La spirale del tuono

Il temporale era passato. Oltre i vetri, osservava il tramonto, un fiume purpureo che si allungava lentamente avvolgendo la terra in un abbraccio morbido e viscoso. La luce, mescolandosi con l’aria, sembrava un fluido denso che non riusciva a scegliere se penetrare nel cuore della terra o dissolversi nella vastità dell’infinito. Il cielo, ora era un calderone di colori sfumati e impossibili da definire, pareva fondersi in un unico respiro che non apparteneva né al giorno né alla notte.

Un tuono lontano. Cancro. La parola riecheggiò nella sua mente. Un rumore sordo, un’onda che inghiotte la sabbia. Era malata. Solo ieri, la sua vita sembrava scorrere tranquilla, anonima, una pagina vuota che non aspettava altro che essere riempita. Da oggi, invece, avrebbe dovuto affrontare una realtà sconosciuta che pulsava come una ferita aperta.

Osservò le gocce di pioggia sui vetri, piccole capsule di tempo cristallizzato. Ogni goccia immobile racchiudeva in sé un istante che non sarebbe mai tornato, un attimo di vita rubato riflettendo il mondo fuori come attraverso uno specchio che si incrina e si ricompone in continuazione.

Rimise play sul film che aveva scelto, così lontano dalla sua storia di vita. Le scene del film tentavano di imitare la realtà, ma non ci riuscivano. La storia d’amore era un inganno che non faceva altro che acutizzare la sua solitudine. Le scene di disperazione erano troppo perfette, costruite con tale artificio che ogni singolo gesto, ogni sguardo, la irritava. La sofferenza in quel film non sembrava vera, era frutto di una scenografia ben studiata.

Quale film sarebbe stato la sua vita? Forse un film noioso, banale, un film troppo lungo, con un nastro che ora si era inceppato. O un film di cassetta, uno di quelli che ormai non hanno più né colore né vita. Le tornarono alla mente certi vecchi film che avevano perso la loro freschezza ed erano diventati un ricordo sbiadito, troppo familiare, troppo visto.

Eppure, oggi c’era qualcosa di diverso. Era arrivato senza preavviso, come un parente invadente che entra in casa senza bussare, che si siede alla tua tavola e pretende di restare. Accettare. Doveva accettare la situazione e affrontarla, ma come si può accettare qualcosa che non si capisce? Come può una controfigura ergersi a protagonista di una storia che non conosce? La paura di dover affrontare l’ignoto, l’imprevedibile, la faceva sentire piccola, fragile, e il corpo non pareva più in grado di sostenere l’anima che vi abitava.

Si sedette di nuovo sul divano, intorpidita dal freddo che si stava infiltrando sotto pelle. Il suono dei messaggi che arrivavano sul suo telefono era lontano. “Coraggio”, “ti sono vicina”, “abbracci”, parole che fluttuavano come piccole bolle di sapone, destinate a dissolversi prima che potessero raggiungerle il cuore.

Il mondo fuori era un’illusione, una visione speculare di ciò che avrebbe dovuto essere, una spirale che si allontanava da lei senza mai sfiorarla davvero.

Ritornò alla finestra a guardare il peso di un cielo che stava per crollare.


BOCCIOLI DI ROSE

L’accendino non funzionava. Continuava a fare cilecca. Poi, finalmente, la fiamma fece il suo lavoro e, dopo aver aspirato, salì una nuvola bianca. Era in cortile, l’ora d’aria.

Si avvicinò qualcuno a chiederle di accendere e non rispose. Guardava la punta delle scarpe, scarponcini blu, con i lacci, coperti da un po’ di polvere. Poi alzò lo sguardo e la persona se ne era andata.

Tutti camminavano, in due o tre, e parlavano. Quando qualcuno alzava la voce, arrivava subito un agente del penitenziario. Lei invece se ne stava seduta ad osservare, a volte guardava il cielo, poi seguiva il perimetro delle mura.

Le ricordava un muretto della sua casa, ma là c’era una rosa e dell’edera, e il colore del cielo era più bello.

Sarà per lo smog, pensò. Chissà se qualcuno ha concimato le rose, dovrò ricordarmi di chiederlo.

Aspettava l’avvocato, c’erano risvolti, così le aveva detto. Il tempo rallenta quando aspetti, la sabbia nella clessidra sembra bagnata.

Succede.

Qualcuno le si siede vicino. Le parla. Le mostra una foto con due bambine. Perché? Chi sei? Perché hai la foto delle mie figlie? Le strappa di mano la foto e comincia ad urlare.

PERCHÉ HAI LE FOTO DELLE MIE FIGLIE? CHI SEI?

Gli agenti arrivano di corsa, braccia che la bloccano mentre scalcia e si dimena, come un animale che intuisce la sua fine. Sembra di gomma e la riportano dentro in quattro, fino al reparto medico, dove una iniezione pone fine all’esagitazione.

E la mente appare più chiara, i ricordi affiorano. Tutto quel sangue, nei lettini, sui cuscini.

NO.

Il rifiuto, la corsa verso i lettini, gli abbracci e le urla chiamando le sue bambine.

Il sangue addosso e LUI, dietro di lei. LUI che non era più lui. Lui che le aveva fatto battere il cuore in gola, lui che aveva amato con ogni centimetro della sua pelle, lui che era stato suo. Le sue bambine, che erano state, LORO.

É confusa, ha paura. Cosa succede? Perché sono qui? Devo andare a casa.

E una flebo riporta la calma.

Ma vede. Chiaramente.

Ora vede e ricorda il dolore di un lama che le colpisce il braccio, l’urlo che rimane in gola, la fuga tra calci e orrore, scivolando sul pavimento, aggrappandosi ai mobili. Sente il fiato di LUI ma non si gira, sta correndo verso il balcone, esce e urla. Un’altra coltellata al fianco, la sua mano che cerca qualcosa, afferra un attrezzo, non sa cosa.

Poi un colpo, secco.

Si ricorda del suono, come quello delle noci spaccate a mano, mentre LUI crolla a terra.

E silenzio. Orribile silenzio, terrificante silenzio, assordante silenzio.

Devo dire a qualcuno di dare il concime alle rose.


foto di Manmohan Pandey da Unsplash

Cuore livido

Non è necessario essere perfetti per tutti. Basta essere speciali per qualcuno.

Si era alzata, accaldata, dopo una notte scandita da docce fredde e lotte col ventilatore posizionato verso la parete, alla ricerca di un refolo seppur meccanico. Proprio nel momento più bello, quando l’aria cominciava ad entrare attraverso la zanzariera, quasi fresca, l’aria delle quattro del mattino, si era svegliata. Non c’era stato verso di riaddormentarsi, mindfulness e meditazione non avevano sortito alcun effetto, la mente tornava a giocare, come un bambino iperattivo, senza sosta.

Smetti di pensare, smetti di pensare, smetti di pensare.

Smetti di pensare che le persone o qualcuno in particolare debba capirti. Solo tu lo sai quanto hai pianto, quanto hai dovuto faticare, quanto hai lottato pensando di non farcela. E ancora non è detto. Solo tu conosci i tuoi pensieri delle quattro di mattina. Vale così per tutti, perché dovresti essere diversa?

La schiena le faceva male, le cicale stavano dormendo, almeno loro. Il silenzio, l’aria ferma, il cielo che ancora non cambiava colore, tutta quella calma, calma apparente, come prima di una tempesta, la stava turbando. Camminava tra le stanze buie, calde, girava intorno al tavolo e ritornava in salone. Si era tolta le ciabatte per sentire il fresco del pavimento e dopo un po’ si sedette ad osservare la pianta dei piedi. Notò un po’ di polvere, poca ma fastidiosa, e andò in bagno. Doccia fresca, la terza o quarta della nottata, prima in piedi poi, lentamente, accovacciata a terra, lasciandosi colpire dalle gocce come in un temporale. Gocce d’acqua che si mischiavano alle lacrime calde.

Ma quando arriva il giorno?

Si asciugò tamponando un po’ la pelle, per prolungare la sensazione di fresco, poi, andò allo specchio.

Eccoti, oggi è il primo giorno. Hai deciso di fare il primo passo per cambiare e ti stai allontanando.

Cominciava ad arrivare la luce dall’esterno, un’alba lattiginosa che lentamente fece apparire il suo viso, le sue occhiaia, i punti di sutura sul sopracciglio e i lividi sulle braccia.

Basta essere speciali per qualcuno.

Ce n’era voluta di forza per capire di non essere speciale, per lui. Il cuore batteva forte, un misto di paura e terrore, insicurezza e solitudine. Fuori il mondo stava aprendo gli occhi, sicuramente anche lui si sarebbe svegliato tra poco.

Aprì l’armadietto, prese i vestiti e il borsone che aveva preparato il giorno prima. Era tardi, era già tardi? Si vestì in fretta e in silenzio, come un ladro, prese le scarpe e in punta di piedi raggiunse la porta di casa.

Nell’ascensore, guardandosi allo specchio, le sembrò di ricordarsi com’era stata, dietro quei segni, quelle vili botte sulla pancia e sulla schiena, quegli occhi pesti e spenti. Anche il suo cuore era livido.

Non sapeva dove sarebbe andata, se ne era andata.


Foto di Olivier Collet da Unsplah