Tassellazione vs illusione

Autunno. Finite. Le vacanze sono finite. E osservò le prime foglie autunnali che, in strada, si erano sollevate inseguendo una moto, come i barattoli appesi dietro alle macchine dei novelli sposi. Un caffè americano sul tavolino e il telefonino alla mano, valutò che, tutto sommato, il cielo le ricordava certe mattine estive fresche, quando usciva prestissimo per godersi i rumori ovattati delle barche che cozzavano pigramente sulle boe. Ma i colori, i colori del tempo erano virati, velati come le nature morte, in una tassellazione in cui tutto sembra immobile.

Immaginò la sua vita riflessa sulla sfera di Escher. Si sentiva intrappolata, congelata.

Potrei farne un fermacarte, di quelli in plexiglass, in cui imprigionano una foto o un oggetto.

Passò, davanti a lei, una giovane mamma con il telefonino all’orecchio e una bambina in braccio. I loro sguardi si incrociarono. La bambina aveva gli occhi grandi, neri, profondi, ma immensamente malinconici. Un ricordo, uscito chissà come, la intristì senza motivo.

Scrollò il suo telefono, cercando video sulle felicità, e si fermò ad ascoltare un’intervista fatta ad un anziano signore.

Mi scusi, cos’è per lei la felicità?

L’anziano, ancora in forma per la verità, stava camminando da solo e si era fermato. Il suo sguardo gentile s’indurì. Non lo so. Sono attimi così veloci che neanche restano nella memoria. Restano solo i rimpianti. Improvvisamente, era diventato vecchio.

Si era alzato un po’ di vento e le aveva spostato i capelli sul viso, sibilando così forte da coprire il dialogo nel telefono. Non si può essere tristi da bambini e anche da vecchi. E in mezzo? Pensa, pensa! Scandagliò la memoria, cercando gli attimi di pura gioia, quei ricordi che sembrano diapositive corrose dall’oblio. Appoggiò i gomiti sul tavolino, mise le mani sulle orecchie e chiuse gli occhi. Intorno le persone entravano e uscivano dal bar, macchine e camion sfrecciavano in lontananza, la gente parlava, il vento parlava, la mente parlava. Qualcuno urtò il suo tavolino e fece cadere la tazza. Aprì gli occhi sulla pozzanghera nera, il colpevole si stava scusando ma lei non lo sentiva, guardava il luccichio.

E in un attimo, affogando in quel nero, capì che, quella bambina, quella bambina le aveva letto dentro.

Il mio SalTO 2025

Per il secondo anno sono stata nel magma editoriale più importante d’Italia con i miei due romanzi… e tantissimi scrittori.

Non sono riuscita ad incontrare tutti quelli che avrei voluto, ma le giornate sono state caotiche e piene di appuntamenti. È un po’ un Luna Park,,, sicuramente una vetrina importante anche se i grandi editori la fanno da padroni, un cliché, ma questa è la realtà e chi scrive lo sa bene!

La verità sta nell’amore per la scrittura che, come tutte le forme d’arte, richiede tempo. In questo l’A.I batte tutti ma… come ho detto in un reel: “Se Michelangelo avesse avuto una fresa per il marmo, avrebbe impiegato due mesi e non tre anni per realizzare il David e, sicuramente, avremmo avuto tanti, tantissimi Michelangelo… ma nessun David.

ad maiorem 🪭

PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI – LA NUVOLA a ROMA

SCRIVERE! Siamo tutti(quasi)scrittori… a qualcuno riesce meglio.

E così, quando vedi i tuoi libri pubblicati ed esposti nello stand della tua Casa Editrice, quasi, quasi, ci credi!

Due o tre cose che so di sicuro (omaggio a Dorothy Allison): scrivere mi viene naturale, mi piace scrivere, non a tutti piace come scrivo.

Per chiunque fosse nei paraggi della NUVOLA, Roma EUR, 4/8 dicembre… vi aspetto, da venerdì pomeriggio!

Sarò quella che sorride… 😊

Marcella

Centro Congressi “La Nuvola”, la Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria “Più libri più liberi”.

Boccascena e il mantello d’Arlecchino

Persa. Non provava altra sensazione. Pensandoci meglio, si sentiva anche oppressa, claustrofobica, come rinchiusa in un bunker grigio, con le fredde luci dei neon. Era davanti allo specchio, chiudendo un occhio alla volta, fissando l’iride. Le sembrava che una fosse più chiara dell’altra. Immaginazione. Forse un po’ di strabismo di Venere. Sensuale. Si perse tra le pagliuzze ocra che, diventando immense, la ingoiavano e la risputavano inevitabilmente sul freddo vetro. Persa.

Era invidia. La sua, aveva qualche screziatura gialla. Persa.

Quanto avrebbe voluto provare invidia buona, semplice ammirazione, ma non esiste l’invidia buona. E rise amaramente, pensando a chi si barrica dietro alle parole e cerca uno scudo per proteggersi dalla verità. Bruciava, eccome, avere perso. Una bella colata di acido proprio nello stomaco, lenta e crudele.

L’invidia è la carie delle ossa, ne puoi sentire l’odore, immaginare il colore imputridito, sapendo che è lì, insolente. É uno dei sette vizi capitali, mica fuffa, una dichiarazione di inferiorità, comprovata dal fallimento personale. Ed io, ho fallito.

Persa.

Che altro avrebbe potuto fare? Raccomandazioni, cena e annessi con uno dei giurati, si era perfino fatta la mastoplastica riduttiva e ritocchini vari su indicazioni del suo agente. Ma non era bastato.

Che altro volete? Ditemelo? Il talento c’è, lo so che c’è, quindi? Cosa mi manca? Perché non io?

Un conato di vomito la piegò sulla tazza del WC, spruzzando aceto e bile ovunque. La pelle si stava squamando, bastava toccarla e perdeva piccole scaglie luminescenti.

Più magra di così? Lo posso fare. Certo che posso.

Si asciugò la bocca e andò in cucina scrollando i video sul cellulare. Prese un bicchiere e lo riempì d’aceto, bevendolo tutto d’un fiato. Quasi non sentiva le budella contorcersi mentre osservava le altre, quelle che erano state prese.

Lacrime acide, collose e minuscole, le scesero sul viso e lì, rimasero.

Magico buio

Aveva passato la notte tra troppi caffè e un posacenere stracolmo di cicche di sigarette, un quadro deprimente, molto lontano dalle sue ambizioni. Fissava lo schermo del computer come se tra le icone, le foto e tutte le finestre aperte, alla fine, aspettasse l’apparizione del romanzo. Ci stava lavorando da mesi e, tra cambi continui di trama e personaggi, ne aveva perso il significato.

Il menabò iniziale era là, su un quaderno, tra i suoi appunti, le cancellature e le aggiunte. A forza di ritocchi era diventato un mostro, qualcosa che aveva preso vita da solo e che le stava togliendo la ragione. Ci parlava, continuamente. Rileggeva e correggeva.

Si alzò dalla sedia con le spalle indolenzite e, stirandosi il collo, se ne andò in cucina. Un altro caffè. Sarebbe stato meglio smettere. Anche di bere caffè.

Strana bevanda il caffè, pensò fissando la polvere scura, siamo proprio creativi quando vogliamo. Spostò la sedia dal tavolo aspettando di sentire il gorgoglio, aspettando.

Appoggiò le braccia sul tavolo e la testa, piano piano, chinandosi, ci si avvolse. Sentiva con la guancia il fresco del legno, le orecchie ovattate dall’abbraccio confortante, gli occhi chiusi che chiedevano riposo. Ma i pensieri continuavano senza sosta, come un severo precettore che ti riporta ai tuoi doveri. Riusciva quasi a dargli un volto, se lo immaginava impettito, nel completo rigido, col colletto della camicia inamidato e quel sorrisetto sardonico di sufficienza.

Come quando, da bambina, se a scuola sbagliavi una risposta o peggio, osavi darne una diversa permettendoti di fare una tua personale considerazione, si usava ancora mettere l’alunno dietro la lavagna, con ignominia e imbarazzo.

Forse ci si era messa da sola, dietro la lavagna, sforzandosi di creare qualcosa in un momento in cui la creatività era in letargo. Succede. Non si può creare a comando, non funziona, il risultato è sempre anonimo, insignificante.

Buio. Stava dormendo. Aveva spento il caffè? Sì, no. Non si ricordava, non importava. Buio. La mente che finalmente stava facendo un defrag, schizzando tra infiniti mondi, tramonti dai colori irreali, visi conosciuti ma in contesti mai visti. Poi, nero. Pesante, quasi solido, faticoso attraversarlo, pece che impantanava, che le pizzicava le narici.

Il caffè era uscito ed eruttava borbottando rumorosamente dalla moka, come un piccolo vulcano nervoso, spruzzando liquido scuro e spumoso. Aprì gli occhi, osservò il disastro ormai fatto e, alzandosi con calma, andò a spegnere la fiamma. Tornò a sedersi, richiuse gli occhi, cercando quel magico buio, profondo, in cui perdersi e sprofondare tra i sogni. I sogni, sono messaggi da lontano. Buio.

Ombre cinesi

Se ne stava sul divano, ferma, in silenzio. Aveva appena finito di confessare alla sua famiglia che, quella laurea tanto attesa, non sarebbe arrivata.

Osservava i visi dei suoi genitori, suo padre con gli occhi fuori dalla testa e la bocca aperta, sembrava un animale feroce in attesa di ruggire, sua madre invece, aveva abbassato lo sguardo per rialzarlo subito.

Si sentiva sprofondare lentamente tra i cuscini, avrebbe voluto dissolversi nell’aria o volare via. Alla fine, aveva dovuto confessare, la discussione della tesi di laurea, segnata sul calendario, sarebbe stata tra due giorni.

Perché? Continuavano a chiederle. Perché?

Come poteva spiegare che erano già tre anni che non sosteneva più esami e che aveva finto tutto il tempo? Esistono parole migliori per giustificarsi? Esistono parole? La mente vagava e le sembrava di non sentire le continue domande, le sembrava di non vedere i suoi, agitarsi, alzarsi dalle sedie, girare nervosamente per la sala. Notava spostamento d’aria.

Poi, invece, l’aria le mancò, il malessere diventò terrore, un conato di vomito sorprese tutti, come uno zampillo improvviso tra le rocce. Non era svenuta, era vuota. Con gli occhi che fissavano il soffitto, i crampi alla pancia, come quando aveva affrontato i primi esami all’università. Fino al quarto, che aveva dovuto ripetere troppe volte, troppe. E allora, aveva cominciato a non mangiare, a riempirsi di integratori, a ripetere come un automa, a memoria, tutto il testo. Se lo ricordava ancora, scolpito nella mente, sempre, salvo quando si bloccava davanti alla commissione d’esame. Era cominciato così.

La bambina prodigio, quella che aveva sempre reso tanto orgogliosi i suoi genitori, quella che era destinata a grandi cose. Era cominciato così. La menzogna era un rifugio sicuro, che non chiedeva spiegazioni o giustificazioni, rimandava il problema. Era un’amica fidata che proteggeva. Ora che l’aveva tradita, svanendo nella verità, era su una montagna russa che la trasportava a folle velocità, senza una destinazione.

I suoi genitori avevano lasciato la stanza, stavano discutendo in cucina e lei, rimase a fissare le ombre delle tende sul soffitto, sembravano disegni, ombre cinesi. Come nella *leggenda, sembravano spiriti venuti a consolarla, la menzogna non l’avrebbe abbandonata. Non c’era bisogno di parlare, bastava osservare.

Si alzò lentamente, prese la borsa e il telefonino, uscì di casa, aggrappata al suo libro.


*Una leggenda vuole che l’Imperatore cinese Wudi (140-85 a.C.) fosse divenuto molto triste in seguito alla morte della sua concubina Li Furen. Per consolare il sovrano, i suoi eunuchi fecero scolpire una figura in legno simile alla donna e ne proiettarono l’ombra su una tenda. L’Imperatore, credendo che fosse lo spirito della sua amata che tornava a fargli visita, si sentì consolato. 

Foot da unsplash

Mi mancherà?

Mi mancherà tutto questo?

Fissava il campo di pannocchie, un mare verde dai riflessi ocra, mosso dalla brezza nell’alba. Un sole giallo e rosso, come una caramella, dai contorni netti, piantato nel cielo, immobile, pronto ad esplodere aprendo il suo occhio al mondo.

Mi mancherà?

Le panchine della stazione erano piene di persone, valigie, zaini e cagnolini ansimanti, ma non faceva ancora caldo. L’altoparlante gracchiava di transiti veloci, era un continuo spostarsi da una parte all’altra, prima di risolvere rifugiandosi nelle scale del sottopassaggio. Troppa polvere e rumore, stava rovinando tutto.

Il bagaglio era piccolo e pesante, l’appendice della sua vita. C’era stato tutto. Avrebbe voluto partire leggera, ma mancava sempre qualcosa da aggiungere, qualcosa che le sarebbe potuto servire, qualcosa che si era dimenticata. C’era stato tutto.

Basta essere pragmatici, ogni cosa al suo posto, ma guai a spostarla, il gioco non sarebbe riuscito. Come un castello di carte, se sbagli, crolla tutto.

C’era lo spazio per i rimpianti, quello dei ricordi, le buste trasparenti dei dolori, tanti sacchetti di gioia che però non riusciva a riconoscere. Aveva messo qualcosa negli scomparti a cerniera laterali, cos’era? Ah, le delusioni e le amarezze, da una parte, e le illusioni dall’altra. I sogni? Si era dimenticata i sogni? Non poteva riaprire e controllare.

Pensa, pensa. Li avevi messi tutti in fila sul letto. Non è possibile. Certo che li ho presi. Li avrò messi nel mezzo, sono così fragili. Che altro?

Ormai il cielo era chiaro e lattiginoso, aveva ingoiato la luce del sole, appiattendo tutto. Le balle di fieno sembravano grigie, i campi sembravano grigi, tagliati da una striscia verde brillante, come una ferita aperta.

Musica in sottofondo, vociare, un altro giorno pronto a scivolare via, come un rigagnolo tra sassi e sterpaglie.

Il suo treno era arrivato, non se ne era quasi accorta. Salì per ultima, aspettò che le porte si chiudessero e, mentre si stava muovendo, rimase a fissare il suo bagaglio, rimasto sulla banchina.

Non sarebbe tornata più.

Non torno più

Quel giorno Anna si aspettava il solito, la sequenza di impegni che da quattro anni cadenzavano la sua vita.

Il secondo figlio era arrivato, col suo profumo di buono, con quel carico di fatica che già conosceva e che svaniva appena lui accennava un sorriso. Erano figli che aveva voluto, che aveva imparato ad amare anche razionalmente, perché l’istinto a volte non era sufficiente. Aveva dovuto ammettere a se stessa che il pragmatismo, l’accettazione dell’imperfezione, dei vestiti che avevano ricominciato ad emanare effluvi di rigurgiti, delle occhiaie impermeabili a qualsiasi trucco, facevano parte del pacchetto. Un pacchetto unico, misterioso, visceralmente connesso ad ogni sua decisione.

Sparite le sere placide sul divano, dissolti lentamente gli incontri con il gruppo storico di amici.

La famiglia, una forza devastante. Ma non per sempre.

Basta saper attendere. Basta essere adulti.

Quel giorno Anna si aspettava il solito.

Dopo aver chiuso la conversazione al telefono con suo marito, era rimasta in piedi, davanti alla finestra, fissando i pini marittimi svettare nel cielo statico, come una cartolina:“Baci da Roma”.

Guardava fuori, il più piccolo stava piangendo e il suo cuore era placidamente altrove.

  • Non torno più.

Il vento muoveva leggermente le pesanti chiome degli alberi, si notava appena.

  • Non torno più. Rimango qui, ho bisogno di allontanarmi. Non è la vita che volevoNon ci riesco.

Si voltò per prendere in braccio il suo ultimo cucciolo, aveva bisogno di lei. Bastava poco, bastava che sentisse il suo abbraccio o una bella dose di biberon.

Lui che come ogni giorno era uscito di casa, come se nulla fosse, come sempre.

  • Non torno più.

Lui che non era venuto in sala parto, lui che nelle prime foto fatte insieme al piccolo, sembrava un vecchietto, grigio, spento, assente, come se tenesse in braccio la borsa della spesa. Lui che si era lentamente, progressivamente appannato, che stava svanendo.

Lei si era accorta dei segnali, aveva osservato quel vuoto diventare voragine. Ma non aveva fatto niente. Cosa avrebbe potuto fare? Aveva due figli, non tre.

  • Non torno più.

Ma non c’eri già più.

Se continuiamo a sognare

Impulso di scrittura giornaliero
Come capisci che è il momento di staccare? Cosa fai per realizzarlo?

Credo sia essenziale trovare un momento per disconnettersi dal mondo, quando le sinapsi cominciano a fondere, quando ti sale il nervoso per qualunque cosa, fosse anche la vicinanza degli altri. È in quel momento, quando ti stai trasformando nell’essere immondo che non riesce più ad accorgersi di un cielo screziato, del colore degli alberi, del sorriso di certe persone e, soprattutto, del tuo egoismo. Ecco, quando sembra che la vita ci abbia preso di mira, e ci sentiamo come un bersaglio tondo, attaccato ad un muro, colpito in continuazione da freccette dolorose, dobbiamo staccare. Cosa significa? Per me è sufficiente pensare a chi amo, uscire, ascoltare la musica che preferisco, camminare e sognare. Funziona. Se continuiamo a sognare, funziona.

SalTO- SALONE INTERNAZIONALE DEL LIBRO DI TORINO – Marcella Donagemma

ECCOCI! Dal 9 al 13 maggio il SalTo, Salone Internazionale del Libro di Torino, apre le porte. E quest’anno, al Padiglione 3, stand 69, ci sarò anch’io, MARCELLA DONAGEMMA, col mio ultimo romanzo < TRA LA POLVERE E LE NUVOLE> edito dalla Echos Edizioni.

Sono una dei tantissimi autori che saranno presenti, felice di esserci e immersa nel mio mondo, quello dei libri. Scrivo dagli anni ’90 e sono al mio terzo romanzo, pubblicato circa un anno fa. Il mio nome non è conosciuto, non ancora… Non ho avuto campagne di marketing aggressivo o presenze social importanti, ho scritto.

Cosa è importante per uno scrittore? Non è un hobby, non è improvvisazione o realizzazione del libro nel cassetto, mai avuto libri nel cassetto. Chi, come me, ama definirsi scrittore, lo fa non solo perché c’è chi ha creduto nell’opera, ma soprattutto perché, una volta pubblicata, ha ottenuto riscontri belli, bellissimi, da chi la ha letta. La gratificazione passa solo attraverso le recensioni, quelle oneste, quelle che ti lasciano il cuore in gola per l’emozione. Ebbene sì. Tra l’essere convinti di aver scritto qualcosa di valido e la certezza che lo sia, ci passa un mondo di lettori.

Spero che siate tra questi.

Ci vediamo al Salone del Libro! 

Marcella Donagemma


Essere, qualcuno.

“Sei sicura di voler ballare con lui?” E lei, alza gli occhioni da terra, fissa la telecamera e annuisce. Parte la musica. Deve essere davvero alta, non si sente niente, ma è un momento dedicato proprio a quella coppia, devono dirsi tante cose, più cose possibili, con la bocca attaccata alle orecchie dell’altro, i nasi che si scontrano perché non hanno finito la frase. Ma la musica svanisce, e tutti, tornano al proprio posto.

Si agitano le labbra ingombranti di una dei conduttori della trasmissione, non c’è tempo da perdere, deve dire la sua. Ed è davvero complicato cercare di interpretare la sequela di frasi, interrotte da sguardi eloquenti, risate sardoniche, minacce di abbandonare lo studio. La regia sta facendo un lavoro sull’orlo di una crisi di nervi, passa da una inquadratura ad un altra. Un uomo di mezza età si sta osservando le scarpe, massaggiandosi una caviglia e l’immagine successiva è già litigio.

Due ragazze non troppo giovani o donne non troppo anziane, che stanno ad un pelo dal prendersi letteralmente per i capelli ma, il pensiero del lavoro certosino di trucco e parrucco, sicuramente le blocca. Ma non blocca le voci, come aquile inferocite che stanno difendendo il nido, anche se qui, di così prezioso, non si vede nulla, non si percepisce nulla.

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Giusto il tempo di ritoccare il trucco, immagino, o dare uno sguardo alla scaletta, e si è di nuovo online. Scende dalle scale una ragazza mora, dai capelli lucidi e una minigonna che sembra più una cintura, portata molto bassa. Cammina con finta sicurezza, sa di essere considerata un’altra minaccia. Le occhiate al vetriolo si sprecano. Baci di benvenuto e si accomoda. La gente del pubblico applaude. Ma chi è? Ma chi sono?

Riparte la diatriba sul perché non vuoi uscire con me.

Abbiamo appena ballato insieme.

Mi hai detto che ti piaccio molto.

Non sei vero.

Non sei mai stato vero.

Io sono vera.

Io sono sempre stata me stessa.

La Fiera delle Vanità, verrebbe da dire, se non sentissi che stona il paragone. Eppure pare funzionare, se non ci si sofferma ad osservare gli sguardi vuoti o impauriti o desiderosi di essere inquadrati, dei tanti partecipanti. Fanno quasi tenerezza. E inquadratela un attimo! In fondo si è messa alla gogna, è lì, inguainata in un vestito di due taglie più piccolo, con dei tacchi che hanno sicuramente necessitato ore di prove. In fondo, cosa vi costa? Perché lei no?

Perché sono lì? Il loro cuore è davvero sobbalzato vedendo quella persona inquadrata, mentre parlava del nulla, al punto di voler partecipare a casting estenuanti ed esporsi alla berlina mediatica?

La fama. Essere qualcuno, esistere e, soprattutto, resistere.

Ma il talento? Il valore che, probabilmente c’è, se non in tutti, almeno in alcuni? Come falene, attratte dalle luci dello studio, svolazzano, urtandosi, offendendosi, odiandosi, vaneggiando.

É un reality, cito: “spettacolo che mira a trasformare la realtà, o presunta tale, in una forma di intrattenimento leggero, senza uno scopo prettamente educativo”.

Intrattenimento leggero. Non per loro.


Foto da unsplash

Fiammata

Oggi è un giorno speciale. Non per qualche evento particolare o unico nella sua vita, era appena stata investita da una fiammata di felicità. Inseguiva, come tutti, l’agognata serenità ma, quell’istante in cui, all’improvviso, era arrivata la fiammata ardente ad incendiarle il cuore, il viso, consumando tutta la sua energia, sapeva che sarebbe rimasto per sempre nei suoi ricordi.

Le risultava difficile pensare ad altri attimi di felicità nel passato, se ne ricordava alcuni, come braci quasi spente di un camino. Quegli istanti in cui la sintonia era perfetta come un tondo di Giotto, o la risata era piena da stordire, o l’emozione aveva intrecciato le viscere. Ecco.

Oggi le era sembrato di essere catapultata in aria, sottile come un raggio di luce, così lontana dal resto del mondo che osservava dall’alto, altrove. Come catturare questa percezione? Le sensazioni sgradevoli restavano appiccicate, riapparivano improvvise, di tanto in tanto, come la lama del dolore che aveva trovato comodo rifugio dentro di lei. Era silente e continua, come un mal di denti che si rivela lentamente, cala e poi aumenta.

Non c’era modo di archiviare le fiammate in un file? Non era proprio possibile trovare una parola chiave che fungesse da propellente?

Scosse la testa, i suoi ricci ballarono, ebbri, ancora per un po’, come i serpenti della Medusa le ricordarono che i sogni possono aprire varchi illuminanti. Ma quello di oggi non era stato un sogno, piuttosto un Uroboro, che si divora, per rigenerarsi attraverso una vampata che nutre e consuma allo stesso tempo.

Rimase la sensazione sdrucciolevole, simile all’acqua del mare sulle tavole da surf, mentre cerchi l’equilibrio e, anche se fatichi, sorridi.


Foto di Dark Rider da Unsplash

Ti auguro tempo.

Oggi è grigio. Tutto.

Il cielo, gli alberi, il mio riflesso sui vetri del bar. Non piove ma è tutto bagnato, siamo in un enorme bagno turco gelato, quasi un ossimoro, a pensarci bene.

Se ci fermassimo per strada, saremmo ricoperti da una brina, grigia.

Eppure ha un suo fascino, tutta quest’acqua, presente e invisibile, così necessaria ma fastidiosa in questa forma. É confortante sapere che non è eterno, niente lo è, domani potremmo essere scaldati da un pallido sole, rivedere i colori.

C’è una costante in tutto ciò, la nostra frenesia. L’energia cinetica che sembra l’inesauribile spinta quotidiana nella routine delle nostre giornate.

E così, c’è sempre qualcuno che si lamenta del lunedì, come c’è sempre qualcuno che inneggia al venerdì. Le giornate in mezzo perdono, sono solo il passaggio tra due sensazioni. Una vita così è triste come questa giornata.

Osservo l’impiegato che ha appena preso il caffè e, anche senza parole, manda segnali, già proiettato alla fine della giornata. Una giornata persa, tempo prezioso che verrà ignorato perché evidentemente non dedicato a ciò che vorrebbe. Certo, gli impegni quotidiani non sono sempre giri di giostra, ma rimango dell’idea che, nel fare, sia importante il come, più del cosa.

Chissà con cosa ho zuccherato il caffè oggi? Troppa filosofia nella canna da zucchero.

Comunque, ora che te ne vai, col passo stanco, svuotato, aspetta!

Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo, ti auguro tempo perché te ne resti.

Davvero, vorrei poter dispensare tempo come una dea, una Kālī positiva. Ma sei già fuori, nel grigiore, molle come una medusa finita sul bagnasciuga, sbatacchiata dalle onde.

Domani, domani ci sarà un po’ di sole.


TI AUGURO TEMPO (Elli Michler)

Non ti auguro un dono qualsiasi,
ti auguro soltanto quello che i più non hanno.
Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere;
se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa.

Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare, non
solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri.
Ti auguro tempo, non per affrettarti a correre,
ma tempo per essere contento.

Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo,
ti auguro tempo perché te ne resti:
tempo per stupirti e tempo per fidarti
e non soltanto per guardarlo sull’orologio.

Ti auguro tempo per toccare le stelle
e tempo per crescere, per maturare.

Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare.
Non ha più senso rimandare.

Ti auguro tempo per trovare te stesso,
per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono.

Ti auguro tempo anche per perdonare.

Ti auguro di avere tempo,
tempo per la vita.


Foto christina-langford-miller- da Unsplash

Forse eri un elfo

Cara zia, ci siamo conosciute poco, o forse abbastanza. Abbastanza per riconoscere in te qualcosa di unico.

Sarà stata la tua vita, molto spesso all’estero, sarà stata la tua età, così indecifrabile, ma ascoltarti era fonte di curiosità e domande cadute nel vuoto.

Eppure, lasciavi sempre un segno, quasi una carica elettrostatica. Davvero, io l’avvertivo, quel tuo non so che, quel tuo essere con noi e altrove. E quando i nostri sguardi si incrociavano, non servivano parole, bastava il bagliore delle tue pupille che già io viaggiavo con la fantasia.

Ecco, avevi il dono che hanno alcune persone, quelle persone che si incontrano raramente, di essere immensa e strana, colta e curiosa, mezza donna e mezzo elfo. E io, ho sempre amato gli Elfi.


Ti ho visto

Ti ho visto. Sì, ti ho visto quella mattina, di spalle, la tua piccola ombra che faceva fatica a seguirti.

Eri là, sulla banchina, guardavi per terra, in mezzo a tante persone. Chi fumava, chi parlava, chi restava immobile mentre tu passavi.

Troppo lieve, troppo, per essere di questo mondo. Lo sai? Sicuramente lo sai. Ma gli altri?

Mi sembrava di sentire i battiti del tuo cuore, il tuo respiro portato da una musica antica, di cornamuse e note di pianoforte. Un’onda silenziosa si muoveva insieme a te, sfiorando corpi, facendo fremere i capelli.

E gli occhi?

Gli occhi della gente che lambivi, riflettevano una scintilla minuscola e violenta, spilli luminosi.

Li avevi accesi tu?

Esisti dunque. Esistete, perché immagino tu non sia il solo.

Mi hai sentito? Sapevi che mi ero accorta di te? Forse non eri lì per me. Forse.

Arrivavano spruzzi salmastri, il profumo del mare, delle alghe che marcivano tra gli scogli corrosi. Ti eri fermato e ti osservavo, seduta su una bitta in ghisa. Era arrivato il traghetto, riempiendo l’aria di mugolii tra lo sciabordio spumoso. La folla si stava muovendo come una nuvola di storni, spostandosi in una danza passiva e massiccia.

Ma tu non c’eri più, i miei occhi passavano impazziti su quella macchia uniforme, pensavo ti avessero inghiottito. Era rimasta solo la tua piccola ombra in una pozzanghera azzurra.

E ci ho messo dentro i piedi.


Foto Clem Onojeghuo da Unsplash

La magia

<Mi è venuto un attacco di scrittura.>

Come una bronchite, di quelle lunghe, anche fastidiosa, che non ti lascia dormire.

Così si alzò per andare al computer, per sentire quel ticchettio dei tasti che la calmava come uno sciroppo contro la tosse. Le righe che si riempivano di parole, la mente che si riempiva di pensieri, il portacenere che si riempiva di sigarette lasciate lì, a consumarsi.

Che ore saranno? Importa? No.

Ci sono momenti nella vita in cui provi qualcosa di speciale, ti è concesso, e ti senti vivo. Ed eccola, la scossa che percorre le braccia, le mani, arrivando alle dita che sembravano avere vita propria. Le osservava mentre i pensieri fluivano fino ai tasti. Non guardava lo schermo, pensava, già sapeva che avrebbe dovuto correggere chissà quanti refusi, non aveva importanza.

Come da bambina, quando sull’altalena guardava il mondo a testa in giù, sentiva il suo mondo sottosopra.

Quella sensazione di correre per arrivare sempre nello stesso posto, impegnata a combattere qualcosa che non è visibile.

< Mi sa che ho la febbre. >

Continuava a scrivere e cancellare, riscrivere.

Capitava, a volte, ed era come nelle fiabe, la magia che fa tutto, e la faceva sentire come uno strumento, una prolunga dei tasti. La magia della mente che stava facendo un defrag: le scene, le persone, i dialoghi, apparivano e sparivano, lasciando tracce di amore, odio, desiderio, vita, si sovrapponevano e svanivano. Pensieri come piume messaggere, un Allegro di Bach che sfrigolava le sinapsi, seguendo il suo ritmo incessante. Guai a fermarsi per fare pipì, il concerto doveva finire, essere compiuto.

Capita, a volte, la magia.


Foto di Michael Dziedzic da Unsplash