Fare il niente che voglio (it/en)

Ho preso tutto.

Rapido sguardo sulla scrivania per controllare se ha spento il computer e rimesso un po’ in ordine.

Detesto lasciare le penne fuori posto, le pratiche non impilate. Pazienza per la carta che deborda dal cestino, sembra quasi un’Ikebana multicolore. Via , via, devo uscire da qui, ho mille cose da fare!

Cammina veloce, a piccoli passi nervosi, seguendo il rumore dei tacchi sul marmo lucido. Il percorso è sempre lo stesso, come binari che la portano proprio davanti agli ascensori. Arrivano altre persone, chiacchierando, ciondolando, perdendo tempo. Si sta formando una piccola folla e l’ansia sale. Guarda l’ora sul telefonino e vede un messaggio.

  • Io vado. Ti aspetto là.

L’ascensore è arrivato e, come sempre, è già quasi al limite della capienza, ma lei entra di corsa.

C’ero io prima di voi. Ma cosa fate? Ma guarda se quell’idiota doveva entrare per forza!

Le porte dell’ascensore non riescono a chiudersi.

Siamo in troppi!

Il grumo di persone si sposta all’interno, si stringe al massimo. Un cubo di Rubik che si muove senza soluzione. E l’ultimo entrato alla fine rinuncia ed esce, accompagnato da evidenti sospiri di sollievo.

Quando hai fretta, tutto rallenta.

Ed è fuori, finalmente. Un passo dietro l’altro nella hall, schivando persone, borse, zainetti e gomiti. Poi, un altro imbuto, una clessidra di corpi che scivola piano verso la luce. Sente l’aria fresca arrivarle sul viso e il caos del traffico, colonna sonora di ogni sua giornata d’ufficio. Un passo dietro l’altro, ora è diretta alla metro, in una coda disordinata che si sposta, aprendosi e chiudendosi. Lei, è là dentro, un passo dietro l’altro, seguendo il ritmo degli altri, con la testa bassa e un braccio avvinghiato alla borsa.

Inciampa.

Improvvisamente, si trova a terra, sul marciapiedi, con l’anaconda di corpi che le scivola a fianco. Si rialza piano, guardandosi le mani e massaggiandosi i palmi. É immobile e la schivano tutti. C’è un giardinetto proprio là, a destra, con delle signore sedute e dei bambini che stanno giocando. Un’ambulanza sfreccia, la sirena urla urgenza, mentre una coppia litiga in macchina, aspettando che scatti il verde.

E si alza il vento. Una folata che sposta le fronde verdi dei platani.

Lei è immobile e si sente vuota. Avverte la bellezza del vuoto.

Per un momento, si accorge che non c’è veramente nulla che deve fare.

Che meraviglia, il niente.

Arriva un altro messaggio.

Ora ti rispondo. Tra un attimo.


EMBRACING NOTHINGNESS


I’ve got everything.

A quick glance at the desk to check if the computer’s turned off and if things are somewhat tidied up.

I hate leaving pens out of place, files unstacked. Never mind the paper spilling out of the bin, it almost looks like a multicolored Ikebana. I have to get out of here, I’ve got a thousand things to do!

She walks quickly, in small, nervous steps, following the sound of her heels on the polished marble. The path is always the same, like tracks leading her straight to the elevators. Other people arrive, chatting, dawdling, wasting time. A small crowd is forming and her anxiety rises. She checks the time on her phone and sees a message.

  • I’m going. I’ll wait for you there.

The elevator arrives and, as usual, it’s already nearly full, but she rushes in.

I was here before you. What are you doing? Seriously, did that idiot really have to squeeze in?

The elevator doors won’t close.

There are too many of us!

The clump of people shifts inside, squeezing in as tightly as possible. A Rubik’s cube shifting with no solution. And the last one in finally gets out, met with obvious sighs of relief.

When you’re in a hurry, everything slows down.

And she’s out, at last. One step after another through the lobby, dodging people, bags, backpacks and elbows. Then, another bottleneck, an hourglass of bodies slowly slipping toward the light. She feels the cool air hitting her face, along with the chaos of traffic, the soundtrack of every office day. One step after another, now heading toward the metro, in a messy line that shifts, opening and closing. She’s in it, one step after another, following the rhythm of the others, head down, one arm clinging to her bag.

She trips.

Suddenly, she’s on the ground, on the sidewalk, while the anaconda of bodies slides past her. She slowly gets up, looking at her hands, rubbing her palms. She stands still, and everyone dodges her. There’s a little park just to the right, with ladies sitting and kids playing. An ambulance speeds by, siren screaming urgency, while a couple argues in a car, waiting for the light to turn green.

And the wind picks up. A gust that rustles the green branches of the plane trees.

She stands still, and she feels empty.

The beauty of emptiness.

For a moment, she realizes there’s truly nothing she has to do.

What a wonder, this nothingness.

Another message comes in.

I’ll answer you. In a moment.

Amabile nulla

Amabile. Lei era così, glielo dicevano spesso.

Era quel tipo di persona che passa inosservata, mai sopra le righe, forse un po’ solitaria. La sua casa era in ordine, sempre. Non un granello di polvere, non un cuscino fuori posto, anche le tende, immacolate, erano immobili, a piombo, perfette. Una vita in discesa la sua, famiglia normale, nessuna eccellenza negli studi, laurea conseguita nei tempi e il lavoro era arrivato facile, grazie al papà, in uno studio di architettura. Niente di più, niente di meno.

Si era svegliata come ogni giorno, da quattro anni, alle 06.15, ed era scesa dal letto col piede destro, sempre lo stesso piede. Una routine di gesti ed abitudini, dall’accendere il bollitore dell’acqua, al fumare la prima sigaretta davanti alla finestra, ancora in pigiama. Il cielo era azzurro, i palazzi di fronte sembravano deserti, un silenzio reboante. Quella notte aveva dormito male, per l’ennesima volta le avevano chiesto di passare un progetto ad un altro collega. Per l’ennesima volta lo aveva aiutato.

“Sei davvero amabile.”

Era amabile quando le amiche le davano buca, quando tutti potevano contare su di lei, quando non disturbava, quando non esisteva.

Era lunedì.

Lunedì: pantaloni e camicia, scarpe e borsa abbinate. Tazza lavata e asciugata, tapparelle abbassate, chiavi di casa e il rumore del portone che si chiude. Rimbomba un attimo nella tromba delle scale, solo un attimo.

Uscendo dal palazzo il vento le gonfia i capelli e la camicia, mentre le sembra di camminare a fatica, come se affondasse nella ghiaia, fino al cancello. Era già arrivata alla metro, non le era chiaro quale tragitto avesse fatto, sicuramente sempre lo stesso, ma non si era fermata al bar. Forse sì.

Non le importava, stava aspettando, nell’aria stantia, tra tante persone che parlavano, ma non sentiva. Stava aspettando sulla linea gialla. Una donna, né giovane, né vecchia le si piazza davanti.

Sei amabile.

Arriva l’aria che precede il rumore e quell’odore acre di metallo e cemento, poi, le luci della metro. É quasi lì.

Le sue mani si alzano lentamente e spinge, forte, la schiena che ha davanti a se. Urla, braccia che la braccano, schizzi di sangue ovunque, l’orrore negli occhi delle persone, lo sgomento.

Silenzio, fate silenzio, fatemi spazio, non vi vedo. Non vi sento.


Foto di Alexander Grey da Unsplash