Narcisista

Ho pubblicato un libro, il terzo. La decisione di condividerlo in un post mi ha sollevato alcune perplessità, dopo aver letto uno studio secondo cui “I 15 secondi di celebrità che molti cercano su Internet spesso assumono un tratto patologico fino ad un pericoloso esibizionismo.”

Ma non è in fondo quello che facciamo pubblicando quello che scriviamo?

Assistiamo a gare per aggiungere amici al proprio carnet col risultato di ottenere un numero di contatti ingestibile psicologicamente. Moltiplicare all’infinito la propria rete di relazioni sociali genera la malsana idea che, ogni potenziale gratificazione originata dalle relazioni umane, quali la visibilità, l’ascolto, l’attenzione, l’affetto, la protezione, dipendano dai numeri più che dalla intimità delle relazioni vissute.  Generare un aleatorio consenso sociale a dimostrazione della propria esistenza in vita. Devo aggiungere però che, da Narcisista, per quanto riguarda il marketing invece… i numeri sono importanti.

Inoltre, sempre in questo studio si affermava che, i Social Network Sites ,”sono delle piazze sociali dove i passanti non necessariamente si accorgono di quello che dici.”

E qui… il campanello d’allarme è diventato una sirena spiegata.

Quanti saranno quelli che leggono davvero quello che scrivo? Importa? A me, sicuramente sì.

Io seguo chi mi interessa, mi incuriosisce, mi può insegnare qualcosa.

Lo confesso, ho anche cercato di incoraggiare chi mostrava attimi di debolezza, come un urlo di aiuto, nascosto tra le righe di un post, ma questo è tutt’altro. Ho incontrato in questo Social, persone generose e persone egoiste, si evince, e non da quello che scrivono, ma da come interagiscono.

In fondo è solo un diario senza lucchetto, aperto, abbandonato su una panchina virtuale, chi vuole, può leggere, chi vuole.


Pandemia di odio

Cos’è che ci preoccupa? Sta iniziando l’inverno e si ricomincia a parlare di Covid.

Via, tutti a comprare mascherine.

< Eh, ma io, se vogliono farci fare un’altra vaccinazione, non la faccio.>

<Tanto è solo un’influenza un po’ più forte.>

Il ricordo atroce della Pandemia del 2020 sta svanendo, quel corteo di camion militari, carichi di bare ammassate, è nel passato.

Ma la Pandemia che dura da anni, quella che sembra davvero incurabile, spesso ignorata perché lontana da noi, ora é più che mai attuale: la Pandemia di odio. Palestina, Israele, Ucraina, Yemen, Mali, Armenia… Ne avvertiamo i sintomi? Abbiamo paura delle conseguenze? Certo.

Pensiamo di essere al sicuro, che questa peste rimarrà altrove, ma già si prendono contromisure. Si cerca di difendersi. Che altro potremmo fare? Come si può fermare la Pandemia di odio? É come un virus, anzi, peggio, perché miete vittime consapevolmente, segue un disegno, una strategia. Il virus, no.

Si può cercare un antidoto? Tutti diremmo che sta al singolo testimoniare, col suo comportamento, l’unica strada percorribile, quella della pace. La maggioranza s’inalbera, dichiara a gran voce il suo No alla guerra. Ma questo gene, presente in tutti gli esseri umani, la cattiveria, è assai più subdolo e tenace, pur non essendosi evoluto in migliaia di anni. È sempre lo stesso. Siamo sempre gli stessi.

A Gerusalemme convivono tre simboli religiosi, di tre religioni monoteiste: la Moschea di Al-Aqsa, sacra per i Musulmani; il Muro del Pianto, sacro agli Ebrei; la Basilica del Santo Sepolcro, sacra per i Cristiani.

Convivono i simboli, noi non ci riusciamo.


Crediti

Articolo liberamente tratto da un monologo di Maurizio Crozza: la Guerra.

Foto di Jason Leung da Unsplash

Vernice nera

Il bus che mi portava vicino al liceo partiva ogni mattina alle 06.30. Non era mai pieno di persone e faceva poche fermate, tra le quali, quella che più mi incuriosiva era quella del ponte.

Aspettavo di vederla salire, col suo soprabito da cui spuntavano gli stivali in vernice, a volte rossa, a volte bianca, ma i più belli erano in vernice nera.

Aveva terminato di lavorare.

Lei era soprannominata, dalle signore a bordo del bus, la Pontina.

Avevo 15 anni, abbastanza per sapere che non faceva l’operaia.

“Eccola la Pontina. Sembra contenta, mi sa che stanotte le é andata bene.”

Saliva col suo abbonamento, salutava l’autista che ricambiava, poi si sedeva con discrezione, sempre allo stesso posto, davanti. Rimaneva sempre libero quel posto, come se fosse riservato a lei. Mi ricordo che il primo giorno, il mio compagno di classe, mi aveva fatto alzare, dicendomi che lì non potevo mettermi.

La Pontina era una prostituta, per scelta. Non come oggi che, purtroppo, siamo soliti vedere ragazze evidentemente in carcere senza catene, minacciate da clan di mostri. Esistono anche quelle che lo fanno per scelta ma sono molto lontane dall’immagine della Pontina, e si fanno chiamare Escort.

La Pontina aveva lunghi capelli neri, non era più giovanissima e risaliva, quasi ogni mattina, la strada da sotto il ponte, arrancando, con la sua borsa. Quando abbassava un po’ il finestrino, perché allora si poteva, arrivava un profumo dolce, e si vedeva la sua chioma nera, muoversi nell’aria. Nessuno le rivolgeva la parola, lei si limitava a guardare fuori dal finestrino. Sapeva che tutti la stavano guardando.

Anch’io.

A quell’età, non ti fai domande complicate, sei forse anche un po’ sciocco e ti sorprendi a ridere per qualche battuta o commento su qualcosa che ancora non conosci.

Arrivava la sua fermata e lei scendeva, salutando. Il bus ripartiva e tutto tornava normale. Quel giorno però, di fianco al suo posto aveva dimenticato qualcosa, una foto. L’avevo vista, non sapevo che fare, poi, prima di scendere, avevo deciso di prenderla e darla all’autista. Il passaggio veloce dalle mie mani alle sue e vedo lei, la Pontina, abbracciata a due ragazzi, uno le somigliava molto, sicuramente i suoi figli. Era una foto bella, normale, una famiglia normale. Anche gli stivali in vernice nera sembravano normali.

L’ho incontrata per molto tempo la Pontina, sono passati alcuni anni, finché un giorno non l’abbiamo più vista. Le illazioni sul perché si sono moltiplicate, la curiosità spingeva le signore addirittura a chiedere notizie all’autista, che non sapeva niente. Io mi immaginavo che Fellini l’avesse vista per inserirla nel cast qualche suo film, la vedevo scuotere la chioma e, col rossetto rosso fuoco, un po’ sbavato, scoppiare in fragorose risate. Poi, pensavo invece che forse ora stava con i suoi figli, che aveva smesso ed era andata in pensione, senza colleghi da salutare, senza festa d’addio, ed era lontano, lontano da tutto questo.

Spero sia stato così.


Foto di Carol Oliver da Unsplash

Succede

Piove. Succede.

Esci di casa comunque, impavida, vestita a strati perché la stagione non perdona. Sfidi la giornata con maglietta e pantaloni leggeri, ma ti corazzi con un trench impermeabile. con cappuccio. Ombrello, sneakers bianche. Perché bianche? Ti va di avere un tocco di luce, almeno sui piedi.

E via, fuori, a respirare.

Nonostante il cielo nero, cumuli nembi in lontananza che si muovono lenti, i raggi del sole, a volte, riescono a bucare le nuvole, squarciare, se pur per un attimo, il grigiore, e appaiono i colori. Le foglie d’acero rosso fuoco, il verde brillante delle siepi che aspettano la potatura, addirittura l’asfalto brilla. Ombrello chiuso, la pioggia ha smesso, solo qualche goccia che arriva portata dal vento. Le panchine sono bagnate, schivi le pozzanghere mentre il panorama cambia, dal grigio metallico invernale al luminoso riflesso di un settembre che non cede ancora all’arrivo dell’autunno.

Ora fa caldo, sarà perché l’umidità non dà tregua. Togliamoci lo spolverino.

La vita è fatta di attimi, alcuni sembrano proprio coincidenze ineluttabili.

Scroscio d’acqua sporca, laterale, direttamente dalla pozzanghera a lato del marciapiede. La macchina che è appena sfrecciata in quella pozza, si allontana lasciandoti così. Gocce grigie e marroni maculano i tuoi pantaloni e le scarpe, scendono lente dal braccio fino a terra.

Un attimo. É stato un attimo, ineluttabile.

Succede.

Non emetti suoni, osservi solo. Che alternativa avresti? Il colpevole è sparito, dileguato. le persone ti passano di fianco, schivandoti.

Di nuovo, il sole spacca le nubi, raggi come tante frecce luminose che arrivano a terra.

Ci vuole un caffè. Macchiato.


Jams

Il jet lag comanda, almeno il primo giorno. Dopo aver aspettato che il sole schiarisse, almeno un po’, la parte alta delle facciate dei grattacieli, eccoti a passeggiare, o meglio, schivare una miriade di persone che camminano veloce, quasi correndo verso il posto di lavoro. Escono dalle fermate delle metropolitane come fiumi ordinati, non si toccano, non si parlano, sembrano sempre in ritardo.

Ma tu non hai fretta, se non fosse per il tuo stomaco che reclama, prenderesti anche tu un caffè al volo e ti confonderesti tra la folla.

I negozi stanno per aprire, le luci sono accese e all’interno, c’è un gran via vai di commessi, vetrinisti. Ti fermi davanti ad una vetrina di Bloomingdale’s, semicoperta da un telo. Sbirci col naso quasi appoggiato al vetro, i soliti manichini che sembrano seccati, si lasciano sistemare con lo sguardo perso in un certo snobismo. Uno ti sta fissando. Guardi meglio, non è un manichino, è un ragazzo, vestito di nero, dai capelli spettinati ad arte, gli occhi a mandorla e delle belle mani dalle dita lunghissime, con lo smalto nero. Una catena al posto della cintura manda bagliori ogni volta che si muove. Se rimanesse immobile, tra i manichini, nessuno se ne accorgerebbe. Ma a New York niente rimane immobile.

Quindi, neanche tu.

La Grand Central Station è lontana, un po’ troppo per andarci a piedi, a stomaco vuoto. Metro o taxi? Taxi. Ti volti e vedi che tre persone stanno già col braccio alzato, in attesa, conviene spostarsi un po’. Schivi un tombino fumante, passi davanti ad una Nail Spa, già piena di signore che parlano al telefono, sembrano avere i minuti contati.

Troppo stress appena sveglia.

La corsa in taxi è un rally, un po’ in inglese, un po’ in indi. L’autista ha perso la proverbiale calma dei suoi connazionali, si è integrato con la modalità efficienza, tic, tac, tic, tac. E ti lascia all’incrocio. Meglio. Chiudere lo sportello e vederlo sfrecciare verso il nuovo cliente, è un attimo.

Anche qui tanta gente e, controcorrente, raggiungi l’entrata della Grand Central, ed è come entrare nella caverna di Ali Babà.

La rush hour è passata, il gigantesco orologio segna le 09.25, la luce è morbida, cerchi il piccolo buco vicino alla costellazione dei pesci dipinta sul soffitto, sopra a viaggiatori che si muovono senza ansia e a un monaco seduto in meditazione, immobile come una statua sul pavimento in marmo.

Ecco la tua meta, il tuo coffee shop, piccolo, pulito, elegante, come sempre affollato di business men/women, che parlano sottovoce. Arriva il caffè, lungo e profumato e il solito breakfast, col bacon più croccante di Manhattan, il pane di segale tostato, il bagel e la selezione di jams, marmalade e honey.

Bene. La giornata può cominciare.


Foto di Rodolfo Cuadros da Unsplash

R: rosa, rosso, rapace

Oggi c’è un po’ di sole, il cielo è velato da nubi che sembrano zucchero filato, un po’ rosa, un po’ azzurro. Vestita per andare a scuola, soppesa lo zaino nuovo, è un bel carico ma non importa, oggi è il primo giorno di scuola. Esce di casa, si sente bella, sarà la curiosità di rivedere i compagni dopo l’estate, sarà che è l’ultimo anno di liceo, oggi, è bella. È partita presto e cammina calma, guardandosi riflessa nelle vetrine. Si ferma e si fa un selfie, il suo sorriso, il suo vestitino nuovo, un po’ di trucco e i capelli che profumano.

C’è tempo. Passerò per il parco.

Che meraviglia, in tutto quel verde, ascoltando Cosmic Love dalle cuffiette del telefono, ferma, sul sentiero, con gli occhi chiusi.

… A falling star fell from your heart

and landed in my eyes…

Due braccia, una mano sulla bocca, qualcosa di forte e terribile la solleva e la trascina via. La lancia oltre la siepe e la blocca a terra, afferra la sua testa e la sbatte più volte sul prato. Un pugno violento in pieno viso le blocca la voce, l’urlo che rimane in gola. Ed è schiacciata al suolo, senza respiro, i capelli coperti di foglie e sangue. Uno strappo e poi, solo dolore, atroce, sconosciuto, profondo e senza fine. Umori fetidi, vomito che vorrebbe esplodere, si agita come un pupazzo, come un piccolo ragno schiacciato da una pietra.

Ed è finito.

Tutto.

È per terra, la sua figura esile, tremante e immobile, le gambe aperte e graffiate, le braccia lungo il corpo, senza forze.

Non ha più un corpo.

Le cola il sangue su un occhio mentre fissa il cielo, non ha più un corpo. Le nuvole di zucchero filato si muovono là in alto. sopra di lei, lontano.

… I screamed aloud

the stars, the moon

they have all been blown out

(you left me in the dark)…


Foto di Erol Ahmed da Unsplash

Passione

Vola il vestito, le balze come onde che accarezzano l’aria. Sul palco le luci passano tra i ballerini e il faro punta Lei, esile come fenicottero rosa acceso, pronto a volare.

Un flamenco che parte lento e sinuoso, i passi avanzano, le braccia disegnano i pensieri. All’improvviso le mani danno il tempo, in un ritmo crescente che cattura i battiti dei cuori.

Stop.

Buio.

Il faro di luce si riaccende su Lui, di schiena, teso come un toro che annusa l’aria e che, lentamente, si gira puntando un piede. Cambiano i colori, la tensione, il ritmo dei battiti delle mani che piano piano aumenta.

Lui e Lei.

Non sono loro ad essere protagonisti, è la sensualità che ne prende possesso. Una danza lenta, di sguardi e posture, giravolte che si sfiorano, petti gonfi. Il toro batte un piede. Lei, sinuosa, è persa nel suo vortice, sparisce e riappare tra i volant, come una fiamma in movimento.

Sono animali che si studiano, sono amanti che giocano. Il ritmo incalza, battono i piedi entrambi, cola il sudore e i visi si scaldano. Sono ovunque e da nessuna parte, si avvicinano e si allontanano, quasi sfidandosi, i loro capelli si toccano appena ma ormai sembrano una cosa sola.

Rosa acceso e nero, sangue e pietra, graffi di passione scanditi dall’incessante pestare dei tacchi sul palcoscenico, in un crescendo che cattura, arriva fino alle sedie, alle schiene di chi li sta osservando. E siamo là, in quel momento, proprio quando esplode e, di colpo, si ferma tutto.

Giusto il tempo di capire, di tornare a terra, e parte l’applauso, guardando il palco e le due figure sfinite, spettinate, palpitanti.

C’è stato un vincitore in quell’arena? Qualcuno voleva vincere?

Un gioco, era un gioco, come dovrebbe essere la vita. E le luci si spengono.


Foto di Dolo Iglesias da Unsplash

Amabile nulla

Amabile. Lei era così, glielo dicevano spesso.

Era quel tipo di persona che passa inosservata, mai sopra le righe, forse un po’ solitaria. La sua casa era in ordine, sempre. Non un granello di polvere, non un cuscino fuori posto, anche le tende, immacolate, erano immobili, a piombo, perfette. Una vita in discesa la sua, famiglia normale, nessuna eccellenza negli studi, laurea conseguita nei tempi e il lavoro era arrivato facile, grazie al papà, in uno studio di architettura. Niente di più, niente di meno.

Si era svegliata come ogni giorno, da quattro anni, alle 06.15, ed era scesa dal letto col piede destro, sempre lo stesso piede. Una routine di gesti ed abitudini, dall’accendere il bollitore dell’acqua, al fumare la prima sigaretta davanti alla finestra, ancora in pigiama. Il cielo era azzurro, i palazzi di fronte sembravano deserti, un silenzio reboante. Quella notte aveva dormito male, per l’ennesima volta le avevano chiesto di passare un progetto ad un altro collega. Per l’ennesima volta lo aveva aiutato.

“Sei davvero amabile.”

Era amabile quando le amiche le davano buca, quando tutti potevano contare su di lei, quando non disturbava, quando non esisteva.

Era lunedì.

Lunedì: pantaloni e camicia, scarpe e borsa abbinate. Tazza lavata e asciugata, tapparelle abbassate, chiavi di casa e il rumore del portone che si chiude. Rimbomba un attimo nella tromba delle scale, solo un attimo.

Uscendo dal palazzo il vento le gonfia i capelli e la camicia, mentre le sembra di camminare a fatica, come se affondasse nella ghiaia, fino al cancello. Era già arrivata alla metro, non le era chiaro quale tragitto avesse fatto, sicuramente sempre lo stesso, ma non si era fermata al bar. Forse sì.

Non le importava, stava aspettando, nell’aria stantia, tra tante persone che parlavano, ma non sentiva. Stava aspettando sulla linea gialla. Una donna, né giovane, né vecchia le si piazza davanti.

Sei amabile.

Arriva l’aria che precede il rumore e quell’odore acre di metallo e cemento, poi, le luci della metro. É quasi lì.

Le sue mani si alzano lentamente e spinge, forte, la schiena che ha davanti a se. Urla, braccia che la braccano, schizzi di sangue ovunque, l’orrore negli occhi delle persone, lo sgomento.

Silenzio, fate silenzio, fatemi spazio, non vi vedo. Non vi sento.


Foto di Alexander Grey da Unsplash

Juno è NEL mondo

Tensione, mani sudate, bocca asciutta. Forse ci siamo. Anzi, no, è ancora presto.

Erano arrivati da qualche ora, ma prima di loro, erano arrivati i loro cuori, i battiti veloci, l’entusiasmo e il terrore.

Ora che sono nella sala parto, lei accarezza la pancia, lui accarezza lei, mentre la luce sembra diversa, morbida, i neon non disturbano più, l’aria è immobile, le ombre invece si muovono veloci. Gesti sapienti che guidano, posizionano, preparano attrezzi chirurgici.

Ma lei si sta staccando da tutti, è connessa con se stessa e con quella parte di lei che presto la cercherà, la riconoscerà senza vederla.

Ed è dolore, profondo e infinito, mai provato. É emozione, paura, voglia che finisca, mentre lui fa le foto, le tiene la mano, ma quando il dolore diventa atroce lei vorrebbe morderla quella mano. Cerca di non urlare ma non comanda più lei, ora è il suo corpo che detta legge, che impone i tempi. La natura ha il sopravvento, la violenza che strappa, che non si ferma.

Come un tubo dell’acqua che esplode, un’onda fragorosa, ecco ripetersi il miracolo. Juno è fuori, al mondo.

Lui taglia il cordone ombelicale e Juno avvisa tutti a squarciagola, fino a che, nelle braccia di lei, avverte di essere al sicuro.

Per le ombre intorno è routine, per loro è Juno. Benvenuta NEL mondo.


Foto di charles deluvio da Unsplash

alone and beyond

Un piccolo passo, poi un altro. Con la maglietta rossa e un bel cappello di paglia, appoggiato ad un girello, procedeva fragile, sul marciapiedi, fermandosi di tanto in tanto per riprendere un po’ di forza. Alzava lo sguardo dal grigio dell’asfalto, da quell’attrezzo, sua armatura e destriero, verso il cielo. Il tragitto da casa al bar era un percorso lungo e faticoso che faceva ogni mattina da solo, dopo essersi preparato con cura, pettinato e vestito come ogni giorno, guardandosi allo specchio, senza occhiali.

Aveva quasi 90 anni ma ancora ci vedeva bene, era il resto del corpo che non rispondeva più come un tempo. Ma quando si svegliava, dopo essersi fatto il caffè, mentre raggiungeva il bagno lentamente, gli capitava di avere dei flash, di ricordarsi com’era sentirsi agili e forti, di quanto era tutto più semplice. Si era invece scordato quando era cominciato il decadimento, forse perché non c’era stato un vero e proprio inizio, era accaduto e basta, come succede per lo scorrere delle stagioni.

Non amava rimuginare, non sarebbe servito niente e quindi, ogni giorno, se il tempo lo consentiva, prendeva le sue gambe di metallo e usciva, sempre in ordine, col suo cappello. Fino a poco tempo prima era riuscito anche a fare la spesa ma aveva dovuto rinunciare e accontentarsi di percorrere il lungo tragitto da casa sua al bar, dove lo aspettava il suo tavolino in un angolo comodo.

Qualche parola scambiata con le signore che passavano ogni giorno e che salutava come un cavaliere d’altri tempi, le solite risposte al cameriere gentile che gli portava il suo caffè macchiato caldo. Nei giorni dispari arrivavano alcune sue vecchie conoscenze e lo invitavano a giocare a carte, non oggi.

I ricordi riapparirono vedendo gonfiarsi il tendone del bar, come una vela spiegata e, chiudendo gli occhi, rivide le onde fragorose e minacciose che conosceva bene. Avrebbe voluto raccontare di quando aveva fatto il mozzo su una nave per sette anni, per poi rimanere fino a diventare Comandante. Avrebbe voluto raccontare dei posti che aveva visitato e delle persone che aveva conosciuto, del suo equipaggio, le lunghe ore passate a chiacchierare, andando poi a recuperare chi si era perso nei bar dell’Havana, troppo ubriaco per ritrovare la strada. Gli sarebbe piaciuto narrare la sua vita a chi passava, camminando veloce, sempre di fretta, e portarlo per un attimo con sé, nei suoi ricordi del profumo della pelle di amori travolgenti, di giuramenti mai rispettati o dei rimpianti che spaccavano il cuore davanti alle albe in pieno oceano. Quanto avrebbe voluto descrivere le fughe dai pirati che apparivano dal nulla, nei mari delle coste africane, i colori sgargianti delle stoffe barattate con il pesce, le nottate senza fine, di guardia, aspettando che il destino decidesse con quanta forza li avrebbe messi alla prova.

Gli anni erano volati, scanditi dalle stagioni e dalle rotte. Avrebbe potuto disegnare la sua vita su un mappamondo, con un pennarello che avrebbe alla fine ricoperto tutti gli oceani e toccato tutti i continenti.

Non c’era nessuno a cui raccontare tutto ciò, nessuno che fosse interessato ad ascoltare. Per il mondo era solo un vecchio che aveva lavorato su una nave.

Ma oggi, la nostalgia aveva lasciato il posto ad un sorriso, il vento era così forte da avergli strappato il cappello e scompigliato i capelli, sopra quello sguardo azzurro, profondo e lontano. Le nuvole correvano veloci e il sole appariva e spariva.

“Ecco, Comandante!”

Il giovane cameriere gli aveva riportato il cappello ma lui, al comando, le mani salde sul timone, a occhi chiusi sapeva bene cosa fare, vedeva la rotta, vedeva i gabbiani che seguivano la barca, e il mare.

Il Comandante, era salpato, e stava navigando.


foto di Daniil Silantev da unsplash

Dove la polvere profuma d’incenso (parte 2)

Salirono verso la Fortezza circondati da turisti a dorso di elefante, accaldati e dondolanti.

Appena scesa dal taxi le sembrò che la temperatura fosse più accettabile, forse per la frescura del lago in fondo alla valle. Camminò parecchio, salì e scese scale, si perse tra appartamenti con i soffitti a specchio, statue, decorazioni in avorio e profumo di sandalo. Poi, sbucò proprio davanti a un piccolo tempio in marmo bianco, circondato da pepli arancione come coni rovesciati, sulla cui sommità spuntavano teste rasate. Sembravano in preghiera e si diresse verso un muretto per sedersi e non disturbare, tra altri visitatori intenti a fare foto.

Un monaco le si avvicinò e le chiese se era lì per il Siddhānta Veda. Non sapeva di cosa si trattasse, non chiese, rispose solo sì. Venne così accompagnata in un angolo alle spalle del tempio, e invitata ad accomodarsi sotto ad una tenda rossa dove, seduto su delle stuoie, tra incensi, Aksamālā e Japamālā, era seduto un vecchio assorto.

La tenda si chiuse, il vecchio alzò lo sguardo, brillante, intenso, sereno. Non parlava inglese ma le fece capire che le avrebbe letto l’iride. Si avvicinò fissandola negli occhi stanchi, e cominciò a scrivere su un taccuino. Segnava date, disegnava righe e, di fianco ad alcuni periodi, scriveva qualcosa.

Non riusciva a vedere, era spossata, assetata, ma rimaneva immobile in quella condizione surreale, col sottofondo dei monaci in preghiera, l’aroma forte dell’incenso e quel vecchio che ogni tanto alzava il viso fissandola, scrutando nel profondo del suo sguardo. Talvolta sorrideva, gli sorridevano anche gli occhi, e spesso si fermava ad osservarla a lungo, spostando il viso leggermente da un lato all’altro. Parlava in indi, con calma, come se lei fosse stata in grado di capire. Poi, strappò il foglietto, lo piegò e glielo consegnò a mani giunte.

Lei raccolse quel pezzo di carta dalle sue mani, lo guardò, sperando di poter chiedere qualcosa, ma la tenda si aprì, lasciando entrare la luce ancora forte del pomeriggio. Guardò il vecchio, quegli occhi neri incastonati tra rughe profonde, e solo allora si rese conto della magrezza impressionante, delle braccia scheletriche, dei piedi lunghi e affusolati, attorcigliati intorno alle cosce. Non sapendo cosa fare gli sorrise, salutò con le mani alla fronte e, a fatica, uscì dalla tenda.

C’era un contenitore con dell’acqua all’entrata del tempio, e ci affondò le mani, passando un po’ d’acqua sul viso, poi, si tolse le scarpe ed entrò. Nuovamente seduta, in un angolo, mentre i devoti stavano portando offerte, aprì il foglietto e scrutò le date scritte, partendo da quelle appartenenti al passato. Erano date precise, anni che ricordava molto bene e in cui erano accaduti eventi che avevano cambiato in qualche modo il corso della sua esistenza. C’erano dei simboli, delle stelle, delle linee, alcune date erano collegate ad altre nel futuro, a ciò che doveva ancora accadere.

Affascinante e criptico allo stesso tempo. Una mano le sfiorò la spalla, era il giovane monaco che l’aveva accompagnata. Pensò di dover lasciare un’offerta, che stupida, non ci aveva pensato. Invece no, il monaco le consegnò un Japamālā, dono del vecchio, per protezione e preghiera. Corse fuori per ringraziare ma era sparito, non c’era più neanche la tenda.

Le restavano solo quel foglietto ingiallito, quel rosario e il canto dei mantra, più di quanto avesse sperato.

Parte 1


foto di Priyash Vasava da unsplash

Dove la polvere profuma d’incenso (parte 1)

Il viaggio era stato lungo e ora le sembrava di essere arrivata da molto tempo.

Dopo anni aveva deciso di tornare nel Rajasthan e si era fermata a Jaipur. Faceva caldo, quel caldo umido misto allo smog di un traffico incessante e lento, intervallato dal suono continuo dei clacson. Stava ammirando il Palazzo dei Venti, un macramè rosa di finestre che avevano nei secoli protetto le donne anziane della corte, intente ad osservare dall’alto la vita al di fuori.

Decise di salire sulla cima  del Chandra Mahal in cerca di u po’ di aria e, perdendosi tra i tappeti e i tessuti preziosi, si affacciò per ammirare la città al di sotto, il brulicare di vita, l’osservatorio astronomico, il Jantar Mantar. Si ricordava che ne esistevano ben cinque in India, il cui scopo principale era quello di predire il futuro. Astronomia e Astrologia erano saldamente connesse. L’Astrologia era considerata al pari di una scienza e insegnata all’Università.

Scendere di nuovo tra la folla e perdersi nel Bazar le procurò una sorta di stordimento, dovuto al jet lag e, soprattutto, al suo bisogno di silenzio, ma non era certo il luogo adatto. Le sete, cercava le sete, camminando senza fretta tra banchi stipati e mani che la invitavano a vedere la mercanzia. Ala fine, rapita dai colori di due stole impalpabili, si fermò da una signora dolcissima e, senza perdere troppo tempo in contrattazioni, le acquistò. Le era piaciuta quella signora dalla lunga treccia nera e lucida, i modi delicati. Decise di chiederle dove poter avere un consulto astrologico. La richiesta le uscì di getto, come se fosse la cosa più normale del mondo, come se le avesse chiesto l’indirizzo di un ristorante vegetariano.

E la signora le rispose.

Ed eccola su un taxi, col finestrino quasi chiuso, assalita ad ogni stop da bambini che chiedevano soldi, caramelle, qualsiasi cosa, pur di avere qualcosa. Venti minuti per raggiungere Amber e il suo Palazzo Fortezza, che custodiva all’interno due piccoli templi dedicati a Kali e Sila Devi. In quest’ultimo, secondo le indicazioni della signora, avrebbe potuto trovare qualche monaco esperto in grado di soddisfare la sua curiosità.

…segue ( parte 2)


foto di Souvik Laha da unsplah

Sovrappopolamento e Universo 25

Siamo in tanti. Più di 8 miliardi di persone su questo pianeta, e ci stiamo già stretti. La rabbia, le rivolte, le tensioni incontrollate che stanno aumentando e di cui leggiamo o ascoltiamo, sono sicuramente scatenate da problemi irrisolti o troppo spesso ignorati ma, alla base di tutto questo, volendo analizzare il contesto, non credete che la sovrappopolazione umana sia spesso il detonatore di tanta violenza?

Nel 1968, lo scienziato John Calhoun, fece un esperimento, Universo 25, proprio per verificare, con i topi, come potesse incidere l’aumento della popolazione nell’evoluzione del comportamento.

Ebbene, lo scienziato aveva predisposto una situazione di benessere per non creare stress, in cui la comunità di topi viveva serenamente, in uno spazio adeguato, senza nessun predatore, con cibo in abbondanza e nessuna preoccupazione.

Nel giro di un anno e mezzo, lo spazio destinato era affollato al punto che gli atteggiamenti dei topi erano cambiati, esprimendo violenza, cannibalismo (anche se non mancava il cibo), pansessualismo. Non mancava il sostentamento, gli spazi erano ridotti ma, soprattutto, essendo in tanti, erano venuti a mancare i ruoli sociali per tutti. Solo chi si isolava non veniva coinvolto.

In pochi anni, oltre al crollo delle nascite, si assistette all’annientamento dell’intera colonia, fino all’ultimo topo.

John Calhoun era giunto alla conclusione che, non importa quanto l’uomo pensi di essere sofisticato, quando mancano i ruoli sociali da impiegare per tutti, il sistema collassa.

Le ultime proiezioni della Nazioni Unite prevedono il raggiungimento di un picco di circa 10,4 miliardi di persone intorno al 2080.

Fondamentalmente è la ricerca di lavoro che spinge a concentrarsi nei centri urbani, più o meno grandi, ed è già una lotta, in macchina, nelle metropolitane, autobus, treni, nei condomini. La mancanza di lavoro e quindi di un ruolo sociale, fa il resto.

Io, rimango positiva sulle capacità dell’essere umano di adattarsi ai nuovi scenari. Certo, i cambiamenti non si accettano mai volentieri, si è spaventati, ma l’evoluzione, l’utilizzo delle tecnologie digitali in questa nuova economia globale, devono puntare al miglioramento della qualità della vita.

Dipende da noi.

Dipende da noi essere parte attiva, avere il coraggio di spostarsi, di cambiare, di accettare il diverso e modificare, se necessario, il proprio stile di vita.

Lo spazio c’è, tolte l’Asia e l’Africa, che totalizzano più di 6 miliardi di abitanti, nel resto del pianeta c’è spazio, per tutti. Nessuno ha mai pensato di andare in Oceania o in Polinesia? Un proverbio polinesiano la dice lunga: “C’è un tempo per essere albero e un tempo per essere piroga”, entrambi dela stessa materia, ma uno sedentario, l’altro in movimento.

Io ho viaggiato e vissuto all’estero quasi due terzi della mia vita. Sono scelte, a volte è difficile lasciare il certo per l’incerto ma tutto sta nella motivazione e nell’essere pronti ad affrontare l’incognito. C’è spazio, per gli essere umani e, soprattutto, per allargare la mente, ascoltare e imparare.

“Rivolgi il tuo viso verso il sole, le ombre resteranno alle tue spalle”. (Insieme ai topi).


foto di goashape – unsplah

Una vita a piedi nudi

Faby, 1,36 cm di altezza, sogna una vita a piedi nudi.

É giovane Faby, ed è nata con una sindrome incurabile, la Disostosi Cleidocranica, che non le ha permesso una crescita dell’apparato scheletrico normale. Ma ride, Faby, spiega i suoi trucchetti per affrontare questo mondo: solette, zeppe, tacchi alti anche 17/20 cm, nascosti da abiti lunghi. E poi, cuscini per poter guidare, interruttori della luce posizionati in basso…

Lei che vede in rosa, lei che si è operata per poter arrivare ad almeno 1, 44 cm, lei che sa cosa significa vivere in un mondo a misura 1,60cm almeno, si sente fortunata perché è carina, proporzionata e, soprattutto, amata. La prima bicicletta comprata, più piccola, così diversa da quella degli altri bambini, non le scatena ricordi di imbarazzo, vergogna o dolore (che probabilmente avrà provato), ma quasi di tenerezza.

Dopo una vita dietro ai tacchi, baluardo necessario per poter essere il più possibile indipendente, ora sta affrontando la dolorosa fisioterapia dopo l’operazione che non è riuscita perfettamente, lasciandole una gamba leggermente più corta. L’aspetta un altro intervento. Ma sa che ce la farà. Ce l’ha già fatta.

Eppure, questo mondo ora impegnato a preparare valigie per le vacanze, scrutando il tempo, innervosendosi per un ritardo del treno o dell’aereo, non lo sa. E quando sarà sulla spiaggia o su un prato, camminando a piedi nudi, non proverà la stessa gioia di Faby. Tutti abbiamo il nostro personale pezzettino di inferno, qualcuno ci convive da sempre.

Ma io la vedo Faby, affondare i piedi sul bagnasciuga, ancora più alta di quel 1,44 cm, una silfide leggera che levita sui litigi per l’ombra, per i granelli di sabbia lanciati con un pallone. Lei sorride sulle piccinerie umane, sulle nostre debolezze ed i commenti cattivi o superficiali. Lei, è altissima.


Foto di Louisa Potter da Unsplash

Video da TIK TOK- Faby

Cuore livido

Non è necessario essere perfetti per tutti. Basta essere speciali per qualcuno.

Si era alzata, accaldata, dopo una notte scandita da docce fredde e lotte col ventilatore posizionato verso la parete, alla ricerca di un refolo seppur meccanico. Proprio nel momento più bello, quando l’aria cominciava ad entrare attraverso la zanzariera, quasi fresca, l’aria delle quattro del mattino, si era svegliata. Non c’era stato verso di riaddormentarsi, mindfulness e meditazione non avevano sortito alcun effetto, la mente tornava a giocare, come un bambino iperattivo, senza sosta.

Smetti di pensare, smetti di pensare, smetti di pensare.

Smetti di pensare che le persone o qualcuno in particolare debba capirti. Solo tu lo sai quanto hai pianto, quanto hai dovuto faticare, quanto hai lottato pensando di non farcela. E ancora non è detto. Solo tu conosci i tuoi pensieri delle quattro di mattina. Vale così per tutti, perché dovresti essere diversa?

La schiena le faceva male, le cicale stavano dormendo, almeno loro. Il silenzio, l’aria ferma, il cielo che ancora non cambiava colore, tutta quella calma, calma apparente, come prima di una tempesta, la stava turbando. Camminava tra le stanze buie, calde, girava intorno al tavolo e ritornava in salone. Si era tolta le ciabatte per sentire il fresco del pavimento e dopo un po’ si sedette ad osservare la pianta dei piedi. Notò un po’ di polvere, poca ma fastidiosa, e andò in bagno. Doccia fresca, la terza o quarta della nottata, prima in piedi poi, lentamente, accovacciata a terra, lasciandosi colpire dalle gocce come in un temporale. Gocce d’acqua che si mischiavano alle lacrime calde.

Ma quando arriva il giorno?

Si asciugò tamponando un po’ la pelle, per prolungare la sensazione di fresco, poi, andò allo specchio.

Eccoti, oggi è il primo giorno. Hai deciso di fare il primo passo per cambiare e ti stai allontanando.

Cominciava ad arrivare la luce dall’esterno, un’alba lattiginosa che lentamente fece apparire il suo viso, le sue occhiaia, i punti di sutura sul sopracciglio e i lividi sulle braccia.

Basta essere speciali per qualcuno.

Ce n’era voluta di forza per capire di non essere speciale, per lui. Il cuore batteva forte, un misto di paura e terrore, insicurezza e solitudine. Fuori il mondo stava aprendo gli occhi, sicuramente anche lui si sarebbe svegliato tra poco.

Aprì l’armadietto, prese i vestiti e il borsone che aveva preparato il giorno prima. Era tardi, era già tardi? Si vestì in fretta e in silenzio, come un ladro, prese le scarpe e in punta di piedi raggiunse la porta di casa.

Nell’ascensore, guardandosi allo specchio, le sembrò di ricordarsi com’era stata, dietro quei segni, quelle vili botte sulla pancia e sulla schiena, quegli occhi pesti e spenti. Anche il suo cuore era livido.

Non sapeva dove sarebbe andata, se ne era andata.


Foto di Olivier Collet da Unsplah

Sensorium Dei

Il tempo, è un’illusione? Come sabbia fine che scende in una clessidra, esiste come realtà in divenire strettamente connessa con lo spazio, flusso. Sarà questa giornata dal cielo coperto che minaccia temporali estivi, tuonando in lontananza, e che ha fatto riempire i caffè di persone uscite a rinfrescarsi un po’, sarà a causa di questa elettricità nell’aria che mi attraversa, ricordandomi che siamo qualcosa di più di semplici individui su una superstrada, a senso unico, impegnati a sorpassarci mentre ci dimentichiamo di fermarci di tanto in tanto, che si materializza nella mia mente la visione di una linea di mezzeria, continua, interrotta solo raramente, a ricordarci che ci possiamo fermare.

Possiamo fermarci e mangiare un panino, sul cofano della macchina, occhi negli occhi.

Passa un gruppo di ragazzi con degli strumenti musicali protetti dalle custodie. A quell’età il tempo ha un’altra unità di misura, è scandito da sogni, delusioni, tempeste ormonali, l’orologio non ha lancette.

Poi, di colpo, le lancette appaiono e, col tempo, ecco i minuti, le ore, i giorni, gli anni.

Quanto tempo sprecato?

L’unico spreco che vorrei recuperare, come il pane avanzato e buttato via, è legato alla leggerezza con cui ho vissuto la certezza che i cambiamenti dipendessero solo da me. Ma forse, forse, non c’era altro modo.

Errori, dolori, gioie, speranze, lasciano segni sui calendari appesi o nei diari, nelle foto, nella mente.

Attimi preziosi, cristallizzati nella nostalgia crudele o nel ricordo di risate di pancia, che pizzicano gli occhi ed esplodono nelle viscere dolenti.

I ragazzi si sono fermati sotto una pensilina, stanno aspettando l’autobus ed uno apre la custodia, prende un archetto. Dopo qualche prova di accordatura, inizia il suo concerto, giovane Konzertmeister. Arrivano le note di un Allegro di Bach, come se il vento le seguisse, trasportando le foglie nell’aria, scompigliando i capelli delle signore sedute, passando tra le sedie, sui tavolini, zampettando sulla schiuma dei cappuccini. I cuori, il mio cuore, segue i battiti dettati dalle note, ed è magia.

Fermati tempo, Fermati e ascolta.


foto di Adrien king da Unsplash

“Mia piccola pussola…”

Ci siamo! Forse quelli un po’ più grandi si ricorderanno di questo cartone animato, Pepé la puzzola che parla con accento francese, Innamorato di una gattina, passata incautamente sotto un pennello di vernice bianca che le aveva lasciato la tipica striscia sulla schiena delle puzzole. E lei, non sa come sfuggire l’innamorato puzzolente.

Ora, proiettandoci sul presente, direi che il problema, viste le temperature, è più che mai attuale.
Sei all’aperto, già provata dai roventi raggi del sole, ma non importa, ti godi l’estate. Eppure, la minaccia che non perdona, il sudore, quella normale fisiologica risposta del nostro organismo, può tramutarsi in un arma letale.
E succede.
Mentre passeggi, cercando l’ombra e un’inesistente corrente d’aria, persa nei tuoi pensieri, arriva, inaspettata come un temporale estivo, la zaffata mefistofelica.
Nessuno davanti a te.

Da dove arriva? Sarò io? IMPOSSIBILE. Potrei essere pronta per eseguire un’operazione a cuore aperto, sono sempre sotto la doccia, il sapone è il mio secondo migliore amico. (Il primo è il mio amore).

Allora?
Allora mi giro e, proprio dietro di me, sta passeggiando una coppia, a braccetto, di mezza età. ( Questa cosa della mezza età mi lascia sempre un po’ di interrogativi).
La corrente d’aria inesistente di cui sopra, si è materializzata, come il fumo della Lampada di Aladino, giusto il tempo di far giungere fino al mio olfatto, gli effluvi di ascelle dimenticate e che hanno macerato a lungo nelle maniche della maglietta.
Accelero ma mi segue, mi avvolge, penetra nelle narici fino a pizzicare. Eh, no! Pietà. Attraverso. Fuggo.
E sono fuori dall’Ade, sull’altra sponda.
Mia piccola Pussola… MA non ti annusi? Questo non è normale sudorazione, un po’ forte, questo è afrore, da caccia ai leoni in Africa, da minatore emerso dopo lunghe ore di estenuante lavoro intrappolato sottoterra.

Acqua! Non sentì la necessità di lavarti? Ti butterei nella fontana, con l’amuchina.
Ma per te stesso, in primis, per la persona che ti accompagna e che ha un’evidente pericolosa assuefazione, e per tutti gli altri, che pur non coprendosi di profumi( meno male), emanano solo il proprio personale odore, pulito.
Il rispetto per gli altri passa attraverso il rispetto per se stessi.

E il sapone.

Abbi pietà. E lavati.


Forse sì, forse no.

Oggi sono pronta.
Era arrivata la data fatidica, quella decisa e segnata sul calendario. La sera prima aveva fumato come le ciminiere del Titanic. Ora, era pronta.

La sigaretta elettronica sul tavolo, ancora impacchettata, vicino alla tazzina che aspetta il caffè. Anche lei aspetta.
E ci siamo. Versa il caffè con calma, neanche fosse una cerimonia del the, apre il pacchetto e osserva l’oggetto misterioso, il sacro Graal che l’aiuterà nell’impresa: smettere di fumare.
Prima un respiro profondo, poi sorso di caffè, e via con la prima boccata dal tubicino marrone.
Sensazione strana, i polmoni aggrediti da qualcosa che non dà sollievo ma costringe a tossire.
E tra i colpi di tosse, piccole nuvole bianche, segnali di fumo.
Ok Pocahontas, riprova.
La seconda inalata è più morbida e profumata, ricorda un tiro di sigaretta, se non fosse che il tubicino scivola, pende dal labbro come un termometro.
Non demordere, rilassati, anzi no, concentrati.
Va bene, va tutto bene, NON voglio una sigaretta. E anche se la volessi, le ho buttare via ieri sera, tutte.
Forza di volontà. Coraggio e determinazione.

<per aspera ad astra>

Prende la confezione della sigaretta elettronica e legge: 400 tiri.
Quanto durerà? Ne devo prendere un’altra. Subito.
Il caffè è finito e alzandosi, con quel tubicino in mano, va verso la finestra aperta. Ogni tanto porta alla bocca il suo personale narghilè in miniatura che non sa ancora bene come afferrare. Fa le prove guardandosi riflessa nei vetri. Così sembra una cannuccia, così una trombetta, di lato non regge.
E aspira, come se si trovasse sott’acqua, in cerca d’ossigeno. Ma non è ossigeno, è nicotina.

Ora esco, così non penso.

Ed esce di casa, dopo aver controllato circa dieci volte di avere con sé quel cigarillo metallico, la coperta di linus. Inspira profondamente, osservando il verde degli alberi, tra cinguettii e sprazzi di sole. Attraversa il ponte di legno e si ferma ad ascoltare la dolcezza dello scorrere dell’acqua, tra i sassi. Mattinata davvero splendida, neanche tanto calda, se non fosse per quella sensazione di nervosismo latente, quell’ansia sottile che appare e scompare, un malumore diffuso.

Ma sono già in astinenza?

Il bar è al di là della strada, il tabaccaio pure.

Inquietudine, tensione. Dov’è, dov’è quel maledetto inalatore? Una, due, tre tirate di seguito, come una tossica. E torna la calma. Apparente. Attraversa la strada aspirando e sbuffando come una locomotiva incazzata che sta per frenare. E frena. Proprio davanti al dispenser delle sigarette.

Mi deludi, sai? Cedi già? Un po’ di amor proprio. Ce la puoi fare, lo sai che ce la puoi fare.

Ma non è il momento giusto, non sono abbastanza forte, forse devo provare la terapia al lobo dell’orecchio o i cerotti che rilasciano nicotina. Questo attrezzo è un palliativo, non mi dà sostegno, non è sufficiente.

Il click dell’accendino, la punta rosso arancio della sigaretta e quell’inalata amara che le procura un po’ di stordimento, segnano la fine di una battaglia appena cominciata.

<per aspera ad astra>


foto di pascal-meier da unsplash

Indaco (P) e Oro (S)

Una festa. Ci sarà una festa. Sul molo, lo skipper attende. Lui, che sembra uscito da una pubblicità, sorriso accattivante, quando sorride, capello spettinato ad arte, sta lavorando. Per lui è solo lavoro. Ma per chi sta arrivando invece, sarà una serata speciale, lo sarà.

E la barca, regale con le vele che aspettavano placide e il pontile lucido “pensava al mare, non come ad un rivale, un luogo o un nemico, lo pensava al femminile… la luna lo fa reagire come una donna”.

Eccola la festeggiata, bella come un Uccello del Paradiso, vestita di aria e piume cobalto, con la sua amica che ruggisce in bianco, macchina fotografica e criniera d’oro. Sono arrivati gli ospiti, gli amici, quelli con cui condividere questa serata, proprio quelli con cui scatta la battuta al momento giusto, quelli per cui niente sarà un problema.

Il sole sta avvisando che è pronto a salutare la giornata e ci si muove. Si veleggia. La dolcezza della partenza, il tramonto che chiama e una brezza meravigliosa. Il mare, come la montagna, decide. E ha deciso di essere un po’ incazzato. Ma come? È un compleanno, dai, fai il bravo. Niente da fare, le vele si gonfiano e la barca si piega, nella sua danza fatta solo per il mare, per il tramonto. La barca, aveva ragione.

I visi sono un po’ tirati, non tutti. L’Uccello del Paradiso, saldamente ancorato, si lascia cullare, baciare dagli spruzzi, mentre l’amica viene sorpresa e la sua criniera si spegne. Impallidisce, non riesce a deglutire, non vede più il mare, il sole, gli altri. È una statua, lucente e immobile, è altrove. Non è paura, è terrore, è “chi me l’ha fatto fare”.

Ogni onda è una strega minacciosa, sembra parlarle, ma lei non parla, lei è radiante, forse si confonde col cielo fino al rientro al porto.

L’Uccello del Paradiso, come una Polena, domina lo scafo, irradia la sua aura cobalto che diventa porpora.

Sul molo, tutti si fermano, osservano, seguono il veliero che sembra arrivare da Atlantide, placido e magnetico. Ed è musica, musica nelle risate, musica nelle foto, musica nelle cabine che si riempiono e si svuotano, musica nei paccheri al pesce, nella frittura rubata dai piatti.

Il mondo, è dalla banchina in là.

Sulla barca di Atlantide scorrono alcool e ricordi, baci e abbracci sinceri. Dieci figure lievi mischiano la loro energia, ballano per la luna una danza salata, spettinata, bagnata.

Gocce di mare, gocce d’amore.

Svanirà il veliero al mattino, quando il sole diventerà alto e l’Uccello del Paradiso e i suoi amici scivoleranno via, senza fare rumore, come sono arrivati.

Resterà lo sciabordio dell’acqua e l’incanto di un riflesso indaco e oro.

Foto di edrick-krozendijk- Unsplash.

Cos’hai? (interactive game)

  • Cos’hai?
  • – Non so, un po’ di malessere.
  • Ancora?
  • – Sai quei periodi che proprio non riesci ad affrontare.
  • Mmm
  • -Quando ti svegli e sei già depresso.
  • Mmm
  • – È uno schifo.
    • OK.
  • A chi non è successo di essere la stampella per l’altro? Uomini e donne affrontano in maniera diversa i momenti NO.
    • Siete propensi ad essere ANGELI o DEMONI?
      • Cliccate sulle immagini, have a look and… fatemi sapere.