Passa. Tutto passa.

Non so perché eri sparito, dicono che succede. Ma perché a me? Avevi smesso di rispondermi e mi hai fatto preoccupare. Bastava scriverlo, dirlo.

Ora mi scrivi di nuovo, come se nulla fosse, dopo quasi più di sei mesi.

Mi alzo dal divano, infagottata nella tuta di pile. Non ho mangiato e lo stomaco gorgoglia.

“Beh? Rispondigli, no? Qual è il problema?”

E mia madre incomincia a dispensare consigli non richiesti. Quanto vorrei avere le sue certezze, ma non ne sono in grado. Mi mangio le unghie, mi arrabbio e le urlo spesso contro. Lei mi dice che la mia rabbia è solo debolezza travestita da forza. La fisso e, mentre sta vestendosi per uscire, longilinea e splendida come sempre, me la immagino seduta, tranquilla, trangugiare uno di quei panini che esplodono maionese e foglie di rucola da tutti i lati. Si riempie la bocca di cibo e certezze, come un blocco unico, cementato al terreno, uno Stonehenge che mastica chiunque si avvicini.

Lei sa cosa fare. Lo ha sempre saputo. Io, no. Lei è un facocero che si nutre delle debolezze altrui. Delle mie. E non ingrassa.

Mi allontano dalla sua stanza, il più lontano possibile. Sento il freddo del marmo attraverso i calzettoni rosa, finché arrivo sul tappeto che mi frena. La finestra, vado alla finestra.

Rileggo il messaggio che ho ricevuto: “Ciao, come stai? Passeggiata in centro?”

Mi ha sventrato e non se ne rende conto.

Nel frattempo, sono tornata nell’ingresso e non me ne sono accorta. Mi guardo nello specchio sul cassettone e vorrei vederlo vuoto, invece, sono là, dentro quella figura corpulenta, in quella salsiccia che mi ricopre.

Mi ero affidata a te, mi riflettevo nel tuo volto e ho cambiato forma per compiacerti, ho dimenticato pezzi di me pensando che fossero superflui. Ho nascosto i miei sogni, desideri, dolori, per non sbagliare, ora mi sento un’ombra che non appartiene a nessuno. Quando sei sparito mi sono persa e ho cominciato a mangiare, tanto, cercavo un motivo, qualcosa a cui dare la colpa, qualcosa che non fossi io.

Il tuo negarsi è stato come un sasso caduto nel cuore.

Stavo cominciando a dimenticarti, stavo tentando veramente, mi sentivo un po’ meglio, anche il mio stomaco stava meglio. Ignoravo anche le continue domande di mia madre sul perché non ci vedevamo più, schivavo i suoi sguardi compassionevoli ma accusatori, quel suo indugiare sui miei fianchi. Insomma, ora cosa faccio?

Le mie dita stanno rispondendo. Ma chi vi ha dato il permesso?

“Ciao. Va bene. A che ora?”

E aspetto. Ancora.

Intanto sceglierò cosa mettermi. In camera mia, sul letto, c’è un vestito, largo e lungo. Non lo metto da tanto, mi fa sentire una balena. Di fianco, un biglietto, di mia madre.

“Metti questo. E non mangiare gelati.”

Un crampo lungo e forte, un conato di vomito che mi fa correre in bagno. Lo scroscio dell’acqua fa da sottofondo al mio respiro che soffoca i singhiozzi.

Il tempo passa.

Il telefono è rimasto sul letto. Non arrivano risposte.

Vado in cucina e apro il frigo. Afferro qualunque cosa davanti a me e la trascino in bocca, coscia di pollo, cetriolini, ah! amo i cetriolini, del formaggio e una fetta di crostata.

Non arrivano risposte.

Apro il congelatore e prendo un barattolo di gelato. Ce ne sono cinque.

Non arrivano risposte.

Mi sono macchiata la tuta col gelato, sembra un disegno, ci vedo un occhio che mi fissa.

Passa. Tutto passa.