Il telefono all’orecchio e una mano in tasca. Cammina piano, in salita, su grandi gradini sconnessi e scivolosi. Il sole filtra tra gli alberi, tra le foglie del sottobosco, immobili per il freddo che le ha congelate e il profumo di terra addormentata.
“Ma come? Sono sempre io che chiamo.”
“C’è qualcosa che non va, lo so, quello che non so è come fermare tutto questo. D’altra parte, è una sorta di abitudine, anzi, una schiavitù, no, una stupida abitudine. Mi ricordo che è iniziata quando ero piccola, nella nuova città in cui non conoscevo nessuno. Era ovvio che dovessi fare il primo passo, che dovessi essere io a cercare di conoscere, di fare amicizia.“
Due turisti la sorpassano veloci. Fanno i gradini a due a due.
“Chissà perché, che fretta hanno di arrivare in cima senza godersi la passeggiata?“
Quante volte si punta a qualcosa, si corre con la voglia di arrivare e ci si dimentica del resto?
“Ecco, vi state perdendo quello scoiattolo che è scivolato dal tronco, a scatti, ed è sparito velocissimo. E le macchie di muschio, lì ai bordi del sentiero, che crescono in segreti angoli nascosti, quasi fossero un piccolo presepe naturale. E quest’aria, quest’aria gelida che fa lacrimare gli occhi, quieta. Che meraviglioso silenzio, quasi surreale.“
Lei si ferma e guarda intorno. Non è sola. In lontananza, le auto sembrano minuscole, come giocattoli, che corrono su un nastro grigio. Anche loro corrono, ma verso dove? Vorrebbe rimanere ma non può, la stanno aspettando.
“Dev’essere la strada che sale dalla collina,” pensa. “Non posso fare tardi, sono stata io a chiamarle. Come sempre, sono io a chiamare.”
Un passo incerto, un piede che scivola sulle foglie bagnate, la gamba che si piega sull’ultimo gradino. Un movimento goffo, un tentativo di bilanciarsi che finisce con le mani a terra. Gli occhiali volano via, la borsa scivola giù, rimbalzando, come una palla impazzita, finché non si ferma, proprio al limite degli arbusti che bordano il sentiero. Giusto un attimo prima di sparire nel fitto del boschetto, le sembra di vedere che qualcuno la raccoglie. Lei recupera gli occhiali e li inforca, guarda meglio e vede un anziano che sta salendo. Man mano che si avvicina, nota i capelli bianchi, arruffati, e gli occhi. Due spilli luminosi, incastrati tra le rughe di un viso che sembra uscito da un libro di favole.
“Ecco” le dice, porgendole la borsa. “Sta bene?”
Non sa come rispondere, ma sorride timidamente e prende la borsa, che ora è macchiata di terra. “Grazie,” mormora. Lui la guarda intensamente, come se stesse cercando qualcosa.
“Forse ho qualcosa in viso.” pensa.
Con dolcezza, le toglie una foglia dai capelli e le sussurra: “Un passo alla volta, senza rincorrere nessuno, e si arriva dove si vuole.”
Un inaspettato gruppo di ragazzini, arriva proprio in quel momento, saltando e ridendo, travolgendoli senza toccarli. É un attimo, una folata di ormoni selvatici, folletti dispettosi e divertiti. Lei si scosta il più possibile, aspetta e teme per l’anziano. Ma quando torna la calma, l’anziano non c’é più.
Ha lasciato dietro di sé solo il suo consiglio.
“Ma guarda che storia. La devo raccontare. Anzi, no. Fammi camminare con calma, e pensare. Arriverò.“


