Il cielo bruciava, letteralmente. Era scoppiato un tramonto che accecava e si liquefaceva nel mare, portando lunghe onde morbide, oleose, tranquille, fino a riva. Seduta sulla sabbia, con le braccia che cingevano le gambe, muoveva la testa lentamente da un lato all’altro di quell’enorme quadro che non aveva fine né inizio. Aveva pianto, senza rabbia. Aveva lasciato che il dolore scorresse, ed era finito negli occhi. Non era questo il piano, non avrebbe voluto, ma quell’inaspettato spettacolo aveva detonato la costante contrazione che cercava di controllare.
Aver divorziato, in fondo, non era gran cosa, non era quello che le stringeva l’anima. Il suo cuore si era accomodato, proprio così, accomodato tra le cicatrici, rifiutando di indurirsi, a differenza di altre sue amiche separate. Non sentiva quel gusto amaro, non trovava espressioni acide, quelle che si fissano come una colla, non transitano ma lasciano una scia, come una bava di lumaca infinita.
Erano arrivati insieme, lei e suo marito, alla conclusione. Strana la vita, non c’erano stati scossoni, litigate o discussioni, si era solo spenta la luce, era finita la ricarica, e quello che un tempo era passione e forza, si era banalmente trasformato in qualcosa molto simile all’amicizia. Si può continuare a stare insieme per inerzia? Ah, quanti lo fanno! Quieto vivere, la scusa dei figli, la paura di rimanere soli…
Loro due, invece, così in sintonia da affrontare la decisone comune davanti ad un aperitivo nel solito bar, avevano anche già stabilito “chi prende cosa”, se vendere la casa e alcuni mobili che entrambi non sopportavano più. Avevano anche riso, scoprendo che la maledetta poltrona, regalo della suocera, proprio non piaceva a nessuno dei due! Quante cose si scoprono quando apri del tutto la saracinesca della mente, quando non hai più il freno dell’amore. Eppure, era ancora amore, diverso, trasformato, ma sicuramente amore.
Una metamorfosi.
Non ci sarebbe stato più un NOI. Si era frantumato il nucleo, caldo e rassicurante.
Passò una coppia, seguita da un bambino con un cane. Li guardò come se stesse guardando un film già visto. Il cane le corse incontro, voleva giocare, le girava intorno e saltava. I padroni lo stavano chiamando, scusandosi. Perché?
Fuori dalla finestra si intravedono le chiome degli alberi quasi spogli. Nella stanza del commissariato sono in tre. Hanno fermato solo loro tre.
La mattinata a scuola era terminata e aveva passato l’ultima noiosissima ora con la sensazione di essere seduta sulle braci. Il tatuaggio sul braccio si stava asciugando. Aveva rubato i soldi dal portafogli di sua madre che tanto se la sarebbe vista col nuovo compagno. Al suono della campanella era scattata come un’atleta pronta a correre i cento metri ma, nel corridoio, le era toccato fare la gimkana tra molli studenti che se la prendevano comoda, tanto avevano i genitori che passavano a prenderli o l’autobus che li aspettava. Ed era finalmente fuori da quel palazzo, si stava allontanando da quei ragazzini così diversi, così distanti da lei. Lei, si sentiva grande, lei era già grande. Ma non abbastanza.
Per riuscire a far parte del gruppo giusto, per essere accettata da chi contava davvero, non bastava essere grande, dovevi essere anche forte, molto forte. E lei sapeva di esserlo. Essere vittima non era mai stata un’opzione. Corre, corre per non arrivare in ritardo, mentre l’adrenalina sale. Oggi è un giorno importante, ce la deve fare.
Nel parco, isolate tra gli alberi, l’aspettano dieci ragazze, qualcuna si è seduta, altre stanno fumando. Percorre l’ultimo pezzo camminando veloce, guai a farsi vedere insicura. Lascia orme scivolose sulle foglie bagnate, mentre si avvicina e saluta. Solo gesti simbolici, emblematici, senza parlare.
Mette a terra lo zainetto e aspetta. Cominciano a spintonarla un po’, qualcuna le da un colpo sulla schiena, sulle gambe, poi, iniziano a dare botte, tante. Come se la stessero lapidando, arrivano legnate secche, calci che la fanno piegare. Si raggomitola e cerca di proteggere la testa. Sente che sta per crollare e si abbandona. E si fermano. Si sono fermate. Hanno smesso.
Ce l’ho fatta.
Ora, manca solo l’ultima prova. Non sarà difficile. Ora, è insieme alle altre, che stanno ridendo e l’aiutano ad alzarsi. Manca solo l’ultima prova. Sente dolore ovunque ma non importa.
Decido io.
E la vede passare. Una ragazza più o meno della loro età, non la conosce. L’addita, e il gruppo si scaglia contro quella preda, come una tempesta di sabbia la travolge e la soffoca colpendola senza freni. Anche lei. Anche lei sta sferrando calci a quel pupazzo ormai inanimato.
Ma qualcuno ha visto, qualcuno ha cominciato a gridare, c’è chi sta correndo verso di loro e il gruppo si sparpaglia come un branco di piccioni spaventati da un rumore.
Fuori dalla finestra si intravedono le chiome degli alberi quasi spogli. Nella stanza del commissariato sono in tre. Hanno fermato solo loro tre. Le fa male un ginocchio e chiede del ghiaccio, ma nessuno glielo porta.
Parlami d’amore. Perché non riesci? Perché dici che mi ami ma non sai come fare? Inutile che cambi discorso, no, non voglio parlare del concerto, ascoltami. E ti giri. Ma perché? É così difficile capire? Voglio solo che mi abbracci. Ma te ne vai. Io resto a fissare dei piedi, a sentire tutta questa confusione, a schivare ragazzi con bicchieri di plastica appiccicosi e pieni al colmo di birra. E uno si avvicina. Ma lasciami in pace. Sì, sono arrabbiata. Sì, sono con qualcuno. E insiste. Dove sei? Dove sei andato? Mi offre da bere. Non ne ho voglia ma sono arrabbiata, ho così tanta rabbia da tremare. E bevo. La musica si alza e non sento niente, solo rimbombare il mio cuore nelle vene. Mi sento strana, stanca. Dove sei? Ma vai al diavolo. Bevo. Cantano tutti, tutti forse no, ma quasi. Ci provo anch’io ma mi gira la testa. Qualcuno mi sta sorreggendo. Ombre. Mi sento leggera, mi sto spostando ma non tocco terra. Mi si chiudono gli occhi. Dove sei? Sento delle mani, ma non sono le tue, sento dei baci, ma non sei tu. Non ho forza. Ho gli occhi chiusi e provo un senso di vertigine fortissimo. Dove sei? Dove sono? Sono a terra. Quanto tempo è passato? Chi c’è qui intorno? Ombre. Sono mezza nuda, sporca di terra e birra. Cerco di muovermi. Dove sei? Un colpo alla testa, la mia testa che sta colpendo terra, qualcosa mi tiene per i capelli. Sento dolore, e freddo. Schifo. Odori selvatici e bagnato, grugniti e risate. Flash che mi feriscono gli occhi. Buio.
Mi sto sollevando, mi stacco da terra, ci sono delle persone, delle divise rosse, una luce che fissa le mie pupille e un ago che mi punge, forse il braccio. Ho la schiuma alla bocca che cola sul collo. Mi stanno parlando, chiedono.
Camminando sulla ghiaia, circondata da un’aura afflitta, rarefatta, sto per salutare un mio amico. Non una persona che conoscevo, è un amico. E la percezione della tristezza cambia, lo strappo che sento nella tela della mia vita, nel drappo che ho creato fin dalla nascita tessendo la trama dei miei ricordi, lascia intravedere un taglio simile a una ferita. Filano i nostri pensieri, anche quando siamo convinti che non succeda niente, creano pattern a volte perfetti e che restano come preziosi ricami nel caos dell’ordito unico delle nostre vite. Così, come per tutti, anche il mio arazzo di vita è cosparso di momenti che testimoniano qualcosa di bello: le emozioni, le soddisfazioni, le amicizie. Philia, l’amicizia, un dono della vita che travalica l’amore inteso come eros, la passione, perché è il te stesso dall’altra parte dello specchio.
Quel qualcuno che non potevi non incontrare nella tua vita, affine e disinteressato, così in sintonia da avvertire il tuo malessere e gioire per i tuoi successi. Decisamente una mosca bianca. Niente a che vedere con la persona che ti vomita i suoi sfoghi come in un cestino dei rifiuti, lontano anni luce dalle frasi di convenienza: ”Chiama quando vuoi. Io ci sono”.
Guardandomi intorno, tra le figure immobili e vestite di scuro, annuso il profumo d’incenso e penso a quanto gli piaceva. Lui che diceva di essere epicureo, anche pensando alla morte come a qualcosa che prenderà il nostro posto, un evento ineluttabile, per poi immaginarsi come un’onda che ritorna all’oceano. Non spariremo, ci evolveremo.
Ora vorrei vedere e sentire le onde, vorrei scorgere un guizzo che gli assomiglia. Come una carezza che mi aiuti a continuare a tessere, senza cercare di riparare quello che non si può, incastonando in quel taglio un suo sorriso.
Praticamente scrivo, visto che tutti parlano. Ho cambiato spesso il mio manifesto, senza arrivare mai a dichiarazioni surreali o volutamente d’impatto. Io, che adoro il realismo onirico e quella capacità di avvinghiare il lettore al testo, quel flusso magico che rapisce, che non sfrutta termini ridondanti ma espressioni idiomatiche, utilizzando una narrazione riflessiva, visionaria e simbolica ma diretta. Diretta al cuore.
Scrivo, e quindi, leggo.
Leggo molto, da sempre. Una passione, una stanza mia in cui non può entrare nessuno perché il mio bambino interiore la riempie, ci si accomoda con le sue matite colorate e una musica bella. E capita che io legga più libri contemporaneamente, come in questo momento. A volte li scelgo per capire che tipo di letteratura ci sta definendo, spesso invece seguo solo i miei gusti. Come entrare in pasticceria e, prima, assaggiare anche quel dolcetto che non ti fa venire l’acquolina in bocca ma ti incuriosisce, sicura di aver già adocchiato i tuoi preferiti. Così, ora vago tra il debole Premio Nobel per la Letteratura 2024, Han Kang (La vegetariana), l’ennesimo superbo libro di Cees Nooteboom (Cerchi infiniti), i surreali racconti di Carver (Da dove sto chiamando), il lento Premio Strega 2021 Emanuele Trevi (La casa del mago).
Mi fissano dal divano gli ultimi, adorabili, terminati da poco, Yoshimura Keiko (108 rintocchi) e Emy Yagi (La Venere e io), mentre aspetta paziente (come il dolcetto poco appetitoso di cui sopra), Niccolò Ammaniti (La vita intima).
Sembra che stia facendo promozione… ma, veramente, leggo in contemporanea più scrittori. Mi piace cambiare sensazione di stile e ritmo, mi incuriosisce quando non condivido la percezione comune (per lo più dettata da recensioni di marketing mirato), nella ricerca di qualcosa di succulento che mi faccia sanguinare il cuore.
Consapevole che ognuno predilige un certo tipo di scrittura, userò una citazione che tutti conosciamo, modificata per l’occasione: “Tutti gli scrittori sono uguali, ma alcuni scrittori sono più uguali degli altri”. E mi perdonerà Orwell.
Sto aspettando, distesa su una barella, all’entrata del pronto soccorso, davanti alla porta scorrevole che si apre, si chiude, si apre, si chiude. Tra un’apertura e una chiusura, entrano folate di vento gelido e la coperta che mi hanno messo addosso, fino a coprirmi la faccia, è davvero brutta, sembra pesante ma non scalda. A guardarla bene, ricorda quelle delle carceri, grigia con quelle righe amaranto sbiadite. Mia figlia mi ha accompagnato e sta parlando con l’accettazione. Siamo venute in ambulanza, con codice rosso. Avrebbero dovuto portarmi già dentro l’ospedale, dovrei essere già tra le mani di un dottore ma, ormai so, dopo svariati ricoveri, che devi proprio essere a un passo dall’aldilà, per saltare la parte burocratica iniziale. Comunque non sento più la gamba destra, è quella più esposta all’aria, e mi fanno male le mani. Respiro a fatica e non ho la forza per spostare la coperta dalla faccia. Spero che mia figlia si sbrighi o penseranno che io sia un cadavere, in attesa di essere spostata all’obitorio.
Sento entrare altre barelle, ahia, questo significa che se arriva qualcuno che sta peggio di me, scenderò in graduatoria. Voci confuse, l’aria che solleva un lembo della coperta e mi scopre i piedi. Di bene in meglio. Qualcuno passa e me li copre, spostando senza grazia quella coltre ruvida. Mi sembra sia la dottoressa che è venuta a casa, la voce potente e la risata forte sono le sue. Stanno uscendo, forse a prendere qualcun altro.
Che via vai. Una stazione. E mia figlia è arrivata, mi scopre il viso. “Ma guarda se devono lasciare le persone così! Come stai mamma? Ora ti sposto io, qui non puoi stare, con un inizio di polmonite! E dov’è l’ossigeno? Questi sono matti.” E sento le sue mani, calde, che mi accarezzano il viso, sento il suo cappotto sopra di me, mentre la barella scivola, prima a fatica ma, dopo due spinte energiche, leggera, verso l’interno. Qualcuno sta parlando, stanno sgridando mia figlia. E lei risponde. Non l’ho mai sentita parlare con quel tono di voce. Sembra una leonessa che protegge la cucciolata. Com’ero io. Nessuno poteva fermarmi se minacciavano qualcuno della mia famiglia.
Ora me ne sto qui, inerme, debole. Non provo rabbia, né angoscia. Provo solo un gran freddo. Ho chiuso gli occhi mentre mi posizionano una mascherina, un infermiere sta regolando il flusso d’aria. E i polmoni sembrano aprirsi, respiro di nuovo… respiro di nuovo. “Torno subito mamma.” Mia figlia è ripartita all’attacco, so che non starà ferma ad aspettare. Mi ha messo un cuscino sotto la testa e sto decisamente più comoda.
Riesco a vedere le altre persone al triage, visi contorti nel dolore, visi con gli occhi spaventati, qualcuno si è addormentato, qualcuno se ne sta in piedi di fianco al desk dell’accettazione, un distributore di bevande ronza nell’angolo. Poi vedo arrivare un’infermiera. Ha il viso stanco, le occhiaie, la divisa stropicciata e si dirige verso i colleghi. Uno di loro sta suturando una ferita sulla fronte di un signore che avrà più o meno la mia età. “Vedrà che rimarrà bello! Le sto facendo un lavoretto perfetto!” É gentile, giovane. In effetti, sono in pochi, davvero pochi. L’infermiere più anziano è uscito dall’ufficio e sta dicendo a tutti di pazientare ancora un po’.
La porta scorrevole si apre e, all’improvviso, non riesco a vedere bene, entra un fiume di gente, un vortice di urla e spintoni. Sento che mia figlia sta spostando la barella verso il muro, oltre i sedili, lontano dal tornado di parolacce e violenza che, nel frattempo, sta pestando a calci e pugni, i due infermieri. Urla, offese, pianti e grida. Qualcuno è morto, anzi è morta. É morta una ragazza, e tutta la sua famiglia sta scaricando il dolore e la rabbia su chi ritiene sia il colpevole. Arrivano altri infermieri mentre le persone in attesa fanno fatica a muoversi, spostarsi dall’orrore.
Ed entrano i poliziotti, sono in tre, non bastano. Ma uno tira fuori la pistola. Vedo l’ombra dell’arma proiettata sul soffitto, vedo tante ombre che si contorcono, un teatrino macabro e surreale.
Arrivano anche i carabinieri e altri poliziotti.
Li hanno fermati. Hanno fermato la furia di una famiglia che, dice mia figlia, ha ridotto a pezzi tre infermieri. Li hanno pestati a sangue, hanno anche picchiato l’infermiera, le sta sanguinando il labbro.
“Come sta il ragazzo, quello giovane?” Trovo la forza di domandare a mia figlia.
“Non so mamma. É a terra, immobile.”
Il nostro Servizio sanitario ha qualche lacuna, manca il personale e non tutti sono “adatti,” non tutti sono professionalmente all’altezza di un compito così duro e delicato. Ma, a volte, schermare la propria empatia, aiuta ad arrivare a sera senza il cuore maciullato. É un impiego che richiede molto e che forse non è pagato il giusto. Non voglio generalizzare né in un senso né nell’altro, perché ognuno di noi avrà avuto esperienze più o meno positive. Di certo MAI, in nessun caso, si dovrebbero verificare situazioni come quella che ho descritto e che, purtroppo, a volte sentiamo nella cronaca.
Il mio abbraccio a chi ha scelto la professione medica, che sia infermiere o primario di reparto, augurando loro che non diventi mai solo “un lavoro”. Perché non lo é.
Finito. Ho postato l’ultimo reel. Sono le 2:53. Controllo il numero di follower, sono tantissimi. E ce n’è voluto di tempo, di lavoro, tanto lavoro. Quello che all’inizio sembrava un divertimento, ora è la mia occupazione. Un lavoro.
Dovrei coricarmi, sì, anche se non avverto la stanchezza ma gli occhi sono due spilli e bruciano.
E questo? Un commento cretino, che faccio? Rispondo. Ma no. Lascio perdere.
All’inizio rispondevo a tutti, ma ora so come manipolare gli algoritmi, so come manipolare le persone. Si impara.
OK! Chiudi l’applicazione e vai a coricarti.
Il letto non è più la mia cuccia, il letto è una propaggine del computer, del tablet. Dal telefono sul comodino la luce piano piano si spegne ma la mia mente invece continua a pensare. E il telefono vibra, una volta, poi una seconda. Alla terza lo prendo. Apro l’applicazione. Commenti nuovi. Condivisioni.
Ma come? Il numero dei follower è calato!
Mi siedo e comincio a rispondere. Poi cancello e riscrivo. Uno, due, tre, troppi che scrivono che sono falsa. Fosse stato solo uno non ci avrei fatto caso, ma sono tanti. Qualcuno ha postato un emoji incazzato.
Perché? Cosa sta succedendo?
Il mio ultimo reel non è piaciuto. Quell’emoji rosso mi sta fissando. Lo ignoro.
Ti ignoro. Domani, forse, risponderò.
Mi corico. Chiudo gli occhi e sospiro.
Devo postare alle 8:30, la fascia oraria migliore. Poi alle 13:00. E una storia alle 18:00.
L’algoritmo non perdona. Se perdi i colpi ti penalizza. Espiare – pagare. Se non sto al passo rischio di perdere collaborazioni importanti perché la mia immagine non è più, uniforme, e non produce più lo stesso risultato. Le persone lo avvertono e cominciano a dubitare. Mi risiedo e controllo. Valuto analitiche e statistiche: le interazioni sono in calo.
Perché? La mia performance è in calo, non bastano più gli hashtag mirati e gli audio trend?
Sarà un momento. Devo ignorarlo.
Riprendi il controllo.
Ed è giorno. Mia madre mi chiama per la colazione. Ma sì, mi alzo e mi sciacquo il viso. Mangiare qualcosa mi aiuterà. Seduta al tavolo, con una tazza nella mano e il telefono nell’altra, sento mia madre che si lamenta.
Perché hai sempre quel coso in mano?
Questo coso, mamma, è il mio lavoro.
Lavoro? Lavoro significa fatica! Non giocare, non perdere tempo!
Non capisce. Non può.
Quando arriva un like, è una carezza, un pezzo di puzzle che definisce il mio ego.
Deciso!
Posto un video al naturale! Così come sono, senza filtri. Confesserò che sono stanca, racconterò delle mie insicurezze. Vulnerabile. Un atto di coraggio. Questo ci vuole.
Fatto. Postato.
Riguardo la clip. Non mi piace. Ma stanno arrivando i primi commenti.
“Mi hai toccato il ❤️”
Ma ripartono le critiche.
“ Ah falsa!😎”
“Ma a chi la vuoi dare a bere? Reciti pure male”
“Vergognati 🙈, c’è chi sta male davvero”
“Ma quanto sei grassa?😱”
Come tante punture dolorose, uno sciame di commenti, tossici, crudeli. E non smettono.
Prendo il telefono. Ora rispondo con una storia. Ma i commenti continuano.
Una notifica.
“So chi sei. Smettila”
Un crampo allo stomaco. Rispondo, poi cancello.
Il messaggio è sparito. Account inesistente.
Ed è già notte. La stanza mi sembra enorme. Vado alla finestra, lampioni che illuminano zone di pericolo. C’è qualcuno là fuori.
C’è qualcuno?
Arriva una storia sul telefono. Qualcuno ha taggato il mio nome, davanti a casa mia. Una foto. Sembra casa mia. È casa mia.
Ho freddo. L’algoritmo è affamato. Fuori, un’auto rallenta davanti al mio portone.
Le fronde degli alberi, fuori dalla finestra, erano vigorose e piene di minuscoli germogli verdi e fragili che preannunciavano il Cherry Blossom. Aveva terminato di lavorare e se ne stava immobile davanti al computer spento. I colleghi erano già in movimento, si salutavano e correvano agli ascensori. Lei era una delle più anziane ma non aveva fatto carriera, non come gli altri. Troppi pensieri sempre in testa, tra un compito da svolgere e l’altro, troppa famiglia, troppo.
Si sentiva debole, non vecchia ma, matura, come un bel cedro del Libano dalla scorza spessa. Emanava profumo solo se ci si avvicinava alla buccia e lei, non aveva mai permesso a nessuno di esserle così vicino. Il marito, quello sì, suo malgrado, le si avvicinava spesso, con brutalità, mentre la suocera aveva invaso da subito e per quasi trent’anni, tutto. La casa, quel nido in cui aveva cresciuto due figli, ormai lontani, non aveva mai avuto il suo odore. Ovunque aleggiava la presenza di quell’altra donna che dominava, unica e despota.
Non se ne era accorta subito, non aveva fatto caso alla lenta erosione che l’aveva consumata negli anni, facendo disperdere la sua forza come l’acqua tra i ciottoli. Si era rifugiata nella sua anima, la sola parte che non poteva essere toccata, lasciando che gli altri si cibassero del resto, sbranandola a piccoli pezzi. Quando avvertiva che il dolore del suo spirito era più insopportabile delle botte, si chiudeva nel silenzio, attendendo che terminasse, affaccendandosi nei gesti quotidiani, sempre gli stessi, svolti in fretta, come una presenza invisibile. Per non dare fastidio.
Col tempo, osservando ciò che era rimasto di lei, corrosa, consumata, aveva preso una decisione, senza fretta.
Uscì dal palazzo e s’incamminò tra la folla verso la metropolitana. Salutò con un cenno del capo una collega in fila alla fermata dei taxi, e prosegui scendendo le scale, seguendo le migliaia di persone che correvano in tutte le direzioni, come un formicaio ordinato. Fece il solito tragitto fino alla sua fermata e si mise in fila aspettando, dietro la linea gialla. A sinistra, il buco nero della galleria, davanti a lei, i binari che l’avvisavano, con un sordo rumore lontano, dell’arrivo del suo treno. Si avvinghiò alla borsa mentre sul tabellone iniziava il conto alla rovescia: 3 minuti, due, uno. Si sentiva come un birillo tra i tanti, in attesa, immobile e silenziosa.
La metropolitana arrivò col suo fruscio morbido e lei non si mosse. Fece un passo indietro, poi un altro e un altro ancora. Gli altri stavano salendo sul mezzo e un annuncio delicato avvisava della partenza disperdendosi nel chime che segnalava la chiusura porte. La stazione stava svanendo, perdendo i contorni in una luce nuova. Nessuno la vide, nessuno si accorse della calma del suo sorriso mentre, passo dopo passo, svaniva dietro ad una colonna.
Da quel momento sarebbe stata una *jōhatsu, una persona “evaporata”, una persona che aveva in qualche modo ceduto. Era fuggita.
La sua mano, affondata nella tasca, stringeva un foglietto stropicciato, come un talismano, un lasciapassare, con una frase di Flaubert: “Viaggiare rende modesti, fa capire quanto il posto che occupiamo nel mondo sia piccolo.”
Era solo un soffio, pronta a viaggiare senza biglietto verso un altrove che non avrebbe avuto più obblighi né vincoli.
* Johatsu” (蒸発), che significa “evaporazione” in giapponese, si riferisce alle persone che scompaiono volontariamente per abbandonare la propria vita precedente e iniziare una nuova esistenza in anonimato. Questo fenomeno è spesso legato a fattori come la vergogna sociale, le pressioni lavorative, i problemi familiari o il desiderio di sfuggire alla società. Non è esclusivo del Giappone, ma è osservato anche in altri paesi come Stati Uniti, Cina, Corea del Sud, Regno Unito e Germania.
MA… evidentemente mi sono persa la fase in cui si dovevano esprimere 2 preferenze tra tutte le storie pubblicate sul sito d Luz, quindi sono stata esclusa. 😬 Era la mia prima partecipazione, un mini contest interessante che chiedeva un INCIPIT, basato su una tra le tre foto proposte da Luz. Comunque questo è stato il mio incipit, scaturito da questa immagine che avevo scelto. PS: il titolo sembra quasi una premonizione 😜
FUORI TEMPO
Il viale si distendeva davanti a lui come uno spartito dimenticato sul leggio. Il maestro avanzava piano, inghiottito da un silenzio così denso che sembrava ascoltarlo. Ogni passo era una nota che si scriveva da sola, ogni colpo del bastone un accordo sommesso, improvvisato da un’orchestra invisibile. L’aria fredda profumava di legno antico e di velluto, come la sala di un teatro vuoto dopo la standing ovation. Il bastone ticchettava sulla pietra come una bacchetta d’orchestra dimenticata sul podio dopo l’ultimo applauso. Gli alberi, nudi e contorti, si piegavano appena al suo passaggio, simili a violinisti stanchi. Camminava immerso in un tempo sospeso mentre, sotto il cappotto elegante, il cuore batteva con una cadenza curiosamente adolescente. Sposarsi. A quell’età. Con lei. La sola che lo aveva guardato non come un monumento polveroso, ma come un enigma ancora da risolvere. Lei. Appariva sempre così: improvvisa, nel mezzo dei suoi pensieri, come un tema musicale che riaffiora dopo un lungo interludio. La sua allieva insolente, con quel sorriso sghembo capace di bucare le convenzioni come un colpo di timpano in un quartetto d’archi. Era l’unica che lo guardasse senza reverenza, come se sotto i suoi anni vedesse ancora l’uomo, non il maestro.
– Mi sposerai, vecchio direttore?
Sussurrava la sua voce dentro la nebbia, mescolandosi al fruscio degli alberi. Lui rise piano. Il viale si piegò su sé stesso, le luci si abbassarono come a teatro, e nella sua testa partì un valzer leggero. Poi, di colpo, tutto si fermò: l’orchestra era in pausa. Sentiva chiaramente i battiti del suo cuore.
Il pomeriggio era sospeso, come se il sole esitasse a tramontare. L’aria sapeva di erba bagnata e pallone consumato. A bordo campo, su una panchina scrostata, c’era lui. Le gambe penzoloni, le calze un po’ troppo larghe, i piedi dentro scarpe leggere, senza tacchetti, inadatte. Lo sapeva. Ogni corsa degli altri glielo ricordava. Non gliele avevano comprate. Non ancora. Forse mai.
Seduto, con le ginocchia graffiate e le scarpe sbagliate. Non serviva che qualcuno glielo ricordasse: non erano scarpe da pallone. Non erano quelle. Ogni volta che guardava quelle degli altri, nere o colorate, robuste come armature, provava un disagio inspiegabile. Nella sua classe c’erano tre bulli che lo mettevano sempre in difficoltà. Una volta era lo zainetto troppo vecchio, una volta i capelli che non andavano bene. Oggi, lo avevano escluso dal gioco per le scarpe. Guardava gli altri correre come se la partita fosse stata un fiume e loro ci nuotassero dentro. Lui era fermo, sulla riva.
Una bambina, una di quelle che sperava non si avvicinassero mai, comparve sbucando alle sue spalle. Aveva i capelli raccolti in due trecce lucide e uno sguardo appuntito.
Perché non giochi?
Abbassò lo sguardo sulle sue scarpe come se la risposta fosse scritta sull’asfalto.
Ah. Capito.
Disse solo quello e tornò verso la rete del campo, con un saltello leggero.
Lui abbassò di nuovo lo sguardo. Le sue scarpe sembravano ancora più brutte. Gli occhi ripresero a seguire la palla, ma non la vedevano davvero.
Poi, arrivò un altro bambino, più grande. Senza dire nulla si sedette accanto a lui, lasciando uno spazio giusto: né troppo vicino, né troppo lontano. Non lo conosceva.
Silenzio. Solo la partita davanti a loro.
Chissà se le scarpe fanno davvero la differenza. Chissà se mi basterebbe metterle per entrare o se servirebbe qualcos’altro.Comunque fa più male guardare che essere guardato.Le scarpe giuste avrebbero fatto la differenza. Forse. Forse non mi avrebbero fatto giocare lo stesso, ma almeno avrei avuto le scarpe giuste.
Si girò verso l’altro bambino e gli guardò i piedi. Lui aveva le scarpe giuste. Perché non giocava?
Restava lì, in silenzio. Una presenza che non era conforto né amicizia ma che aveva incrinato il confine che lo separava dagli altri. L’essere invisibile. Sul campo la partita continuava, il campo da calcetto brillava sotto la luce stanca del pomeriggio.
Liberamente tratto da una conversazione captata durante una escursione verso l’Alta Val d’Arda.
Marrone. Esiste colore più triste? Il nero. El negro no es un color triste, affatto! Ma il marrón, no me gusta.
E pestò un rametto secco, sul sentiero che s’inerpicava tra gli alberi.
Certo, ci sono tante varianti di colore, ma el marrón realmente no me gusta.
S’immaginò il bosco verde e azzurro. No. Verde e bianco, come d’inverno, molto meglio.
A pensarci bene, il marrone, è il pantone per eccellenza nella natura.
Tronchi, variegati come *churros un po’ troppo cotti, la circondavano, più o meno possenti, più o meno impertinenti. Erano solidi, quasi tutti, davano l’impressione di essere radicati fino al centro della terra, emanando un leggero profumo di resina. I passi risuonavano sul terriccio, marrone anche lui, ma con tante sfumature quasi impercettibili. Stava per raggiungere il punto panoramico, il posto in cui avrebbe trovato sicuramente un sacco di altre persone. Infatti, dopo poco, cominciò a sentire il vociferare di altri umani, portato dall’aria fino alle sue orecchie. Non era un’eco, piuttosto il risultato di parole, accostate le une alle altre e unite in un dialogo alieno. Eccolo, il Belvedere.
Alla prima occhiata di “bel vedere” c’era poco. Macchine posteggiate a caso e muretto di schiene che oscuravano qualunque vista. E, giacconi. Tanti. Quasi tutti marroni, a parte i colori fluò dei bambini. Piccoli elfi imprigionati tra le braccia dei genitori.
Siamo monotoni.
Si avvicinò, aspettando pazientemente che terminassero di fare foto e selfie, poi, si infilò tra due coppie che fissavano lontano, in silenzio, un punto che cercò senza successo. Il cielo era coperto, e spostò lo sguardo verso il basso.
Mira el río, es marrón.
Un fiume lento e limaccioso, un lungo enorme verme che scivolava a fondo valle. Come una interminabile cicatrice in via di guarigione. Marrone.
Non può essere. Il fiume, no. Dovrebbe riflettere la luce o i colori delle foglie. Persino la montagna di fronte è verde, al massimo, ramata.
Una delle coppie si era spostata ed era stata rimpiazzata da una famigliola. La mamma, per zittire i piccoli, tirò fuori una cioccolata. Improvvisamente, come quando ascoltava le favole da bambina, il panorama cambiò e s’immaginò montagne puntellate da alberelli di zucchero, caramelle colorate che creavano ruscelli, morbide nuvole di zucchero filato azzurro e rosa, una cascata di mentine lucenti e tanti cioccolatini sparsi ovunque.
Un fiume di cioccolata, morbido e lento. Un cucchiaio enorme che affondava piano e risaliva colmo, carico di sfumature di marrone profumato e tentatore.
Ecco. In questo caso sono certa che avresti fatto una eccezione. Estoy realmente segura.
*Churros: frittelle dolci a forma di bastoncino, tipiche della Spagna: si servono con zucchero o cioccolata calda.
Autunno. Finite. Le vacanze sono finite. E osservò le prime foglie autunnali che, in strada, si erano sollevate inseguendo una moto, come i barattoli appesi dietro alle macchine dei novelli sposi. Un caffè americano sul tavolino e il telefonino alla mano, valutò che, tutto sommato, il cielo le ricordava certe mattine estive fresche, quando usciva prestissimo per godersi i rumori ovattati delle barche che cozzavano pigramente sulle boe. Ma i colori, i colori del tempo erano virati, velati come le nature morte, in una tassellazione in cui tutto sembra immobile.
Immaginò la sua vita riflessa sulla sfera di Escher. Si sentiva intrappolata, congelata.
Potrei farne un fermacarte, di quelli in plexiglass, in cui imprigionano una foto o un oggetto.
Passò, davanti a lei, una giovane mamma con il telefonino all’orecchio e una bambina in braccio. I loro sguardi si incrociarono. La bambina aveva gli occhi grandi, neri, profondi, ma immensamente malinconici. Un ricordo, uscito chissà come, la intristì senza motivo.
Scrollò il suo telefono, cercando video sulle felicità, e si fermò ad ascoltare un’intervista fatta ad un anziano signore.
Mi scusi, cos’è per lei la felicità?
L’anziano, ancora in forma per la verità, stava camminando da solo e si era fermato. Il suo sguardo gentile s’indurì. Non lo so. Sono attimi così veloci che neanche restano nella memoria. Restano solo i rimpianti. Improvvisamente, era diventato vecchio.
Si era alzato un po’ di vento e le aveva spostato i capelli sul viso, sibilando così forte da coprire il dialogo nel telefono. Non si può essere tristi da bambini e anche da vecchi. E in mezzo? Pensa, pensa! Scandagliò la memoria, cercando gli attimi di pura gioia, quei ricordi che sembrano diapositive corrose dall’oblio. Appoggiò i gomiti sul tavolino, mise le mani sulle orecchie e chiuse gli occhi. Intorno le persone entravano e uscivano dal bar, macchine e camion sfrecciavano in lontananza, la gente parlava, il vento parlava, la mente parlava. Qualcuno urtò il suo tavolino e fece cadere la tazza. Aprì gli occhi sulla pozzanghera nera, il colpevole si stava scusando ma lei non lo sentiva, guardava il luccichio.
E in un attimo, affogando in quel nero, capì che, quella bambina, quella bambina le aveva letto dentro.
Nella sala, sprofondata nel divano, avvertiva solo un po’ di acufene. Sentire il silenzio è impossibile. Aprì il libro e distese l’orecchia che aveva fatto all’angolo della pagina. Allungò le gambe sulla sedia e posizionò meglio il cuscino dietro la schiena. Aveva scritto un elenco di cose da fare ogni giorno, i buoni propositi nero su bianco, che alla fine le erano sembrati una lista della spesa, di quelle che compili e dimentichi sempre a casa. Erano le 14.00.
Lista: 5) h 14.00, leggere.
Voltò la pagina, cercando di far arrivare il più possibile la luce dalla finestra dietro le spalle, e allontanò un po’ il libro. Molto meglio. Fu allora che iniziò un rumore forte, continuo, come una trivella, no, come un meccanismo inceppato, un motore che stava cercando di accendersi.
Cos’è? Mi alzo?
E aspettò. Il rumore proveniva dal giardino di fianco alla casa, era chiaro. Forse un vicino stava armeggiando con qualche strumento. E non smetteva, anzi, stava aumentando. Era costante, penetrante.
Mi alzo? Si fermerà.
Girò la pagina e lesse tre righe, due volte. Quel sibilo ipnotizzante le stava trapanando il cervello.
E se mettessi le cuffie?
Continuò a leggere.
Potrebbe essere un’ astronave aliena, proprio qui fuori, e io me ne sto seduta. Forse sta cercando un contatto. Ora mi alzo.
E girò un’altra pagina. Il telefono l’avvisò dell’arrivo di un messaggio.
Ho voglia di mangiare qualcosa, ora mi alzo, vado a vedere da dove arriva questo rumore, e poi vado in cucina a prepararmi qualche carota.
Lista: 2) niente dolci.
Sospirò. Poggiò un piede a terra e il rumore, improvvisamente, perse volume, avvitandosi su sé stesso come una sirena che si sta spegnendo. Riposizionò gli occhiali sul naso, spostandoli bene verso gli occhi. E girò un’altra pagina. Appoggiò la testa allo schienale del divano, una gamba era rimasta a terra, e guardò il soffitto.
Che succede? Si volta d’istinto, vede la gente che si muove, si sta spostando verso l’uscita quasi correndo. Sente solo una voce di donna che urla “Basta! Basta!No!” Si muove col suo carrellino come sempre stracolmo, e segue i rumori. Sente dei versi brutali e dei colpi sordi, sembra che stiano dando calci a qualcosa. Supera la corsia dei detersivi e vede. Anche lei, vede. Un giovane uomo é a terra, circondato da quattro ragazzi che lo stanno colpendo a pugni e calci, gli girano intorno. Sembra reagire un po’, cerca di coprirsi il viso e poi proteggere la pancia, poi si raggomitola.
Proprio all’entrata del supermercato, un’aggressione simile ad una danza macabra, come quando le iene decidono di aggredire un animale isolato. Ancora la voce che nel vuoto urla “Basta! Fermi!”
Lei è ferma, si guarda intorno e ci sono altre persone, giovani, anziani, donne e uomini. Nessuno interviene. Neanche lei. In due stanno filmando, forse per fornire prove alla Polizia. Qualcuno ha chiamato la Polizia? Sembra che tutto si muova al rallentatore, sembra la scena di un film. Forse stanno girando un film.
Gli assalitori hanno finito e se ne vanno, lasciando sul marciapiedi un corpo inerme, con lo stemma Security sulla camicia che brilla tra il sangue, i capelli, che sono diventati un casco compatto e umido, gli coprono il viso. Non si muove, non emette nemmeno un rantolo. Un ragazzo si avvicina e prova a spostarlo, lo scuote e dice che bisognerebbe chiamare un’ambulanza. La voce che prima urlava ora tace. Le persone stanno a guardare, qualcuno esce schivando con attenzione quel corpo, qualcun altro sta telefonando.
Lei osserva. Di fianco al corpo, un portafogli aperto, si vede una foto, la famiglia sicuramente. Non si sono nemmeno dati la pena di rapinarlo. Volevano solo sfogarsi. Potevi essere un coglione qualunque e invece hai voluto strafare. Forse voleva fermarli ma loro non sono scappati, sono rimasti un po’ a fissarlo prima di sferrare il primo pugno, e poi il secondo e poi un calcio e un’altro.
Si è formata una piccola folla intorno al corpo e dall’altra parte della strada. Il carrellino pesa.
Lei si avvicina alle casse ma sono deserte, non si muove niente. Dovrà aspettare.
Era seduta ad un tavolino del suo vecchio bar, all’interno, aspettando un caffè. Osservava le altre persone sedute, quasi tutte in coppia, a parte una anziana signora che stava mangiando un piatto di pasta, sicuramente precotto, con davanti un bicchiere di soda, un panino e un giornale piegato. Le si avvicinò qualcuno per prendere il giornale e lei alzò a malapena la testa.
Era tornata, dopo tanto tempo, nella città in cui aveva vissuto molti anni prima, e cercava di riconoscere qualcuno tra i vari clienti che entravano e uscivano, si scambiavano battute con la sicurezza di chi è nel suo territorio. Lei, non lo era più, avvertiva una strana sensazione, l’impaccio dei ricordi che non trovavano una collocazione in quello spazio. Sicuramente erano cambiati tutti, cresciuti, sposati, ingrassati, mentre lei, credeva non tanto di essere immutata ma riconoscibile. A quanto pare, no.
Arrivò il caffè, portato da un ragazzo sorridente, il figlio della proprietaria, Sofia. Avevano scambiato qualche parola, lei e Sofia, perché appena entrata si era presentata, le aveva chiesto se si ricordava di quando andavano a giocare a pallacanestro insieme. In quel momento il bar era deserto e aveva potuto fare domande, quella sorta di impacciato dialogo che cerca di riconnettere due anime scollegate. Pochi minuti di reciproche confessioni sui sogni e le speranze da ragazze, aneddoti esplosi dal nulla che riallacciavano flashback nella memoria. Poi, era scivolata di nuovo nel presente e, mentre entravano i clienti, si era accomodata ad un tavolino vicino alla vetrata. Non era più parte di quell’ambiente che trasudava memorie a lei sconosciute, come le foto appese alla parete di lato, tra premi per il miglior cocktail e ritagli di giornale con le foto di Sofia, sua madre e suo figlio. Sul bancone c’era una statuina del Cappellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglia.
Si voltò verso la strada e vide passare un uomo di mezz’età, stempiato e con un po’ di pancia. Portava un borsello a tracolla e andava veloce, da solo. Si fermò di colpo e, tra vari movimenti senza senso, si aggiustò i capelli. Quel gesto, quel gesto la riportò indietro di trent’anni e l’immagine di Edoardo, un ragazzo insicuro, solitario e considerato geniale, si sovrappose all’uomo. Lo seguì con lo sguardo mentre spariva dietro ad una curva. Deglutì con amarezza, sentì quasi dolore. Era lui, ne era certa. Quando se ne era andata, quel ragazzo era appena entrato in depressione. La madre rimasta vedova che si era completamente appoggiata a lui, la ragazza che lo aveva lasciato e lo studio che lo assorbiva completamente, lo avevano sicuramente sbriciolato in un esaurimento molto forte. A quanto pare, le aspettative enormi che avevano riposto in lui e il suo brillante cervello, si erano annientate nella solitudine. La sua bussola interiore si era spenta.
Quella sera avrebbe rivisto i suoi compagni di liceo, aveva ceduto alla curiosità anche se inizialmente l’idea non le era piaciuta molto. Guardò il Cappellaio Matto, sul bancone del bar, e pensò che avrebbe detto: “Il segreto, miei cari, è di circondarsi di persone che ti facciano ridere il cuore.”
Rimase a fissare la tazzina, i fondi del caffè che creavano disegni sui lati e le sembrò di vedere una E.
Ho la sindrome del cuore infranto. É una patologia, non lo sapevo. Sapevo però che il mio cuore era diventato un pizzo macramè, in cinque anni, da quando sono iniziate le gocce corrosive, gli spasmi della disperazione. Ho perso l’equilibrio. É solo dolore. Lo proviamo tutti. Lo proviamo tutti? Un giorno alla volta, un momento appresso all’altro, riempiendoli di cose da fare, cercando di colmare ogni anfratto in quell’immenso spazio che sembra dilatarsi. Ho cercato risposte che non esistono, ho cercato abbracci che non sono arrivati, ho cercato me stessa in questo vuoto che non era assenza ma eccesso di presenza. La tua.
Mi avvinghio alla tue cose, a una nostra foto, proiettando il ricordo della tua energia, aspetto un riverbero, una connessione con lo tsukumogami. E, mentre chiudo gli occhi, gli spiriti che abitano serenamente in quel rettangolo, che hanno vissuto 35 anni in questo oggetto, assorbendo la mia e la tua anima, sanno tutto. E parlo con loro cercando uno stato di coscienza nuova, una proiezione dei ricordi che abbiamo lasciato con le nostre impronte, con i nostri sguardi, un guizzo divino.
Una trasmutazione, questo è successo. L’assenza del gioco, del desiderio, l’inquietudine che nessuno vede ma che corrode dentro. Non ho cessato di vivere o, forse, sarebbe più corretto dire che una parte di me è restata in quel territorio sconosciuto, vicino a te, mentre l’altra ha smesso di implorare amore. L’anima ha iniziato a parlare non appena il rumore del mondo si è fatto insopportabile e così, mi alzo, lavoro, scrivo, parlo, sorrido, piango, in un disagio brutale che mi rende invisibile.
Questo silenzioso rodimento sta scavando. Ora, devo prendere la giusta dose che fa la differenza tra droga e medicina, mentendo a me stessa mentre mi guardo allo specchio, fisso nelle pupille dilatate e morbide, acquose, piccole onde che spesso debordano.
E sorridono i miei occhi, per te, che hai sempre amato il mio sorriso.
La frenata del treno stride come le unghie passate su una lamiera. La piccola folla si accalca, prevarica, ingombra da ogni lato, attendendo l’apertura delle porte. Come se entrassero in un’arena, si fiondano all’interno della carrozza, correndo, ignorando i vicini, giovani, anziani, bambini. Un fiume in piena di ciabatte da mare, valigie e zaini, mi travolge e mi spinge. Nessuno ascolta, tutti parlano, chiamano, qualcuno urla. Vedo un posto libero tra due passeggeri, nel corridoio, e come un’anguilla scivolo tra camicie sudaticce fino alla meta. Bagaglio, sistemato sotto. Ora posso respirare, chiudere gli occhi e aspettare che questa umanità disperata si plachi. La mia vicina di viaggio a sinistra è americana e sta fissando l’indecoroso spettacolo, ritraendo i piedi il più possibile per far passare roboanti trolley giganteschi.
Oh my gosh…
Due minuti, forse tre, di totale caos in cui, proprio ad altezza viso, ho schivato due volte i piedini di piccoli infagottati sulle schiene dei genitori. Uno, sorrideva. Ed è pace. Apparente. Le porte si chiudono e l’aria condizionata riprende a funzionare. L’americana ha indossato le cuffiette, l’altro passeggero alla mia destra sembra assorto, non si è mosso. Lo guardo di sfuggita, poi, lo guardo meglio. Un tuffo al cuore! É mio fratello! No. Non è lui. Ma è uguale a lui! Un sosia. Cerco di non fissarlo, faccio finta di guardare oltre, dietro di lui, e più lo guardo, più noto la somiglianza nelle espressioni, nei capelli, perfino nell’abbigliamento. Esistono sosia per ognuno di noi, in qualche parte del mondo ma, essermelo trovato di fianco, mi ha lasciato interdetta. Vorrei dirglielo, sapere cosa fa, come vive, se è sposato o ha figli. Vorrei, ma non lo faccio. Se è come mio fratello è riservato e, forse, mi guarderebbe come se fossi una molestatrice.
Una foto, gli ho scattato una foto di profilo senza che se ne accorgesse, mi servono prove. Spero che nessuno mi abbia visto. Mi guardo intorno e sono tutti intenti ad osservare i loro telefonini. C’è silenzio, solo teste chine, un girone infernale di dannati che sembrano dover espiare chissà quali colpe, restando intenti a fissare, in basso, uno schermo. Nessun contatto visivo, nessuna chiacchiera, non un fiato.
Ma siete tutti giovani! Tutti ragazzi! Che state facendo? Non la vedi quanto è carina la ragazza che hai di fronte? E tu? Non vorresti chiedere a quel ragazzo dove è andato a fare surf? Uno ha un braccio fasciato, forse è stata una medusa o si è fatto male in una partita a volleyball. Sono tutti da soli, avvolti da una membrana invisibile che li separa, li allontana. Vi siete divertiti in vacanza? Studiate? Lavorate? Che sogni avete? Mi giro a guardare “mio fratello”, ma ha appoggiato la testa di fianco e sta dormendo; l’americana scrolla il telefono. Riflessi azzurrognoli e lampi di luce si riflettono sulle pareti della carrozza, mentre parte l’ennesimo annuncio fastidioso.
Prendo il mio libro, aspetto il silenzio e, tornando col pensiero allo sciabordio delle onde, riprendo a leggere dal capitolo che avevo interrotto, tenendo in mano la porzione di madreperla raccolta al tramonto sul bagnasciuga.
Chiusa la conversazione. Aveva appena toccato la cornetta rossa per terminare la chiamata con la sua amica. Rimase a fissare le tende mosse dall‘aria del ventilatore, chiuse gli occhi.
Lei era l’amica cui confidare tutto, quella da cui ti aspetti risposte e rassicurazioni. Sapeva ascoltare, era come un abbraccio e sapeva cosa si aspettavano gli altri. Un abbraccio.
Si alzò per cercare le sigarette, ne aveva già fumate troppe mentre ascoltava lasciando che il fiume di parole riempisse la stanza, l’aria, la sua mente. Quella sera avrebbe mangiato da sola come succedeva da troppo tempo. Importava? Scostò le tende e rimase a fissare il giardino che sembrava immobile nella calura, arso da raggi impietosi. Pensò al deserto, alla forza devastante del sole, così potente, così importante. Poi, pensò alla luna, fredda, algida, lontana, sempre uguale e sempre diversa.
La sera prima aveva mangiato fuori, nel suo angolo di paradiso, alla luce delle candele alla citronella, ed era rimasta ad osservare il cielo, mettendo le mani a conchiglia intorno agli occhi, facendo un improbabile binocolo che potesse puntare lontano, che arrivasse ad osservare il grande carro e il piccolo carro. Aveva cercato la costellazione del sagittario e quella della bilancia, le uniche che riconosceva, ma il cielo non era limpido, i suoi occhi non erano limpidi. Le lacrime erano scivolate sulle guance, vicino alle orecchie, fino al collo. Tornando in posizione eretta, sentendo la cervicale che aveva sofferto, si era versata un po’ di vino bianco fresco nel calice e aveva appoggiato la testa sullo schienale della sedia, restando ad osservare le ombre tremule sul muro di fronte.
Quella sera però non le andava di mangiare fuori. In effetti non le andava proprio niente. Era come se quella telefonata l’avesse riempita, come se avesse fatto indigestione, sentiva chiaramente il peso di tanta indecisione alla bocca dello stomaco, il tedio dei lamenti che ingolfavano il fegato, un cerchio di opportunismo che le attanagliava le meningi.
É solo che le persone hanno bisogno di sfogarsi.
Si girò di colpo e il gatto la stava fissando. Due smeraldi tondi che la scrutavano intensamente, immobili, immensi. Il gatto si mosse lentamente fino ai suoi piedi e rimase seduto, al suo fianco, come una statua, come un guerriero pronto a difenderti. Non si toccarono. Squillò il telefono, era la sua amica, di nuovo.
Lei respirò a fondo e lasciò che il rumore del ventilatore riempisse l’aria fino ad arrivare alla sua testa. Chiudendo gli occhi, s’immaginò il fragore delle onde del mare, la lunga linea blu che separa l’acqua dal cielo e le sembrò di sentire l’eco lontana del cozzare di boe, un peschereggio che rientrava. Un sorriso, si ricordò del sorriso di un vecchio pescatore, un sorriso senza due denti, bianco come l’avorio, nel viso accartocciato da una vita senza protezioni, schermi, maschere.
Il telefono squillò di nuovo ma lei si era alzata ed era uscita. Il gatto rimase seduto fino a quando il telefono si silenziò.
Quella sera lei avrebbe mangiato nel suo angolo di paradiso.
Sono le 06.00 del mattino, l’aria è fresca, inusualmente fresca. La luce sta già impadronendosi di tutto lasciando tenere ombre degli alberi. Sembra che siano ancora intorpiditi, con le foglie dormienti, cullate da un vento leggero. Intorno tutto tace, anche le cicale, borbotta solo il caffè che sta debordando, quasi seccato di doversi alzare sempre così presto. (lui!) Mi accendo la prima sigaretta lasciando che la pelle venga accarezzata da leggeri brividi per l’aria che entra dalla finestra spalancata, e mi siedo. Mi siedo assaporando il momento di tranquillità che è solo mio, con gli occhi che si perdono nel cielo, nei colori che stanno virando da un azzurro pallido al celeste estivo.
E penso.
É l’ultimo mese d’estate. Mi è scappata via questa estate. Eppure ho vissuto le giornate roventi, qualche tuffo nel mare, le serate dai cieli a spilli, illuminate da stelle minuscole e da una luna sfacciata, l’incessante frinire da ogni dove, le continue docce per rinfrescarsi.
Ho iniziato il conto alla rovescia. É presto? Sicuramente. Ma qui l’inverno è lungo e umido, triste e soffocante come una stufa che non tira bene. Non ci voglio pensare. Spengo la sigaretta ed esco sul prato a piedi scalzi. Ci saranno già le api in giro? Cammino lentamente, arriccio le dita dei piedi sull’erba fresca e una formica passeggia veloce sul mio collo del piede. Raccolgo qualche foglia che m’infastidisce, come se fossero macchioline su un bellissimo quadro. É un tappeto astratto, i colori dell’erba variano creando disegni, senza fiori, solo tante tonalità di verde. Ed è là. Il faggio. Cresciuto con due fusti che si attorcigliano in un abbraccio delicato nato per caso, non ci sono particolari condizioni che giustifichino questo fenomeno, se non la magia della natura.
Ciao. Posso abbracciarti?
Avvinghiata ai tronchi, mi fondo a occhi chiusi in un allaccio improbabile fino a che le mie mani trovano anfratti naturali in cui adagiarsi, i miei piedi si poggiano sulle radici e la mia testa affonda tra morbide foglie.
Aspetterò la notte di S Lorenzo. Aspetterò una cascata di stelle.
Passato e futuro hanno senso solo se si percorre la propria strada nel presente.
Un assaggio dal mio romanzo MUSUBI. Un viaggio, fatto perdendosi nei labirinti della mente, ricercando il significato dei legami, tra risposte irrazionali, mistiche e scientifiche. La protagonista si dovrà arrendere al MUSUBI, al percorso della sua storia di vita nel tempo…
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