La giusta dose

Ho la sindrome del cuore infranto. É una patologia, non lo sapevo. Sapevo però che il mio cuore era diventato un pizzo macramè, in cinque anni, da quando sono iniziate le gocce corrosive, gli spasmi della disperazione. Ho perso l’equilibrio. É solo dolore. Lo proviamo tutti. Lo proviamo tutti? Un giorno alla volta, un momento appresso all’altro, riempiendoli di cose da fare, cercando di colmare ogni anfratto in quell’immenso spazio che sembra dilatarsi. Ho cercato risposte che non esistono, ho cercato abbracci che non sono arrivati, ho cercato me stessa in questo vuoto che non era assenza ma eccesso di presenza. La tua.

Mi avvinghio alla tue cose, a una nostra foto, proiettando il ricordo della tua energia, aspetto un riverbero, una connessione con lo tsukumogami. E, mentre chiudo gli occhi, gli spiriti che abitano serenamente in quel rettangolo, che hanno vissuto 35 anni in questo oggetto, assorbendo la mia e la tua anima, sanno tutto. E parlo con loro cercando uno stato di coscienza nuova, una proiezione dei ricordi che abbiamo lasciato con le nostre impronte, con i nostri sguardi, un guizzo divino.

Una trasmutazione, questo è successo. L’assenza del gioco, del desiderio, l’inquietudine che nessuno vede ma che corrode dentro. Non ho cessato di vivere o, forse, sarebbe più corretto dire che una parte di me è restata in quel territorio sconosciuto, vicino a te, mentre l’altra ha smesso di implorare amore. L’anima ha iniziato a parlare non appena il rumore del mondo si è fatto insopportabile e così, mi alzo, lavoro, scrivo, parlo, sorrido, piango, in un disagio brutale che mi rende invisibile.

Questo silenzioso rodimento sta scavando. Ora, devo prendere la giusta dose che fa la differenza tra droga e medicina, mentendo a me stessa mentre mi guardo allo specchio, fisso nelle pupille dilatate e morbide, acquose, piccole onde che spesso debordano.

E sorridono i miei occhi, per te, che hai sempre amato il mio sorriso.

M.

Invisibile

Camminava, frantumando con le scarpe gli aghi di pino secchi e ammucchiati, come mikado sottili, fiancheggiando il muro corroso del cimitero. Arrivava sulla sua spalla sinistra l’umidità fredda, quasi che le anime volessero avvertire della loro presenza, dietro quel muro antico, come se lo stessero accompagnando. Ma la mente non smetteva di pensare, la mandibola era serrata, le mani sudate. Era nervoso, molto nervoso.

Mi vuoi lasciare? Lo so che vuoi lasciarmi.

Un pensiero e subito dopo un altro e un altro ancora. L’immagine della loro casa, lei che cucinava, lei che, come sempre, aveva sbagliato. Il sugo era uno schifo, acquoso e insipido, la pasta era uno schifo, lei era uno schifo. Ma era la sua lei. Aveva quello sguardo, dolce e remissivo.

Come si fa a perdere tutto questo? Non puoi neanche pensarlo. Sei uno schifo. Ti amo. Ti ho sempre amata.

Passa una macchina veloce e quasi lo tocca con lo specchietto. Si sente offeso. Invisibile. Cammina veloce, deve rientrare, le mani sono nervose.

Uno schiaffo, cosa sarà mai uno schiaffo? Sei tu che mi fai impazzire. Tu che mi guardi senza una ragione e lo vedo, lo vedo che mi giudichi.

Le mani pizzicano, sembra che il sangue si sia fermato nelle nocche. Le persone intorno sono nuvole, lo sono sempre state, a parte quando si esce in compagnia.

Ah, che belle serate! Bevendo, parlando. Si ride e tutti mi ascoltano. E tu finalmente, taci. A chi vuoi che interessi la tua vita? Pentole e pannolini. Ringrazia il cielo che ci sono io, che provvedo a tutto. Ma tu, la devi smettere. La devi smettere di rispondermi. CAPITO! No, non lo capisci, e insisti. E io, che posso fare? Mi fai perdere il controllo. Io che controllo sempre tutto, che sono rispettato. Mi temono sai? C’è che mi teme. C’è.

Il pesante portone si apre lentamente, troppo lentamente. L’ascensore è già al piano terra, nell’androne fresco di casa. Casa.

Sto arrivando.


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