Solipsismo in paradiso

Chiusa la conversazione. Aveva appena toccato la cornetta rossa per terminare la chiamata con la sua amica. Rimase a fissare le tende mosse dall‘aria del ventilatore, chiuse gli occhi.

Lei era l’amica cui confidare tutto, quella da cui ti aspetti risposte e rassicurazioni. Sapeva ascoltare, era come un abbraccio e sapeva cosa si aspettavano gli altri. Un abbraccio.

Si alzò per cercare le sigarette, ne aveva già fumate troppe mentre ascoltava lasciando che il fiume di parole riempisse la stanza, l’aria, la sua mente. Quella sera avrebbe mangiato da sola come succedeva da troppo tempo. Importava? Scostò le tende e rimase a fissare il giardino che sembrava immobile nella calura, arso da raggi impietosi. Pensò al deserto, alla forza devastante del sole, così potente, così importante. Poi, pensò alla luna, fredda, algida, lontana, sempre uguale e sempre diversa.

La sera prima aveva mangiato fuori, nel suo angolo di paradiso, alla luce delle candele alla citronella, ed era rimasta ad osservare il cielo, mettendo le mani a conchiglia intorno agli occhi, facendo un improbabile binocolo che potesse puntare lontano, che arrivasse ad osservare il grande carro e il piccolo carro. Aveva cercato la costellazione del sagittario e quella della bilancia, le uniche che riconosceva, ma il cielo non era limpido, i suoi occhi non erano limpidi. Le lacrime erano scivolate sulle guance, vicino alle orecchie, fino al collo. Tornando in posizione eretta, sentendo la cervicale che aveva sofferto, si era versata un po’ di vino bianco fresco nel calice e aveva appoggiato la testa sullo schienale della sedia, restando ad osservare le ombre tremule sul muro di fronte.

Quella sera però non le andava di mangiare fuori. In effetti non le andava proprio niente. Era come se quella telefonata l’avesse riempita, come se avesse fatto indigestione, sentiva chiaramente il peso di tanta indecisione alla bocca dello stomaco, il tedio dei lamenti che ingolfavano il fegato, un cerchio di opportunismo che le attanagliava le meningi.

É solo che le persone hanno bisogno di sfogarsi.

Si girò di colpo e il gatto la stava fissando. Due smeraldi tondi che la scrutavano intensamente, immobili, immensi. Il gatto si mosse lentamente fino ai suoi piedi e rimase seduto, al suo fianco, come una statua, come un guerriero pronto a difenderti. Non si toccarono. Squillò il telefono, era la sua amica, di nuovo.

Lei respirò a fondo e lasciò che il rumore del ventilatore riempisse l’aria fino ad arrivare alla sua testa. Chiudendo gli occhi, s’immaginò il fragore delle onde del mare, la lunga linea blu che separa l’acqua dal cielo e le sembrò di sentire l’eco lontana del cozzare di boe, un peschereggio che rientrava. Un sorriso, si ricordò del sorriso di un vecchio pescatore, un sorriso senza due denti, bianco come l’avorio, nel viso accartocciato da una vita senza protezioni, schermi, maschere.

Il telefono squillò di nuovo ma lei si era alzata ed era uscita. Il gatto rimase seduto fino a quando il telefono si silenziò.

Quella sera lei avrebbe mangiato nel suo angolo di paradiso.

Dolcezza

La giornata stava per terminare quando entrò nel supermercato. Non cercava nulla di particolare, giusto un po’ di prosciutto da mettere sotto i denti.

Si aggirava tra le corsie con una leggerezza che solo i single dal cuore spezzato possono avere. Si fermò davanti al banco del salumiere, attirato dal profumo penetrante del prosciutto crudo che si mescolava con quello del formaggio stagionato.

Incredibile come certi aromi si mescolino in un’armonia spontanea.

Si fermò ad osservare la distesa di cibi pronti, le vaschette ripiene di intingoli, qualcuna dai colori poco invitanti, ma tutto era sistemato come in un dipinto, quasi in prospettiva. C’era stata sicuramente una ricerca alla base, niente era dato al caso. Distolse lo sguardo per non essere rapito da quell’ammasso di cibo e gli occhi si fermarono sul vetro del banco. E lì, su quel vetro brillante, sotto il neon del negozio, vide riflessa una ragazza. Le mani. Le sue mani.

Le dita lunghe e sottili come strumenti d’arte, e le unghie lunghe e levigate che somigliavano a conchiglie appena sbiancate dal mare. Una combinazione di grazia e forza che lo colpì, una poesia di carni delicate e vellutate. Non riusciva a staccare gli occhi dalle sue mani. Era convinto che, se avesse avuto il coraggio di guardarle abbastanza a lungo, avrebbe scoperto un intero universo tra quelle dita.

E gli apparve l’immagine di una lunga spiaggia assolata. Il sole caldo, ma non troppo, il vento che le scompigliava i capelli, quelle mani che accarezzavano le onde, le lunghe dita che sfioravano la sabbia sulla riva, mentre lui si sentiva più in forma che mai, come se i venti marini avessero magicamente aperto la sua mente. Quelle mani gli stavano carezzando l’anima.

“Mi scusi,” le chiese con una voce che suonava più come una preghiera, “ha mai pensato che, un giorno, quelle mani potrebbero raccogliere un cuore impazzito per loro?”

Lei lo guardò imbarazzata, prese il suo pacchettino e si allontanò.

Era tornato alla realtà, al freddo chiarore delle luci, in mezzo ad altre persone che non potevano lontanamente comprendere il suo viaggio immaginario in una storia d’amore completa di spiagge, onde e conchiglie. Venne scosso da un brivido, come un feticista deluso.

In fondo, quelle mani erano state solo una scusa per sognare un po’ di dolcezza, nel suo mondo.

“Dica dottò!”

Il silenzio dopo il mare (4)

Ci siamo! Questo racconto iniziato per gioco si conclude qui, almeno, sulla carta.

“Il silenzio dopo il mare”

Le profondità

Sono le h 20.00. Laura ha parcheggiato la macchina dalla parte opposta alla casa in cui vive Anna, si è accesa una sigaretta, abbassando un po’ il finestrino. C’è ancora chiaro e un po’ di persone che stanno camminando, forse verso casa o forse hanno già mangiato. La zona non è periferica, è un quartiere tranquillo, non quello che si aspettava. Nessun brutto ceffo o sbandati, non è nella perdizione, in uno di quei luoghi in cui non vanno le brave persone. Niente a che vedere con gli acquari tranquilli e perfetti delle zone centrali, somiglia più a un anfratto naturale, popolato da militi e una varietà di organismi che non hanno trovato niente di meglio.

Sta aspettando, forse è arrivata troppo tardi, del Professore nessuna traccia, sarà già salito? Il telefono vibra e s’illumina un messaggio. É di Anna.

Mi dispiace moltissimo ma devo rimandare l’appuntamento per cause personali. Mi perdoni. Le può andare bene domani?

Laura rimane a fissare lo schermo, poi guarda la casa, l’intonaco verdino, le ante marroni, alcune chiuse. Non sa cosa pensare ma, soprattutto, non sa cosa fare.

Si apre il portone. Escono il Professore e una donna. É una donna giovane, alta e sottile, con i capelli biondi a caschetto e un completo in lino bianco. Chiude la porta e s’incamminano. Che fare? Li seguo? Li seguo.

Camminano piano e parlano. Allora lui la conosceva già?

Arrivano ad un piccolo giardino, lo attraversano e si dirigono ai tavolini di un bar. Laura cammina svelta, scivola come un anguilla a pelo sabbia, li supera senza farsi notare e si siede dietro di loro, in un angolo vicino a una siepe. Le arriva il profumo fresco della ragazza e quello amaro del Professore. Li vede guardarsi negli occhi, ordinare qualcosa da bere, due gin tonic, poi silenzio. Passano alcuni clienti, un banco di sardine, si spostano disordinatamente ma in gruppo, fino a che trovano la zona adatta. Il Professore sta parlando ma Laura non riesce a sentire, il gruppo si sta sistemando. Che nervi! Ce la fate a sedervi?

  • Perché non torni a casa?

Questa domanda le arriva come un colpo di arbalete e rimane in apnea, concentrata. Fissa la ragazza, la guarda meglio. Le mani. Ha le mani grandi dalle dita lunghe. Di colpo lei scoppia in una risata e il Professore le fa eco. Hanno la stessa risata.

Lui si toglie gli occhiali e li pulisce, lei gli sta sorridendo e lo accarezza in viso. Sta piangendo, il Professore sta piangendo. Cosa gli hai detto? Ti picchierei per averlo fatto piangere!

  • Papà, non soffrire, lo sai che sto bene. Ti ho già detto che presto cambierà, molto presto. E forse, forse, allora ci ritroveremo, se vorrai.

Sua figlia! Non deve essere facile. Ma come sarà successo? Chissà cosa l’ha portata a scegliere quel tipo di vita?

  • Quando?

La mano di Anna scivola sul tavolo e avvolge quella del Professore. Restano così, stretti come le valve di una capasanta, con le venature in rilievo sulla pelle chiara. Ma l’acqua del mare non è immobile, mai, e nasconde, confonde.

  • Chiedo scusa, ciao Ferdinando. Ti ho lasciato il vestito che mi hai prestato davanti al portone di casa. Scusate eh! Ma è tuo padre? Buonasera, sono Alessandro.

Alessandro è una mora dai capelli lunghi e lucidi, con i polpacci un po’ troppo grossi. Si salutano e se ne va, ancheggiando sui tacchi.

Anna/Ferdinando e il Professore sono vicini ma lontani. Lui è un delfino, ma lei, non è una sirena.

Non ancora.

C’è tanta luce, quel riverbero che scoppia un attimo prima del tramonto e inonda tutto confondendo i colori, coprendo la superficie del mare con una lamiera morbida e danzante.

Là sotto, la vita non è come ce la immaginiamo.


Beh, grazie per aver letto “Il silenzio dopo il mare”!🧜

Il silenzio dopo il mare (3)

E grazie a Paolo newwhitebear, vi tocca la parte 3! 🤓

Il silenzio dopo il mare”

A.A.A

Laura aveva finalmente staccato e, dopo un pomeriggio estenuante, stava pedalando sul marciapiedi del lungomare, ancora percorribile a quell’ora. Il baccano del mondo le era insopportabile e cercava di sentire il mare, quella litania di onde morbide e lunghe che parevano sforzarsi di raggiungerla. Il tragitto fu breve, più del solito. Voleva farsi una lunga doccia fresca e guardare con calma i giornali, custoditi gelosamente nella sua borsa, scoprire cosa aveva acceso la curiosità del Professore, al punto da ritagliare addirittura un annuncio.

Stava rientrando a casa, come ogni giorno, salutando i soliti negozianti e la vicina che stazionava sul terrazzo, muta vedetta pettegola, come una vecchia murena.

Ah, la bellezza del rumore secco del portone di casa che la chiude dentro, al sicuro come un pesce rosso nella sua boccia. Il suo territorio, in cui poteva essere imprevedibile, misteriosa, intoccabile, in un silenzio che non era vuoto ma tempo. Il suo tempo.

Il corpo tace sotto la doccia, si lascia accarezzare. I gesti solo lenti, sta ascoltando il sussurro della sua anima. Si asciuga e indossa un caftano di impalpabile cotone azzurro polvere. Ora è pronta.

Cammina a piedi scalzi sulle maioliche fresche fino al terrazzo, spalanca la porta finestra e fissa la lunga linea blu che separa l’acqua dal cielo. Appoggia i giornali sul tavolo e li apre entrambi, alla stessa pagina. AAA.

Il quadrato mancante: AAA non ho bisogno di essere scelta. Sono un portale, un incontro radicale con te stesso. Solo sera, dalle h 20.00

Laura si appoggia allo schienale della sedia. Forse il Professore ha provato nostalgia, senza un nome. Come una chiamata, Il bisogno di colmare un vuoto, un incontro con l’ombra.

Mancava un’ora alle h 20.00.

Prende il telefono, cerca l’indirizzo su google map. E telefona.

  • Salve, vorrei un appuntamento, per stasera.

Dall’altro capo del telefono, una voce calda, tranquilla, le chiede se sa l’indirizzo e le conferma per le h 21.30. Anna, si chiama Anna.

Laura sa cosa fare. Lei è un pesce abissale, sa adattarsi, è abituata a sopravvivere in ambienti difficili. Vivere in profondità rende forti.

Si alza, chiude la porta finestra, si veste. Il rumore secco del portone di casa è l’ultimo suono che sente.

Il silenzio dopo il mare

Aveva arricciato le dita dei piedi nella sabbia del bagnasciuga mentre l’acqua fresca del mare, assonnato e dolce come una carezza, non aveva fretta, ma lei sì.

  • Buongiorno! Cosa prende?

I soliti rumori, le solite voci troppo alte. Perché urlano tutti? Il bar, il più bello della costa,  si stava riempiendo di gente in vacanza, ciabatte e capelli spettinati, borse colme e bambini già iperattivi. Come ogni giorno, scandito da gesti meccanici, preparava le colazioni, posizionava piattini e tazzine, controllava gli scontrini con discrezione e cercava un contatto che andasse al di là di un sorriso di circostanza. Aveva imparato negli anni, sapeva non superare il limite.

Il limite.

Ognuno aveva il suo e, nelle sue giornate, aveva suddiviso i clienti in 6 tipologie.

I Polpi, che ancora dovevano andare a dormire, ma biascicavano l’ordine con lo sguardo basso o velato dalla roba, acidi, ecstasy, hashish. Stropicciati fin nell’anima.

Le Ricciole, i villeggianti, eleganti fin dalle 7.00 del mattino. Gli uomini col quotidiano sotto al braccio e le donne con cagnolino al guinzaglio. Li conosceva tutti e, qualcuno, conosceva lei.

I Fritti misti, che erano entrati per sbaglio ma, ormai, già che c’erano, prendevano un caffè al banco. In genere venivano il primo giorno, prima di andare a fissare ombrellone e sdraio per la famiglia.

Gli Spiedini, i commessi dei negozi di lusso della strada principale, già stanchi, incravattati, profumati, con trecce di capelli rigide come fruste e unghie smaltate perfette.

Le Cozze, coppiette di innamorati. Esistevano dei sottolivelli. O erano visibilmente in amore, mano nella mano, occhi negli occhi, o erano già scaduti, come uno yogurt cagliato, l’incanto stava svanendo nei grumi di ricordi ancora presenti.

Le Meduse, i single, solitari e più o meno loquaci, a volte un po’ persi. Uomini e donne in un universo parallelo. Si chiedeva spesso come vivessero. Anche lei faceva parte di quell’universo e conosceva bene la sensazione di isolamento, come un tir in autostrada tra tante macchine piene di vita.

Le Sardine, famigliole perfette, papà, mamma, figli, più di uno. Passeggini spaziali e gadget di ultima generazione, le nuove tate per tacitare i bambini, seduti fuori, con un tripudio di brioches, caffè e latte, miele e nutella.

La prima ondata era finita, lasciando le cose da riordinare, pulire, sistemare, come dopo una mareggiata.

  • Allora Rica che hai fatto ieri sera?

Stefania, la sua collega, sposata, con un figlio e in attesa del secondo, cercava di sistemarla ad ogni costo. Proprio non le andava giù che a 38 anni fosse ancora single, una medusa.

L’aveva soprannominata Rica dal primo giorno di lavoro, dicendole che sembrava un ostrica, chiusa e coriacea. Qualcosa di pregiato, in fondo. Lei si chiamava Laura.

  • Sono rimasta in casa, sul terrazzo, a leggere.
  • Tesoro mio, ma se non ti dai da fare, se non esci, incontri un po’ di amici, mica cambia! I principi azzurri sono finiti!

Mi sa che hai preso l’ultimo, pensò Laura. Parlava molto con sé stessa, era giunta alla conclusione che a volte le parole erano inutili. Meglio, molto meglio ascoltare e, osservare.

Era arrivato il Professore, bella persona, d’altri tempi, come avrebbe detto sua madre. Ogni giorno entrava con passo tranquillo, al termine della mareggiata, ordinava il solito e si sedeva al suo tavolino, all’interno del bar. Fuori già si accalcava la folla diretta alle spiagge, rimbalzavano le chiacchiere nella calura che cominciava a dominare la giornata.

  • Buongiorno Laura.
  • Buongiorno Professore.

Parlavano poco, solo se sortiva un argomento di conversazione, in genere da lui. Era vedovo e molto corteggiato, a volte in maniera talmente evidente da risultare imbarazzante. Laura osservava la sua eleganza, tradita da qualche particolare dismesso, come le camicie non stirate. Eppure, invidiava la sua tranquillità, la sua sicurezza non ostentata, quella capacità di declinare inviti senza recare offesa.

Un Delfino, senza dubbio.

  • Laura vai al 3, sono arrivate delle clienti.

Anni di lavoro in quel bar e ancora non era riuscita a memorizzare i numeri dei tavolini all’aperto, un rifiuto inconscio. All’esterno, sotto al tendone a strisce bianche e verdi, tra vasi colmi di piante, erano stati collocati dieci tavolini da quattro, in ferro battuto e pietra lavica, costosissimi e pesantissimi. C’era solo un tavolo occupato, meno male.

  • Buongiorno, cosa vi posso portare?

C’erano tre giovani donne, sorridenti, dalla carnagione appena dorata che sbucava dai copricostume, avvolte da un fresco profumo di lavanda e cedro.

  • Buongiorno! Tre cappuccini, uno col cacao, e tre croissant vuoti.

L’ordinazione le venne fatta da due occhiali a specchio che le rimandarono il riverbero del sole.

  • Succo d’arancia?
  • No, grazie, anzi sì, per me.

Rientrare nel bar e passare l’ordine fu come tornare al sicuro. Tre Sirene sedute al tavolo 3. Paolo e Mattia, i camerieri, fecero a gara per andare a portare le colazioni.

Dal suo antro protetto, Laura osservava la scena già vista migliaia di volte. La battuta, le domande, i consigli. Poi, alla fine, i gelèes di frutta su un piattino con frangino, offerti alle dee, propizi per chi sa quale futura evoluzione. Il più delle volte toppavano alla grande, ma, chi può dirlo?

Laura era uscita sul retro un momento, per fumare. Il vicolo era stretto, tra le pareti delle case, con i cassonetti alla fine. Alzando lo sguardo era possibile vedere una fetta di cielo azzurro, come una larga riga. Da entrambi i lati, il vicolo sbucava su strade pedonali e si vedeva passare qualcuno, di tanto in tanto, passeggiare all’ombra dei pini marittimi.

C’erano giornate in cui soffiava un po’ di vento, passava un po’ di corrente, un sussurro lieve, ma non oggi.

Un quarto d’ora

Seduta su un muretto scomodo, sul lungomare, si era fermata dopo aver fatto una camminata. Ogni giorno la stessa, lo stesso percorso, col passo veloce e la testa piena di riflessioni. Il vento era ancora gelido, e portava con sé l’aspro odore della salsedine.

Grigio il marciapiede, grigia la spiaggia e il mare, grigio il cielo. Spiccavano solo le sue scarpe da ginnastica, verde acido, come due manghi ancora acerbi. Si era seduta non perché fosse stanca, si era voluta fermare, per fermare la mente. Quanto era difficile la relazione tra le persone e il suo modo di pensarle. Ne aveva incontrate tante, come sempre, e le salutava tutte, come sempre, ma alcune non rispondevano, mai.

Chiuse gli occhi, lentamente, cercando un quarto d’ora di niente.

I mattoni erano freddi, umidi, e in lontananza, si sentiva il gorgogliare e deglutire del mare. Tirò su la leggera sciarpa fino a coprire le orecchie e infilò le mani nelle tasche della giacca. Respirava, immaginandosi le onde che s’infrangevano lontano, il sole che bucava le nuvole e i suoi piedi nella sabbia del bagnasciuga, con le dita che afferravano le telline che emergevano e si posavano sulla pelle come un prezioso decoro. La dolcezza dei granelli di sabbia che scivolavano tra le dita per non tornare più, lasciando spazio ad un ‘altra dolce onda. Riaprì gli occhi sul grigio della sabbia, interrotto solo dalle orme di qualche uccello che aveva zampettato quasi in cerchio.

Ora la risacca era lunga, potente, abbandonava sulla riva i detriti, le alghe, pezzi di conchiglie e di legno.

Neanche il mare si ferma mai, con il suo linguaggio di frasi interrotte, mai completate.

Poi, vide passare un punto rosso lontano, la giacca di un bagnino che stava raccogliendo i rifiuti del mare, con un attrezzo simile ad un rastrello. Sembrava un palloncino che si gonfiava e si sgonfiava, spostandosi lentamente in quel grigio. Il palloncino si fermò e si voltò verso di lei, sollevò un braccio per salutare.

E lei rispose. Peccato non essersi guardati negli occhi, gli sguardi sono”frasi perfette”.

Il vento alzò un pò di sabbia.


Un racconto breve, sulla mindfulness, dal termine antico in lingua pali “sati”, che significa consapevolezza, intesa come attenzione. Quanti riescono a prestare attenzione momento dopo momento, a ciò che fanno?

alone and beyond

Un piccolo passo, poi un altro. Con la maglietta rossa e un bel cappello di paglia, appoggiato ad un girello, procedeva fragile, sul marciapiedi, fermandosi di tanto in tanto per riprendere un po’ di forza. Alzava lo sguardo dal grigio dell’asfalto, da quell’attrezzo, sua armatura e destriero, verso il cielo. Il tragitto da casa al bar era un percorso lungo e faticoso che faceva ogni mattina da solo, dopo essersi preparato con cura, pettinato e vestito come ogni giorno, guardandosi allo specchio, senza occhiali.

Aveva quasi 90 anni ma ancora ci vedeva bene, era il resto del corpo che non rispondeva più come un tempo. Ma quando si svegliava, dopo essersi fatto il caffè, mentre raggiungeva il bagno lentamente, gli capitava di avere dei flash, di ricordarsi com’era sentirsi agili e forti, di quanto era tutto più semplice. Si era invece scordato quando era cominciato il decadimento, forse perché non c’era stato un vero e proprio inizio, era accaduto e basta, come succede per lo scorrere delle stagioni.

Non amava rimuginare, non sarebbe servito niente e quindi, ogni giorno, se il tempo lo consentiva, prendeva le sue gambe di metallo e usciva, sempre in ordine, col suo cappello. Fino a poco tempo prima era riuscito anche a fare la spesa ma aveva dovuto rinunciare e accontentarsi di percorrere il lungo tragitto da casa sua al bar, dove lo aspettava il suo tavolino in un angolo comodo.

Qualche parola scambiata con le signore che passavano ogni giorno e che salutava come un cavaliere d’altri tempi, le solite risposte al cameriere gentile che gli portava il suo caffè macchiato caldo. Nei giorni dispari arrivavano alcune sue vecchie conoscenze e lo invitavano a giocare a carte, non oggi.

I ricordi riapparirono vedendo gonfiarsi il tendone del bar, come una vela spiegata e, chiudendo gli occhi, rivide le onde fragorose e minacciose che conosceva bene. Avrebbe voluto raccontare di quando aveva fatto il mozzo su una nave per sette anni, per poi rimanere fino a diventare Comandante. Avrebbe voluto raccontare dei posti che aveva visitato e delle persone che aveva conosciuto, del suo equipaggio, le lunghe ore passate a chiacchierare, andando poi a recuperare chi si era perso nei bar dell’Havana, troppo ubriaco per ritrovare la strada. Gli sarebbe piaciuto narrare la sua vita a chi passava, camminando veloce, sempre di fretta, e portarlo per un attimo con sé, nei suoi ricordi del profumo della pelle di amori travolgenti, di giuramenti mai rispettati o dei rimpianti che spaccavano il cuore davanti alle albe in pieno oceano. Quanto avrebbe voluto descrivere le fughe dai pirati che apparivano dal nulla, nei mari delle coste africane, i colori sgargianti delle stoffe barattate con il pesce, le nottate senza fine, di guardia, aspettando che il destino decidesse con quanta forza li avrebbe messi alla prova.

Gli anni erano volati, scanditi dalle stagioni e dalle rotte. Avrebbe potuto disegnare la sua vita su un mappamondo, con un pennarello che avrebbe alla fine ricoperto tutti gli oceani e toccato tutti i continenti.

Non c’era nessuno a cui raccontare tutto ciò, nessuno che fosse interessato ad ascoltare. Per il mondo era solo un vecchio che aveva lavorato su una nave.

Ma oggi, la nostalgia aveva lasciato il posto ad un sorriso, il vento era così forte da avergli strappato il cappello e scompigliato i capelli, sopra quello sguardo azzurro, profondo e lontano. Le nuvole correvano veloci e il sole appariva e spariva.

“Ecco, Comandante!”

Il giovane cameriere gli aveva riportato il cappello ma lui, al comando, le mani salde sul timone, a occhi chiusi sapeva bene cosa fare, vedeva la rotta, vedeva i gabbiani che seguivano la barca, e il mare.

Il Comandante, era salpato, e stava navigando.


foto di Daniil Silantev da unsplash

Indaco (P) e Oro (S)

Una festa. Ci sarà una festa. Sul molo, lo skipper attende. Lui, che sembra uscito da una pubblicità, sorriso accattivante, quando sorride, capello spettinato ad arte, sta lavorando. Per lui è solo lavoro. Ma per chi sta arrivando invece, sarà una serata speciale, lo sarà.

E la barca, regale con le vele che aspettavano placide e il pontile lucido “pensava al mare, non come ad un rivale, un luogo o un nemico, lo pensava al femminile… la luna lo fa reagire come una donna”.

Eccola la festeggiata, bella come un Uccello del Paradiso, vestita di aria e piume cobalto, con la sua amica che ruggisce in bianco, macchina fotografica e criniera d’oro. Sono arrivati gli ospiti, gli amici, quelli con cui condividere questa serata, proprio quelli con cui scatta la battuta al momento giusto, quelli per cui niente sarà un problema.

Il sole sta avvisando che è pronto a salutare la giornata e ci si muove. Si veleggia. La dolcezza della partenza, il tramonto che chiama e una brezza meravigliosa. Il mare, come la montagna, decide. E ha deciso di essere un po’ incazzato. Ma come? È un compleanno, dai, fai il bravo. Niente da fare, le vele si gonfiano e la barca si piega, nella sua danza fatta solo per il mare, per il tramonto. La barca, aveva ragione.

I visi sono un po’ tirati, non tutti. L’Uccello del Paradiso, saldamente ancorato, si lascia cullare, baciare dagli spruzzi, mentre l’amica viene sorpresa e la sua criniera si spegne. Impallidisce, non riesce a deglutire, non vede più il mare, il sole, gli altri. È una statua, lucente e immobile, è altrove. Non è paura, è terrore, è “chi me l’ha fatto fare”.

Ogni onda è una strega minacciosa, sembra parlarle, ma lei non parla, lei è radiante, forse si confonde col cielo fino al rientro al porto.

L’Uccello del Paradiso, come una Polena, domina lo scafo, irradia la sua aura cobalto che diventa porpora.

Sul molo, tutti si fermano, osservano, seguono il veliero che sembra arrivare da Atlantide, placido e magnetico. Ed è musica, musica nelle risate, musica nelle foto, musica nelle cabine che si riempiono e si svuotano, musica nei paccheri al pesce, nella frittura rubata dai piatti.

Il mondo, è dalla banchina in là.

Sulla barca di Atlantide scorrono alcool e ricordi, baci e abbracci sinceri. Dieci figure lievi mischiano la loro energia, ballano per la luna una danza salata, spettinata, bagnata.

Gocce di mare, gocce d’amore.

Svanirà il veliero al mattino, quando il sole diventerà alto e l’Uccello del Paradiso e i suoi amici scivoleranno via, senza fare rumore, come sono arrivati.

Resterà lo sciabordio dell’acqua e l’incanto di un riflesso indaco e oro.

Foto di edrick-krozendijk- Unsplash.

je t’aime

“Ah l’amour.”

Quando ho detto:”Cambiamo aria per qualche giorno?…”ero più orientata a un banalissimo pacchetto vacanze che a un’avventura da Capitani coraggiosi. E’ così che mi sono ritrovata a camminare sul pontile battuto da onde gigantesche, tra spruzzi salmastri e raffiche da tornado che mi hanno regalato l’aspetto di una statuina di pasta di sale.

Mentre lui respirava a pieni polmoni, io  imbalsamata anelavo una doccia calda, mentre lui osservava il volteggio degli uccelli, io pensavo a come proteggermi da un vento polare che neanche a Helsinki…

Ah l’amour. In fondo con lui andrei ovunque. Davvero.

Ma, quand’è troppo… Sparita la mia tendenza da Crocerossina paziente, spazzata via dall’Hurricane nell’aria piena di schiuma e spruzzi,  guardando il mare completamente bianco ho detto: BASTA COSI’. Molto bello tutto, affascinante, anche romantico ma TIME OUT! ORA SI VA ALLA SPA.

Se vuoi restare a giocare al Vecchio e il Mare ci vediamo più tardi.

Bilancio consuntivo: danni strutturali alla capigliatura, leggero torcicollo in aumento, un accenno di cinetosi e borsite alla caviglia sinistra.

E gli alberghi a 5 stelle sono ovunque.