Mi dispiace, ma passa, vedrai che passa. Fai una passeggiata, respira, abbraccia un albero.
– A Roma?
Va beh, vai in un parco…
– Ma è domenica, una folla di famiglie, coppie, cani, urla…
Perché non fai un po’ di meditazione? A casa, tranquilla, in penombra e da sola.
– No, ti prego no. Ci ho provato e continuo a pensare. È dura.
Facciamo così, ora andiamo fuori, cerchiamo un ristorantino piacevole, poi andiamo a fare una bella passeggiata vicino a un lago.
– Grazie, davvero, ma mi sento uno straccio.
Scese a prendere l’auto e partì, guidando a zig zag tra il traffico, mesto e un po’ ubriaco, della domenica sul lungotevere. I marciapiedi erano fiumi di persone, turisti di ogni nazionalità, rigorosamente divisi in gruppi monocolore, in file rumorose, che migravano verso S.Pietro. Un’anaconda che si srotolava tra i ponti e le vie, sbucando ovunque senza che si potesse immaginare dove iniziasse, chi fosse a capo di quest’esodo.
Chi avrà incominciato tutto questo oggi? Chi sarà alla testa dell’anaconda?
Le sembrava di vederla dall’alto, come un lunghissimo e flessibile copertone, imprevedibile e aggressiva, pronta a soffocare la sua preda stringendola fra le sue spire fino a soffocarla.
Girò a destra per parcheggiare in una strada secondaria, vicino alla fermata Lepanto della metro. Parchimetro, tagliando. Nonostante il sole, la giornata era insolitamente fredda e i bar erano affollati di gente che aspettava in piedi davanti ai banconi, calpestando briciole di cornetti e fazzoletti di carta non raccolti. Un’immagine triste vista da fuori, come certe stalle non perfettamente organizzate, dove i bovini si accalcano, spingendosi e ansimandosi addosso. Niente caffè.
Sono qui.
– Ma ti avevo detto di lasciar perdere…
Partì lo sblocco elettrico del portone che lentamente, molto lentamente, iniziò ad aprirsi. Stava guardando verso il lungotevere quando venne travolta da un bambino che, uscendo, le calpestò l’alluce sinistro. E arrivò subito dopo la mamma. Capello biondo vaporoso, cappottino stretto in vita da una mini cintura, simile alle fascette ferma cavo, chiamava suo figlio con una voce squillante che cozzava con la pettinatura alla Marilyn. Papà non c’è? No.
Adorava Roma, con quei “siparietti” d’incontri lampo, come scene un po’ trash di film caserecci. Ci si poteva scrivere davvero una storia dietro l’altra.
– Perché sei venuta? Mi vedi? Non sono in condizione di uscire. Non mi sono neanche vestita.
Mi offri un caffè?
Veronica, un giunco di un metro e ottanta, di madre prussiana e padre siciliano, alla soglia degli anta. Un’opera d’arte incompiuta. Uno straccio, ma di lino, tessuto a mano.
Mentre il caffè usciva con un sommesso borbottio, Veronica passava dalla sua camera alla cucina, parlando, chiedendo se faceva freddo, mostrandole la giacca che voleva indossare, per poi sparire di nuovo in bagno. Dalla finestra entrava una fetta di luce, quel lembo che era riuscito a passare tra i tetti e i palazzi di fronte, fermandosi sul muro come una meridiana brillante.
Saranno già le 11.00.
– Pronta! Ma davvero vuoi andare al lago? Quale? Albano, Bracciano… É domenica… ci sarà un traffico pazzesco. E se rimaniamo qui?
Fissò l’amica con un sorriso che non prevedeva cambi di programma.
Hai bisogno d’acqua. I giunchi necessitano d’idratazione per essere in salute, sempreverdi. Ed io, ho bisogno di specchiarmi nell’immobilità del lago, perdermi tra i riflessi del verde e del sole.
– Quiete. Abbiamo bisogno di quiete. Andiamo.



