Salirono verso la Fortezza circondati da turisti a dorso di elefante, accaldati e dondolanti.
Appena scesa dal taxi le sembrò che la temperatura fosse più accettabile, forse per la frescura del lago in fondo alla valle. Camminò parecchio, salì e scese scale, si perse tra appartamenti con i soffitti a specchio, statue, decorazioni in avorio e profumo di sandalo. Poi, sbucò proprio davanti a un piccolo tempio in marmo bianco, circondato da pepli arancione come coni rovesciati, sulla cui sommità spuntavano teste rasate. Sembravano in preghiera e si diresse verso un muretto per sedersi e non disturbare, tra altri visitatori intenti a fare foto.
Un monaco le si avvicinò e le chiese se era lì per il Siddhānta Veda. Non sapeva di cosa si trattasse, non chiese, rispose solo sì. Venne così accompagnata in un angolo alle spalle del tempio, e invitata ad accomodarsi sotto ad una tenda rossa dove, seduto su delle stuoie, tra incensi, Aksamālā e Japamālā, era seduto un vecchio assorto.
La tenda si chiuse, il vecchio alzò lo sguardo, brillante, intenso, sereno. Non parlava inglese ma le fece capire che le avrebbe letto l’iride. Si avvicinò fissandola negli occhi stanchi, e cominciò a scrivere su un taccuino. Segnava date, disegnava righe e, di fianco ad alcuni periodi, scriveva qualcosa.
Non riusciva a vedere, era spossata, assetata, ma rimaneva immobile in quella condizione surreale, col sottofondo dei monaci in preghiera, l’aroma forte dell’incenso e quel vecchio che ogni tanto alzava il viso fissandola, scrutando nel profondo del suo sguardo. Talvolta sorrideva, gli sorridevano anche gli occhi, e spesso si fermava ad osservarla a lungo, spostando il viso leggermente da un lato all’altro. Parlava in indi, con calma, come se lei fosse stata in grado di capire. Poi, strappò il foglietto, lo piegò e glielo consegnò a mani giunte.
Lei raccolse quel pezzo di carta dalle sue mani, lo guardò, sperando di poter chiedere qualcosa, ma la tenda si aprì, lasciando entrare la luce ancora forte del pomeriggio. Guardò il vecchio, quegli occhi neri incastonati tra rughe profonde, e solo allora si rese conto della magrezza impressionante, delle braccia scheletriche, dei piedi lunghi e affusolati, attorcigliati intorno alle cosce. Non sapendo cosa fare gli sorrise, salutò con le mani alla fronte e, a fatica, uscì dalla tenda.
C’era un contenitore con dell’acqua all’entrata del tempio, e ci affondò le mani, passando un po’ d’acqua sul viso, poi, si tolse le scarpe ed entrò. Nuovamente seduta, in un angolo, mentre i devoti stavano portando offerte, aprì il foglietto e scrutò le date scritte, partendo da quelle appartenenti al passato. Erano date precise, anni che ricordava molto bene e in cui erano accaduti eventi che avevano cambiato in qualche modo il corso della sua esistenza. C’erano dei simboli, delle stelle, delle linee, alcune date erano collegate ad altre nel futuro, a ciò che doveva ancora accadere.
Affascinante e criptico allo stesso tempo. Una mano le sfiorò la spalla, era il giovane monaco che l’aveva accompagnata. Pensò di dover lasciare un’offerta, che stupida, non ci aveva pensato. Invece no, il monaco le consegnò un Japamālā, dono del vecchio, per protezione e preghiera. Corse fuori per ringraziare ma era sparito, non c’era più neanche la tenda.
Le restavano solo quel foglietto ingiallito, quel rosario e il canto dei mantra, più di quanto avesse sperato.
foto di Priyash Vasava da unsplash

