetta, aspetta la sua risposta.

– ❤️

Ora sì. Ora è pronta.

PLPL – Roma Convention Center La Nuvola – 4/8 dicembre 2024

PLPL – ROMA – LA NUVOLA – 4/8 dicembre 2024

Rientrata! Stanca (molto stanca) ma felice!

È sempre bello partecipare alle Fiere dei Libri e questa al Roma Convention Center La Nuvola, è stata una full immersion!

Cara Gattapazza, ti ho aspettato… e Marisa Salabelle, potevi dirmelo prima che eri presente, ti avrei sicuramente cercata!!!

Ho portato a casa incontri, sorprese, chiacchierate e interviste e… un bel raffreddore!

Non vi ho dimenticato,,, è che dovevo anche dormire( almeno un po’😜).

Marcella


A M A R E

Impulso di scrittura giornaliero
Condividi cinque cose in cui sei bravo.

A ascoltare

M meditare

A aspettare

R rispettare

E… scrivere.

Per la quinta, diciamo che ci provo.

Assenza

Un sospiro. Ancora. E gli occhi trattengono le lacrime come una diga al limite della capienza. Lei è seduta, vicino a suo marito, ed entrambi, stanno fissando la sedia vuota, davanti a loro. Il piatto mezzo pieno di pasta in bianco, col parmigiano, il piatto preferito da suo figlio. Quello era il piatto che le aveva sempre chiesto, quello era la via per la salvezza. Ma non era stato così. Neanche oggi. Il mostro che si era impossessato di Davide lo stava portando via, e lei sentiva i conati di vomito, dal bagno, e lo sciacquone, che dichiarava: é fatta.

Assenza.

Questa parola le si era insinuata sotto-pelle, durante le sedute con lo psicologo che aveva preso in cura Davide. Ma non erano le ragazze ad essere vittime di anoressia?

An-orexis, assenza di appetito(orexis), non è solo il rifiuto di nutrirsi, è assenza di desiderio, del desiderio di vivere.

Perché Davide?

Eri così intelligente, non capisco come mai non riuscivi ad ottenere voti migliori, per non parlare delle uscite con i tuoi amici. Quante volte ti abbiamo rimproverato per aver fatto cose assurde, come guidare bendato o lanciarti, da un palazzo di tre piani, all’altro. E quella volta che tuo padre ti ha visto uscire truccato come un trans, e gli avevi risposto che era un gioco? Gioco, sti c…i, io ero rimasta inorridita. Mio figlio, MIO FIGLIO, che va a passare una serata con chissà chi, conciato in quel modo. Ti sei drogato? Sono sicura che ti sei anche drogato.

Non sai più ragionare. Lo hai mai fatto? Bisogna pensare prima di agire!

Non vedi quanto ci fai preoccupare? Pensavo fossi più forte. Hai smesso di lottare, se mai hai cominciato. Io sono stanca, tuo padre è stanco.

Davide non ha nessun sentimento di colpa. Lui nega, negava sempre. Lui, allo specchio, si vede enorme e grottesco, immeritevole di esistere. Nella sua camera, perfettamente in ordine, i libri impilati per gamma di colore e dimensione, il letto immacolato, col copriletto rigidamente infilato ai quattro lati, la scrivania sgombra, con solo quattro penne allineate davanti al computer. Non c’era posto per ninnoli o fogli, per scarpe abbandonate a terra, magliette lasciate sulla sedia. Non c’era posto.

Prese dall’armadio, lucido e perfettamente chiuso, il suo borsone per la palestra ed uscì.