Perché non mi hai amato?

Appena scesa dal treno, aveva cominciato a camminare velocemente, come se fosse in ritardo, schivando altri passeggeri che le ingombravano il passaggio. Riemersa dall’ennesima scala e diretta verso l’uscita invece rallentò, con la luce che, dall’alto finestrone della facciata della stazione, le inondava il viso, ferendole gli occhi. Abbassò lo sguardo sul pavimento in marmo corroso da tanti piedi diretti chissà dove, continuando a camminare assorta. La mente cominciò a vacillare e insinuare dubbi e domande. Aveva fatto bene ad imbarcarsi in quella ricerca? Nei giorni precedenti si era immaginata quell’incontro tante volte e, tutte, in maniera diversa, ma accomunate da una fortissima emozione. Sarebbe stato così? Quello che stava provando non era ansia ma, paura.

Quando, tempo addietro, si era decisa a ricercare i suoi genitori biologici, ne aveva parlato con la mamma. Una sera, senza il papà, perché aveva pensato che fosse più giusto parlarne prima con lei. Ecco perché continuava a vedere lo sguardo di sua madre, che la fissava mentre cercava di trovare le parole più adatte, mentre farfugliava nel tentativo di comunicare qualcosa di doloroso. Sapeva che sarebbe stato in qualche modo doloroso. E quello sguardo, invece, era stato un urlo silenzioso di infinito amore, accompagnato da un abbraccio finale, come quelli che le dava da bambina. Devi farlo se ne hai bisogno. Tutto qui.

Sua madre quella mattina, l’aveva salutata come sempre, ma c’era anche suo padre e, questo particolare, le aveva dato la sensazione di un addio. Non volava ferirli, non avrebbe mai voluto, ma forse lo aveva fatto, ormai, l’aveva fatto.

Dopo lunghe ricerche era riuscita a trovare un numero di telefono, quello del figlio. Sua madre biologica aveva avuto un figlio, forse più di uno. La telefonata successiva, alla donna che non l’aveva voluta, che l’aveva lasciata sola, fu abbastanza difficile, tra silenzi e dammi del tu, fino alla decisione di incontrarsi, su proposta di quella donna.

Guardò l’orologio e si accodò alla fila dei taxi. Quando hai fretta il tempo sfugge e corri il rischio di arrivare troppo presto o troppo tardi. Puntuale. Avrebbe solo voluto essere puntuale, al massimo, un po’ in anticipo. Chissà come sarà? Mi assomiglierà? Sarà contenta o in imbarazzo?

Eccolo il bar, elegante, in centro. Scese quasi in trance, come se all’appuntamento fosse andato il suo avatar. Scrutò tra i tavoli in cerca di una signora da sola e la vide. Esile, giovane e dal viso dolce. Aveva il suo stesso neo sulla guancia.

Salve. Sono Beatrice.

La signora la guardò perplessa chiedendole chi fosse. Non era lei. Si scusò e allontanandosi cercò ancora con lo sguardo senza successo. Decise di accomodarsi e aspettare.

Aspettò. Invano.

Un messaggio. < Scusami, ci ho ripensato. Mi dispiace ma non posso rimediare in alcun modo. Ho una famiglia che non sa e che non voglio far soffrire. So che capirai, sei un’adulta. Al telefono sembravi serena. Ti prego di lasciare le cose come stanno e ti auguro il meglio, visto che io non ne sono stata in grado.>

Un saporaccio, quasi ferroso, le riempì le mucose della lingua, la salivazione sembrava azzerata e il respiro si fece affannoso. Mamma, dove sei mamma? Pensando a quegli occhi senza fondo che l’aspettavano a casa, pagò il suo caffè e si avviò verso i taxi.

L’astronave degli esposti

Aveva dimenticato i guanti, ancora. Forse gli sarebbe convenuto mettere un avviso sul cellulare, per ricordarselo. Camminava veloce con le mani in tasca, ma il marciapiedi era stretto da un’impalcatura, che sorreggeva una larga crepa nel muro del palazzo di fianco.

Tocca deviare, passare sulla strada, proprio vicino ai cassonetti maleodoranti. Non c’era verso, caldo o freddo, quei ricettacoli di germi, quelle astronavi debordanti immondizia, annunciavano la loro presenza con olezzi immondi, portati dall’aria. Passano le macchine in fila, stringono, e la vicinanza ai bidoni si fa pericolosa. Mentre cerca di trovare un suo spazio, un equilibrio, sente un miagolio, proprio dietro. Sembra, dietro.

Si volta e tutto tace per un attimo, poi ricomincia, più forte, e viene da dentro l’astronave, proprio là dentro. Sta per andarsene, vedendo arrivare un camion per la raccolta. Fa qualche passo, poi torna indietro. Avranno buttato una cucciolata? Mostri. Non ce la fa, deve controllare.

Buste chiuse, aperte, puzza di urina e marciume. Là, là sotto c’è una busta che si muove, saranno là. E affonda le mani nell’immondizia, non ci arriva, si appoggia al cassonetto e si sporge all’interno, il giaccone macchiato da chissà cosa, pezzi di carta che si appiccicano e la busta gli scivola.

Il camion per la raccolta è arrivato e lo hanno preso per un barbone. Lui parla, con il busto inclinato dentro l’inferno, quasi gli manca il respiro, ma è riuscito a prendere un lembo della busta. Chiede aiuto inutilmente, tra i visi seccati, tira su la busta, lentamente, per non perderla, come se fosse un premio, uno di quelli delle macchinette alle fiere, dove non riesci mai a sollevare con la piccola gru, il pupazzetto che hai scelto.

Strappa un lembo della busta e vede un braccino.

< É un neonato!>

Lo toglie dalla busta, sta mugolando a occhi chiusi, è quasi blu, come il lungo cordone ombelicale ancora attaccato, che scivola dentro al marciume. Lo afferra al volo, si toglie il giaccone e avvolge quel minuscolo essere umano, uscito dall’astronave, sopravvissuto a quel viaggio. Stanno chiamando il 113 e il 118, il traffico è bloccato, tra i clacson qualcuno scende urlando dalla macchina, qualcun altro arriva a fare foto. Ma lui, stava scaldando il corpicino, lo massaggiava proprio nell’attimo in cui aveva aperto un po’ gli occhi e sembrava sorridere.

Ora non si muove più, non mugola più. Continua ad accarezzarlo piano fino a che arriva un dottore e glielo prende dalle braccia, lo carica su un’ autoambulanza. Rimane immobile, lo vede partire su un’altra astronave. La polizia gli sta facendo delle domande ma è attonito, coperto di immondizia. Domande di routine perché ritrovare cuccioli d’uomo buttati via, è diventata quasi routine.

Quei cassonetti ora gli sembrano immensi, quasi il lerciume fosse ovunque, non solo addosso a lui.

< Si è tagliato, dovrebbe andare a farsi controllare in ospedale, con tutti i topi che ci sono, ha messo le mani là dentro, senza neanche i guanti.>


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