Una solo è Doriforo

Ho gli occhi chiusi per far agire meglio il collirio. Sono elettrica. Sigarette, vietate. Non per la salute ma per non rischiare di bruciare qualche abito. A tre a tre, sedute davanti agli specchi per il trucco e parrucco, circondate da hair stylist e make-up artist, spazzole, phon, pennelli che sbuffano polveri leggerissime come soffi di fumo.

Ho proprio voglia di una sigaretta.

La pelle del mio viso è tirata come un palloncino pronto ad esplodere. Mi hanno messo dei cerottini per allungare la forma degli occhi. Sembro una giapponese incazzata ma, loro, i giapponesi, non lo danno mai a vedere. Nella prova vestiti hanno fatto fatica a chiudermi la cerniera.

Mi sento gonfia.

Sono tre giorni che mangio solo un pezzetto di formaggio e bevo anche poco. Questa mattina ho pesato le mie feci, come sempre: 65 gr. È il diuretico di ieri sera che non ha fatto molto effetto.

Mi sento gonfia.

“Via, via! Sbrigati!”

E mi metto in fila, coperta da una vestaglietta col logo. Siamo tutte con un vestaglietta col logo. Tutte alte uguali, ma io, sono la più gonfia. Sento le sarte davanti alla fila, stanno urlando, chiedono delle spille da balia. Come in una catena di montaggio, chi è pronta, scivola di lato e passa il controllo finale.

Lu, è là. Lo stilista, posseduto da un’energia che opprime tutto il backstage.

Ogni volta è così.

Ogni volta prendo dei calmanti, ma non troppi, se no rischio di non reggermi in piedi. E ho i piedi gelati. Tocca già a me? Qualcuno mi toglie la vestaglia, due mani mi girano e sollevano le mie braccia.

“Trucco!”

Passano della cipria, forse del talco, sotto le mie ascelle.

Ogni volta è così.

Mi infilano un cappuccio macchiato che odora di creme, serve a proteggere la pettinatura e il trucco. L’abito mi cola addosso, si uniforma al mio corpo come una seconda pelle. E ancora mani. Che stringono il tessuto, che lo lisciano, e la cerniera sale. Per un attimo sento la pelle bruciare, come se fosse stata pizzicata o graffiata da un uncino. Via il cappuccio. Mi girano intorno come api impazzite, uno mi ha colpito il ginocchio destro. È arrabbiato, si vede. Il ginocchio mi fa male ma devono ritoccarmi il trucco.

Di colpo, le voci si abbassano, i visi si allargano in sorrisi.

Lei, sta passando.

Gli occhi anelano un suo sguardo, un saluto anche solo accennato. Lei è famosa, famosissima. Lei, non è più una ragazzina, ma è una dea. Ha il suo spazio, quasi un camerino, i suoi professionisti, la sua acqua e i suoi fiori. Li chiamano carisma, quella lunga falcata che non deve chiedere permesso e quel profilo in cui si stenta a riconoscere un naso, ritoccato così tante volte da sembrare trasparente. Non sarò mai come lei.

Tocca a noi. Come ballerine di fila, una vicina all’altra, perfette e anonime.

Un braccio che si alza, un “VAI”, e sono dentro alla luce, affogo nella musica, procedo con i miei piedi freddi, in scarpe troppo grandi, senza vedere veramente nessuno. Lo sguardo fisso davanti a me, sulla schiena di chi mi precede. Il sangue pulsa piano, la testa è leggera, tanti flash e tanti passi.

Ogni volta è così.

Passa. Tutto passa.

Non so perché eri sparito, dicono che succede. Ma perché a me? Avevi smesso di rispondermi e mi hai fatto preoccupare. Bastava scriverlo, dirlo.

Ora mi scrivi di nuovo, come se nulla fosse, dopo quasi più di sei mesi.

Mi alzo dal divano, infagottata nella tuta di pile. Non ho mangiato e lo stomaco gorgoglia.

“Beh? Rispondigli, no? Qual è il problema?”

E mia madre incomincia a dispensare consigli non richiesti. Quanto vorrei avere le sue certezze, ma non ne sono in grado. Mi mangio le unghie, mi arrabbio e le urlo spesso contro. Lei mi dice che la mia rabbia è solo debolezza travestita da forza. La fisso e, mentre sta vestendosi per uscire, longilinea e splendida come sempre, me la immagino seduta, tranquilla, trangugiare uno di quei panini che esplodono maionese e foglie di rucola da tutti i lati. Si riempie la bocca di cibo e certezze, come un blocco unico, cementato al terreno, uno Stonehenge che mastica chiunque si avvicini.

Lei sa cosa fare. Lo ha sempre saputo. Io, no. Lei è un facocero che si nutre delle debolezze altrui. Delle mie. E non ingrassa.

Mi allontano dalla sua stanza, il più lontano possibile. Sento il freddo del marmo attraverso i calzettoni rosa, finché arrivo sul tappeto che mi frena. La finestra, vado alla finestra.

Rileggo il messaggio che ho ricevuto: “Ciao, come stai? Passeggiata in centro?”

Mi ha sventrato e non se ne rende conto.

Nel frattempo, sono tornata nell’ingresso e non me ne sono accorta. Mi guardo nello specchio sul cassettone e vorrei vederlo vuoto, invece, sono là, dentro quella figura corpulenta, in quella salsiccia che mi ricopre.

Mi ero affidata a te, mi riflettevo nel tuo volto e ho cambiato forma per compiacerti, ho dimenticato pezzi di me pensando che fossero superflui. Ho nascosto i miei sogni, desideri, dolori, per non sbagliare, ora mi sento un’ombra che non appartiene a nessuno. Quando sei sparito mi sono persa e ho cominciato a mangiare, tanto, cercavo un motivo, qualcosa a cui dare la colpa, qualcosa che non fossi io.

Il tuo negarsi è stato come un sasso caduto nel cuore.

Stavo cominciando a dimenticarti, stavo tentando veramente, mi sentivo un po’ meglio, anche il mio stomaco stava meglio. Ignoravo anche le continue domande di mia madre sul perché non ci vedevamo più, schivavo i suoi sguardi compassionevoli ma accusatori, quel suo indugiare sui miei fianchi. Insomma, ora cosa faccio?

Le mie dita stanno rispondendo. Ma chi vi ha dato il permesso?

“Ciao. Va bene. A che ora?”

E aspetto. Ancora.

Intanto sceglierò cosa mettermi. In camera mia, sul letto, c’è un vestito, largo e lungo. Non lo metto da tanto, mi fa sentire una balena. Di fianco, un biglietto, di mia madre.

“Metti questo. E non mangiare gelati.”

Un crampo lungo e forte, un conato di vomito che mi fa correre in bagno. Lo scroscio dell’acqua fa da sottofondo al mio respiro che soffoca i singhiozzi.

Il tempo passa.

Il telefono è rimasto sul letto. Non arrivano risposte.

Vado in cucina e apro il frigo. Afferro qualunque cosa davanti a me e la trascino in bocca, coscia di pollo, cetriolini, ah! amo i cetriolini, del formaggio e una fetta di crostata.

Non arrivano risposte.

Apro il congelatore e prendo un barattolo di gelato. Ce ne sono cinque.

Non arrivano risposte.

Mi sono macchiata la tuta col gelato, sembra un disegno, ci vedo un occhio che mi fissa.

Passa. Tutto passa.

Boccascena e il mantello d’Arlecchino

Persa. Non provava altra sensazione. Pensandoci meglio, si sentiva anche oppressa, claustrofobica, come rinchiusa in un bunker grigio, con le fredde luci dei neon. Era davanti allo specchio, chiudendo un occhio alla volta, fissando l’iride. Le sembrava che una fosse più chiara dell’altra. Immaginazione. Forse un po’ di strabismo di Venere. Sensuale. Si perse tra le pagliuzze ocra che, diventando immense, la ingoiavano e la risputavano inevitabilmente sul freddo vetro. Persa.

Era invidia. La sua, aveva qualche screziatura gialla. Persa.

Quanto avrebbe voluto provare invidia buona, semplice ammirazione, ma non esiste l’invidia buona. E rise amaramente, pensando a chi si barrica dietro alle parole e cerca uno scudo per proteggersi dalla verità. Bruciava, eccome, avere perso. Una bella colata di acido proprio nello stomaco, lenta e crudele.

L’invidia è la carie delle ossa, ne puoi sentire l’odore, immaginare il colore imputridito, sapendo che è lì, insolente. É uno dei sette vizi capitali, mica fuffa, una dichiarazione di inferiorità, comprovata dal fallimento personale. Ed io, ho fallito.

Persa.

Che altro avrebbe potuto fare? Raccomandazioni, cena e annessi con uno dei giurati, si era perfino fatta la mastoplastica riduttiva e ritocchini vari su indicazioni del suo agente. Ma non era bastato.

Che altro volete? Ditemelo? Il talento c’è, lo so che c’è, quindi? Cosa mi manca? Perché non io?

Un conato di vomito la piegò sulla tazza del WC, spruzzando aceto e bile ovunque. La pelle si stava squamando, bastava toccarla e perdeva piccole scaglie luminescenti.

Più magra di così? Lo posso fare. Certo che posso.

Si asciugò la bocca e andò in cucina scrollando i video sul cellulare. Prese un bicchiere e lo riempì d’aceto, bevendolo tutto d’un fiato. Quasi non sentiva le budella contorcersi mentre osservava le altre, quelle che erano state prese.

Lacrime acide, collose e minuscole, le scesero sul viso e lì, rimasero.

Assenza

Un sospiro. Ancora. E gli occhi trattengono le lacrime come una diga al limite della capienza. Lei è seduta, vicino a suo marito, ed entrambi, stanno fissando la sedia vuota, davanti a loro. Il piatto mezzo pieno di pasta in bianco, col parmigiano, il piatto preferito da suo figlio. Quello era il piatto che le aveva sempre chiesto, quello era la via per la salvezza. Ma non era stato così. Neanche oggi. Il mostro che si era impossessato di Davide lo stava portando via, e lei sentiva i conati di vomito, dal bagno, e lo sciacquone, che dichiarava: é fatta.

Assenza.

Questa parola le si era insinuata sotto-pelle, durante le sedute con lo psicologo che aveva preso in cura Davide. Ma non erano le ragazze ad essere vittime di anoressia?

An-orexis, assenza di appetito(orexis), non è solo il rifiuto di nutrirsi, è assenza di desiderio, del desiderio di vivere.

Perché Davide?

Eri così intelligente, non capisco come mai non riuscivi ad ottenere voti migliori, per non parlare delle uscite con i tuoi amici. Quante volte ti abbiamo rimproverato per aver fatto cose assurde, come guidare bendato o lanciarti, da un palazzo di tre piani, all’altro. E quella volta che tuo padre ti ha visto uscire truccato come un trans, e gli avevi risposto che era un gioco? Gioco, sti c…i, io ero rimasta inorridita. Mio figlio, MIO FIGLIO, che va a passare una serata con chissà chi, conciato in quel modo. Ti sei drogato? Sono sicura che ti sei anche drogato.

Non sai più ragionare. Lo hai mai fatto? Bisogna pensare prima di agire!

Non vedi quanto ci fai preoccupare? Pensavo fossi più forte. Hai smesso di lottare, se mai hai cominciato. Io sono stanca, tuo padre è stanco.

Davide non ha nessun sentimento di colpa. Lui nega, negava sempre. Lui, allo specchio, si vede enorme e grottesco, immeritevole di esistere. Nella sua camera, perfettamente in ordine, i libri impilati per gamma di colore e dimensione, il letto immacolato, col copriletto rigidamente infilato ai quattro lati, la scrivania sgombra, con solo quattro penne allineate davanti al computer. Non c’era posto per ninnoli o fogli, per scarpe abbandonate a terra, magliette lasciate sulla sedia. Non c’era posto.

Prese dall’armadio, lucido e perfettamente chiuso, il suo borsone per la palestra ed uscì.