Metamorfosi

Il cielo bruciava, letteralmente. Era scoppiato un tramonto che accecava e si liquefaceva nel mare, portando lunghe onde morbide, oleose, tranquille, fino a riva. Seduta sulla sabbia, con le braccia che cingevano le gambe, muoveva la testa lentamente da un lato all’altro di quell’enorme quadro che non aveva fine né inizio. Aveva pianto, senza rabbia. Aveva lasciato che il dolore scorresse, ed era finito negli occhi. Non era questo il piano, non avrebbe voluto, ma quell’inaspettato spettacolo aveva detonato la costante contrazione che cercava di controllare.

Aver divorziato, in fondo, non era gran cosa, non era quello che le stringeva l’anima. Il suo cuore si era accomodato, proprio così, accomodato tra le cicatrici, rifiutando di indurirsi, a differenza di altre sue amiche separate. Non sentiva quel gusto amaro, non trovava espressioni acide, quelle che si fissano come una colla, non transitano ma lasciano una scia, come una bava di lumaca infinita.

Erano arrivati insieme, lei e suo marito, alla conclusione. Strana la vita, non c’erano stati scossoni, litigate o discussioni, si era solo spenta la luce, era finita la ricarica, e quello che un tempo era passione e forza, si era banalmente trasformato in qualcosa molto simile all’amicizia. Si può continuare a stare insieme per inerzia? Ah, quanti lo fanno! Quieto vivere, la scusa dei figli, la paura di rimanere soli…

Loro due, invece, così in sintonia da affrontare la decisone comune davanti ad un aperitivo nel solito bar, avevano anche già stabilito “chi prende cosa”, se vendere la casa e alcuni mobili che entrambi non sopportavano più. Avevano anche riso, scoprendo che la maledetta poltrona, regalo della suocera, proprio non piaceva a nessuno dei due! Quante cose si scoprono quando apri del tutto la saracinesca della mente, quando non hai più il freno dell’amore. Eppure, era ancora amore, diverso, trasformato, ma sicuramente amore.

Una metamorfosi.

Non ci sarebbe stato più un NOI. Si era frantumato il nucleo, caldo e rassicurante.

Passò una coppia, seguita da un bambino con un cane. Li guardò come se stesse guardando un film già visto. Il cane le corse incontro, voleva giocare, le girava intorno e saltava. I padroni lo stavano chiamando, scusandosi. Perché?

É così bello l’affetto.

Specchio, servo delle mie brame.

Fuori dalla finestra si intravedono le chiome degli alberi quasi spogli. Nella stanza del commissariato sono in tre. Hanno fermato solo loro tre.

La mattinata a scuola era terminata e aveva passato l’ultima noiosissima ora con la sensazione di essere seduta sulle braci. Il tatuaggio sul braccio si stava asciugando. Aveva rubato i soldi dal portafogli di sua madre che tanto se la sarebbe vista col nuovo compagno. Al suono della campanella era scattata come un’atleta pronta a correre i cento metri ma, nel corridoio, le era toccato fare la gimkana tra molli studenti che se la prendevano comoda, tanto avevano i genitori che passavano a prenderli o l’autobus che li aspettava. Ed era finalmente fuori da quel palazzo, si stava allontanando da quei ragazzini così diversi, così distanti da lei. Lei, si sentiva grande, lei era già grande. Ma non abbastanza.

Per riuscire a far parte del gruppo giusto, per essere accettata da chi contava davvero, non bastava essere grande, dovevi essere anche forte, molto forte. E lei sapeva di esserlo. Essere vittima non era mai stata un’opzione. Corre, corre per non arrivare in ritardo, mentre l’adrenalina sale. Oggi è un giorno importante, ce la deve fare.

Nel parco, isolate tra gli alberi, l’aspettano dieci ragazze, qualcuna si è seduta, altre stanno fumando. Percorre l’ultimo pezzo camminando veloce, guai a farsi vedere insicura. Lascia orme scivolose sulle foglie bagnate, mentre si avvicina e saluta. Solo gesti simbolici, emblematici, senza parlare.

Mette a terra lo zainetto e aspetta. Cominciano a spintonarla un po’, qualcuna le da un colpo sulla schiena, sulle gambe, poi, iniziano a dare botte, tante. Come se la stessero lapidando, arrivano legnate secche, calci che la fanno piegare. Si raggomitola e cerca di proteggere la testa. Sente che sta per crollare e si abbandona. E si fermano. Si sono fermate. Hanno smesso.

Ce l’ho fatta.

Ora, manca solo l’ultima prova. Non sarà difficile. Ora, è insieme alle altre, che stanno ridendo e l’aiutano ad alzarsi. Manca solo l’ultima prova. Sente dolore ovunque ma non importa.

Decido io.

E la vede passare. Una ragazza più o meno della loro età, non la conosce. L’addita, e il gruppo si scaglia contro quella preda, come una tempesta di sabbia la travolge e la soffoca colpendola senza freni. Anche lei. Anche lei sta sferrando calci a quel pupazzo ormai inanimato.

Ma qualcuno ha visto, qualcuno ha cominciato a gridare, c’è chi sta correndo verso di loro e il gruppo si sparpaglia come un branco di piccioni spaventati da un rumore.

Fuori dalla finestra si intravedono le chiome degli alberi quasi spogli. Nella stanza del commissariato sono in tre. Hanno fermato solo loro tre. Le fa male un ginocchio e chiede del ghiaccio, ma nessuno glielo porta.

Led cage❤️

Finito. Ho postato l’ultimo reel. Sono le 2:53. Controllo il numero di follower, sono tantissimi. E ce n’è voluto di tempo, di lavoro, tanto lavoro. Quello che all’inizio sembrava un divertimento, ora è la mia occupazione. Un lavoro.

Dovrei coricarmi, sì, anche se non avverto la stanchezza ma gli occhi sono due spilli e bruciano.

E questo? Un commento cretino, che faccio? Rispondo. Ma no. Lascio perdere.

All’inizio rispondevo a tutti, ma ora so come manipolare gli algoritmi, so come manipolare le persone. Si impara.

OK! Chiudi l’applicazione e vai a coricarti.

Il letto non è più la mia cuccia, il letto è una propaggine del computer, del tablet. Dal telefono sul comodino la luce piano piano si spegne ma la mia mente invece continua a pensare. E il telefono vibra, una volta, poi una seconda. Alla terza lo prendo. Apro l’applicazione. Commenti nuovi. Condivisioni.

Ma come? Il numero dei follower è calato!

Mi siedo e comincio a rispondere. Poi cancello e riscrivo. Uno, due, tre, troppi che scrivono che sono falsa. Fosse stato solo uno non ci avrei fatto caso, ma sono tanti. Qualcuno ha postato un emoji incazzato.

Perché? Cosa sta succedendo?

Il mio ultimo reel non è piaciuto. Quell’emoji rosso mi sta fissando. Lo ignoro.

Ti ignoro. Domani, forse, risponderò.

Mi corico. Chiudo gli occhi e sospiro.

Devo postare alle 8:30, la fascia oraria migliore. Poi alle 13:00. E una storia alle 18:00.

L’algoritmo non perdona. Se perdi i colpi ti penalizza. Espiare – pagare. Se non sto al passo rischio di perdere collaborazioni importanti perché la mia immagine non è più, uniforme, e non produce più lo stesso risultato. Le persone lo avvertono e cominciano a dubitare. Mi risiedo e controllo. Valuto analitiche e statistiche: le interazioni sono in calo.

Perché? La mia performance è in calo, non bastano più gli hashtag mirati e gli audio trend? 

Sarà un momento. Devo ignorarlo.

Riprendi il controllo.

Ed è giorno. Mia madre mi chiama per la colazione. Ma sì, mi alzo e mi sciacquo il viso. Mangiare qualcosa mi aiuterà. Seduta al tavolo, con una tazza nella mano e il telefono nell’altra, sento mia madre che si lamenta.

  • Perché hai sempre quel coso in mano?
  • Questo coso, mamma, è il mio lavoro.
  • Lavoro? Lavoro significa fatica! Non giocare, non perdere tempo!

Non capisce. Non può.

Quando arriva un like, è una carezza, un pezzo di puzzle che definisce il mio ego.

Deciso!

Posto un video al naturale! Così come sono, senza filtri. Confesserò che sono stanca, racconterò delle mie insicurezze. Vulnerabile. Un atto di coraggio. Questo ci vuole.

Fatto. Postato.

Riguardo la clip. Non mi piace. Ma stanno arrivando i primi commenti.

“Mi hai toccato il ❤️”

Ma ripartono le critiche.

“ Ah falsa!😎”

“Ma a chi la vuoi dare a bere? Reciti pure male”

“Vergognati 🙈, c’è chi sta male davvero”

“Ma quanto sei grassa?😱”

Come tante punture dolorose, uno sciame di commenti, tossici, crudeli. E non smettono.

Prendo il telefono. Ora rispondo con una storia. Ma i commenti continuano.

Una notifica.

“So chi sei. Smettila”

Un crampo allo stomaco. Rispondo, poi cancello.

Il messaggio è sparito. Account inesistente.

Ed è già notte. La stanza mi sembra enorme. Vado alla finestra, lampioni che illuminano zone di pericolo. C’è qualcuno là fuori.

C’è qualcuno?

Arriva una storia sul telefono. Qualcuno ha taggato il mio nome, davanti a casa mia.
Una foto. Sembra casa mia. È casa mia.

Ho freddo.
L’algoritmo è affamato.
Fuori, un’auto rallenta davanti al mio portone.


La luce del display si spegne.

Jōhatsu in un soffio

Le fronde degli alberi, fuori dalla finestra, erano vigorose e piene di minuscoli germogli verdi e fragili che preannunciavano il Cherry Blossom. Aveva terminato di lavorare e se ne stava immobile davanti al computer spento. I colleghi erano già in movimento, si salutavano e correvano agli ascensori. Lei era una delle più anziane ma non aveva fatto carriera, non come gli altri. Troppi pensieri sempre in testa, tra un compito da svolgere e l’altro, troppa famiglia, troppo.

Si sentiva debole, non vecchia ma, matura, come un bel cedro del Libano dalla scorza spessa. Emanava profumo solo se ci si avvicinava alla buccia e lei, non aveva mai permesso a nessuno di esserle così vicino. Il marito, quello sì, suo malgrado, le si avvicinava spesso, con brutalità, mentre la suocera aveva invaso da subito e per quasi trent’anni, tutto. La casa, quel nido in cui aveva cresciuto due figli, ormai lontani, non aveva mai avuto il suo odore. Ovunque aleggiava la presenza di quell’altra donna che dominava, unica e despota.

Non se ne era accorta subito, non aveva fatto caso alla lenta erosione che l’aveva consumata negli anni, facendo disperdere la sua forza come l’acqua tra i ciottoli. Si era rifugiata nella sua anima, la sola parte che non poteva essere toccata, lasciando che gli altri si cibassero del resto, sbranandola a piccoli pezzi. Quando avvertiva che il dolore del suo spirito era più insopportabile delle botte, si chiudeva nel silenzio, attendendo che terminasse, affaccendandosi nei gesti quotidiani, sempre gli stessi, svolti in fretta, come una presenza invisibile. Per non dare fastidio.

Col tempo, osservando ciò che era rimasto di lei, corrosa, consumata, aveva preso una decisione, senza fretta.

Uscì dal palazzo e s’incamminò tra la folla verso la metropolitana. Salutò con un cenno del capo una collega in fila alla fermata dei taxi, e prosegui scendendo le scale, seguendo le migliaia di persone che correvano in tutte le direzioni, come un formicaio ordinato. Fece il solito tragitto fino alla sua fermata e si mise in fila aspettando, dietro la linea gialla. A sinistra, il buco nero della galleria, davanti a lei, i binari che l’avvisavano, con un sordo rumore lontano, dell’arrivo del suo treno. Si avvinghiò alla borsa mentre sul tabellone iniziava il conto alla rovescia: 3 minuti, due, uno. Si sentiva come un birillo tra i tanti, in attesa, immobile e silenziosa.

La metropolitana arrivò col suo fruscio morbido e lei non si mosse. Fece un passo indietro, poi un altro e un altro ancora. Gli altri stavano salendo sul mezzo e un annuncio delicato avvisava della partenza disperdendosi nel chime che segnalava la chiusura porte. La stazione stava svanendo, perdendo i contorni in una luce nuova. Nessuno la vide, nessuno si accorse della calma del suo sorriso mentre, passo dopo passo, svaniva dietro ad una colonna.

Da quel momento sarebbe stata una *jōhatsu, una persona “evaporata”, una persona che aveva in qualche modo ceduto. Era fuggita.

La sua mano, affondata nella tasca, stringeva un foglietto stropicciato, come un talismano, un lasciapassare, con una frase di Flaubert: “Viaggiare rende modesti, fa capire quanto il posto che occupiamo nel mondo sia piccolo.

Era solo un soffio, pronta a viaggiare senza biglietto verso un altrove che non avrebbe avuto più obblighi né vincoli.

* Johatsu” (蒸発), che significa “evaporazione” in giapponese, si riferisce alle persone che scompaiono volontariamente per abbandonare la propria vita precedente e iniziare una nuova esistenza in anonimato. Questo fenomeno è spesso legato a fattori come la vergogna sociale, le pressioni lavorative, i problemi familiari o il desiderio di sfuggire alla società. Non è esclusivo del Giappone, ma è osservato anche in altri paesi come Stati Uniti, Cina, Corea del Sud, Regno Unito e Germania. 

Fuori tempo

*il brano ha partecipato al gioco degli incipit, ideato e condotto da Luz (https://iolaletteraturaechaplin.blogspot.com/)

  • MA… evidentemente mi sono persa la fase in cui si dovevano esprimere 2 preferenze tra tutte le storie pubblicate sul sito d Luz, quindi sono stata esclusa. 😬 Era la mia prima partecipazione, un mini contest interessante che chiedeva un INCIPIT, basato su una tra le tre foto proposte da Luz. Comunque questo è stato il mio incipit, scaturito da questa immagine che avevo scelto. PS: il titolo sembra quasi una premonizione 😜

FUORI TEMPO

Il viale si distendeva davanti a lui come uno spartito dimenticato sul leggio. Il maestro avanzava piano, inghiottito da un silenzio così denso che sembrava ascoltarlo. Ogni passo era una nota che si scriveva da sola, ogni colpo del bastone un accordo sommesso, improvvisato da un’orchestra invisibile. L’aria fredda profumava di legno antico e di velluto, come la sala di un teatro vuoto dopo la standing ovation. Il bastone ticchettava sulla pietra come una bacchetta d’orchestra dimenticata sul podio dopo l’ultimo applauso. Gli alberi, nudi e contorti, si piegavano appena al suo passaggio, simili a violinisti stanchi. Camminava immerso in un tempo sospeso mentre, sotto il cappotto elegante, il cuore batteva con una cadenza curiosamente adolescente. Sposarsi. A quell’età. Con lei. La sola che lo aveva guardato non come un monumento polveroso, ma come un enigma ancora da risolvere. Lei. Appariva sempre così: improvvisa, nel mezzo dei suoi pensieri, come un tema musicale che riaffiora dopo un lungo interludio. La sua allieva insolente, con quel sorriso sghembo capace di bucare le convenzioni come un colpo di timpano in un quartetto d’archi. Era l’unica che lo guardasse senza reverenza, come se sotto i suoi anni vedesse ancora l’uomo, non il maestro.

–       Mi sposerai, vecchio direttore?

Sussurrava la sua voce dentro la nebbia, mescolandosi al fruscio degli alberi. Lui rise piano. Il viale si piegò su sé stesso, le luci si abbassarono come a teatro, e nella sua testa partì un valzer leggero. Poi, di colpo, tutto si fermò: l’orchestra era in pausa. Sentiva chiaramente i battiti del suo cuore.

Lo spazio giusto

Il pomeriggio era sospeso, come se il sole esitasse a tramontare. L’aria sapeva di erba bagnata e pallone consumato.
A bordo campo, su una panchina scrostata, c’era lui. Le gambe penzoloni, le calze un po’ troppo larghe, i piedi dentro scarpe leggere, senza tacchetti, inadatte. Lo sapeva. Ogni corsa degli altri glielo ricordava. Non gliele avevano comprate. Non ancora. Forse mai.

Seduto, con le ginocchia graffiate e le scarpe sbagliate. Non serviva che qualcuno glielo ricordasse: non erano scarpe da pallone. Non erano quelle. Ogni volta che guardava quelle degli altri, nere o colorate, robuste come armature, provava un disagio inspiegabile. Nella sua classe c’erano tre bulli che lo mettevano sempre in difficoltà. Una volta era lo zainetto troppo vecchio, una volta i capelli che non andavano bene. Oggi, lo avevano escluso dal gioco per le scarpe. Guardava gli altri correre come se la partita fosse stata un fiume e loro ci nuotassero dentro. Lui era fermo, sulla riva.

Una bambina, una di quelle che sperava non si avvicinassero mai, comparve sbucando alle sue spalle. Aveva i capelli raccolti in due trecce lucide e uno sguardo appuntito.

Perché non giochi?

Abbassò lo sguardo sulle sue scarpe come se la risposta fosse scritta sull’asfalto.

Ah. Capito.

Disse solo quello e tornò verso la rete del campo, con un saltello leggero.

Lui abbassò di nuovo lo sguardo. Le sue scarpe sembravano ancora più brutte. Gli occhi ripresero a seguire la palla, ma non la vedevano davvero.

Poi, arrivò un altro bambino, più grande. Senza dire nulla si sedette accanto a lui, lasciando uno spazio giusto: né troppo vicino, né troppo lontano. Non lo conosceva.

Silenzio. Solo la partita davanti a loro.

Chissà se le scarpe fanno davvero la differenza. Chissà se mi basterebbe metterle per entrare o se servirebbe qualcos’altro. Comunque fa più male guardare che essere guardato. Le scarpe giuste avrebbero fatto la differenza. Forse. Forse non mi avrebbero fatto giocare lo stesso, ma almeno avrei avuto le scarpe giuste.

Si girò verso l’altro bambino e gli guardò i piedi. Lui aveva le scarpe giuste. Perché non giocava?

Restava lì, in silenzio. Una presenza che non era conforto né amicizia ma che aveva incrinato il confine che lo separava dagli altri. L’essere invisibile.
Sul campo la partita continuava, il campo da calcetto brillava sotto la luce stanca del pomeriggio.

Figli della Nutella

  • Liberamente tratto da una conversazione captata durante una escursione verso l’Alta Val d’Arda.

Marrone. Esiste colore più triste? Il nero. El negro no es un color triste, affatto! Ma il marrón, no me gusta.

E pestò un rametto secco, sul sentiero che s’inerpicava tra gli alberi.

Certo, ci sono tante varianti di colore, ma el marrón realmente no me gusta.

S’immaginò il bosco verde e azzurro. No. Verde e bianco, come d’inverno, molto meglio.

A pensarci bene, il marrone, è il pantone per eccellenza nella natura.

Tronchi, variegati come *churros un po’ troppo cotti, la circondavano, più o meno possenti, più o meno impertinenti. Erano solidi, quasi tutti, davano l’impressione di essere radicati fino al centro della terra, emanando un leggero profumo di resina. I passi risuonavano sul terriccio, marrone anche lui, ma con tante sfumature quasi impercettibili. Stava per raggiungere il punto panoramico, il posto in cui avrebbe trovato sicuramente un sacco di altre persone. Infatti, dopo poco, cominciò a sentire il vociferare di altri umani, portato dall’aria fino alle sue orecchie. Non era un’eco, piuttosto il risultato di parole, accostate le une alle altre e unite in un dialogo alieno. Eccolo, il Belvedere.

Alla prima occhiata di “bel vedere” c’era poco. Macchine posteggiate a caso e muretto di schiene che oscuravano qualunque vista. E, giacconi. Tanti. Quasi tutti marroni, a parte i colori fluò dei bambini. Piccoli elfi imprigionati tra le braccia dei genitori.

Siamo monotoni.

Si avvicinò, aspettando pazientemente che terminassero di fare foto e selfie, poi, si infilò tra due coppie che fissavano lontano, in silenzio, un punto che cercò senza successo. Il cielo era coperto, e spostò lo sguardo verso il basso.

Mira el río, es marrón.

Un fiume lento e limaccioso, un lungo enorme verme che scivolava a fondo valle. Come una interminabile cicatrice in via di guarigione. Marrone.

Non può essere. Il fiume, no. Dovrebbe riflettere la luce o i colori delle foglie. Persino la montagna di fronte è verde, al massimo, ramata.

Una delle coppie si era spostata ed era stata rimpiazzata da una famigliola. La mamma, per zittire i piccoli, tirò fuori una cioccolata. Improvvisamente, come quando ascoltava le favole da bambina, il panorama cambiò e s’immaginò montagne puntellate da alberelli di zucchero, caramelle colorate che creavano ruscelli, morbide nuvole di zucchero filato azzurro e rosa, una cascata di mentine lucenti e tanti cioccolatini sparsi ovunque.

Un fiume di cioccolata, morbido e lento. Un cucchiaio enorme che affondava piano e risaliva colmo, carico di sfumature di marrone profumato e tentatore.

Ecco. In questo caso sono certa che avresti fatto una eccezione. Estoy realmente segura.

*Churros: frittelle dolci a forma di bastoncino, tipiche della Spagna: si servono con zucchero o cioccolata calda.

Tassellazione vs illusione

Autunno. Finite. Le vacanze sono finite. E osservò le prime foglie autunnali che, in strada, si erano sollevate inseguendo una moto, come i barattoli appesi dietro alle macchine dei novelli sposi. Un caffè americano sul tavolino e il telefonino alla mano, valutò che, tutto sommato, il cielo le ricordava certe mattine estive fresche, quando usciva prestissimo per godersi i rumori ovattati delle barche che cozzavano pigramente sulle boe. Ma i colori, i colori del tempo erano virati, velati come le nature morte, in una tassellazione in cui tutto sembra immobile.

Immaginò la sua vita riflessa sulla sfera di Escher. Si sentiva intrappolata, congelata.

Potrei farne un fermacarte, di quelli in plexiglass, in cui imprigionano una foto o un oggetto.

Passò, davanti a lei, una giovane mamma con il telefonino all’orecchio e una bambina in braccio. I loro sguardi si incrociarono. La bambina aveva gli occhi grandi, neri, profondi, ma immensamente malinconici. Un ricordo, uscito chissà come, la intristì senza motivo.

Scrollò il suo telefono, cercando video sulle felicità, e si fermò ad ascoltare un’intervista fatta ad un anziano signore.

Mi scusi, cos’è per lei la felicità?

L’anziano, ancora in forma per la verità, stava camminando da solo e si era fermato. Il suo sguardo gentile s’indurì. Non lo so. Sono attimi così veloci che neanche restano nella memoria. Restano solo i rimpianti. Improvvisamente, era diventato vecchio.

Si era alzato un po’ di vento e le aveva spostato i capelli sul viso, sibilando così forte da coprire il dialogo nel telefono. Non si può essere tristi da bambini e anche da vecchi. E in mezzo? Pensa, pensa! Scandagliò la memoria, cercando gli attimi di pura gioia, quei ricordi che sembrano diapositive corrose dall’oblio. Appoggiò i gomiti sul tavolino, mise le mani sulle orecchie e chiuse gli occhi. Intorno le persone entravano e uscivano dal bar, macchine e camion sfrecciavano in lontananza, la gente parlava, il vento parlava, la mente parlava. Qualcuno urtò il suo tavolino e fece cadere la tazza. Aprì gli occhi sulla pozzanghera nera, il colpevole si stava scusando ma lei non lo sentiva, guardava il luccichio.

E in un attimo, affogando in quel nero, capì che, quella bambina, quella bambina le aveva letto dentro.

Akrasia. (Da barrare nella lista).

Nella sala, sprofondata nel divano, avvertiva solo un po’ di acufene. Sentire il silenzio è impossibile. Aprì il libro e distese l’orecchia che aveva fatto all’angolo della pagina. Allungò le gambe sulla sedia e posizionò meglio il cuscino dietro la schiena. Aveva scritto un elenco di cose da fare ogni giorno, i buoni propositi nero su bianco, che alla fine le erano sembrati una lista della spesa, di quelle che compili e dimentichi sempre a casa. Erano le 14.00.

Lista: 5) h 14.00, leggere.

Voltò la pagina, cercando di far arrivare il più possibile la luce dalla finestra dietro le spalle, e allontanò un po’ il libro. Molto meglio. Fu allora che iniziò un rumore forte, continuo, come una trivella, no, come un meccanismo inceppato, un motore che stava cercando di accendersi.

Cos’è? Mi alzo?

E aspettò. Il rumore proveniva dal giardino di fianco alla casa, era chiaro. Forse un vicino stava armeggiando con qualche strumento. E non smetteva, anzi, stava aumentando. Era costante, penetrante.

Mi alzo? Si fermerà.

Girò la pagina e lesse tre righe, due volte. Quel sibilo ipnotizzante le stava trapanando il cervello.

E se mettessi le cuffie?

Continuò a leggere.

Potrebbe essere un’ astronave aliena, proprio qui fuori, e io me ne sto seduta. Forse sta cercando un contatto. Ora mi alzo.

E girò un’altra pagina. Il telefono l’avvisò dell’arrivo di un messaggio.

Ho voglia di mangiare qualcosa, ora mi alzo, vado a vedere da dove arriva questo rumore, e poi vado in cucina a prepararmi qualche carota.

Lista: 2) niente dolci.

Sospirò. Poggiò un piede a terra e il rumore, improvvisamente, perse volume, avvitandosi su sé stesso come una sirena che si sta spegnendo. Riposizionò gli occhiali sul naso, spostandoli bene verso gli occhi. E girò un’altra pagina. Appoggiò la testa allo schienale del divano, una gamba era rimasta a terra, e guardò il soffitto.

Chiuse gli occhi.

Riflessi azzurrognoli e lampi di luce

La frenata del treno stride come le unghie passate su una lamiera. La piccola folla si accalca, prevarica, ingombra da ogni lato, attendendo l’apertura delle porte. Come se entrassero in un’arena, si fiondano all’interno della carrozza, correndo, ignorando i vicini, giovani, anziani, bambini. Un fiume in piena di ciabatte da mare, valigie e zaini, mi travolge e mi spinge. Nessuno ascolta, tutti parlano, chiamano, qualcuno urla. Vedo un posto libero tra due passeggeri, nel corridoio, e come un’anguilla scivolo tra camicie sudaticce fino alla meta. Bagaglio, sistemato sotto. Ora posso respirare, chiudere gli occhi e aspettare che questa umanità disperata si plachi. La mia vicina di viaggio a sinistra è americana e sta fissando l’indecoroso spettacolo, ritraendo i piedi il più possibile per far passare roboanti trolley giganteschi.

  • Oh my gosh…

Due minuti, forse tre, di totale caos in cui, proprio ad altezza viso, ho schivato due volte i piedini di piccoli infagottati sulle schiene dei genitori. Uno, sorrideva. Ed è pace. Apparente. Le porte si chiudono e l’aria condizionata riprende a funzionare. L’americana ha indossato le cuffiette, l’altro passeggero alla mia destra sembra assorto, non si è mosso. Lo guardo di sfuggita, poi, lo guardo meglio. Un tuffo al cuore! É mio fratello! No. Non è lui. Ma è uguale a lui! Un sosia. Cerco di non fissarlo, faccio finta di guardare oltre, dietro di lui, e più lo guardo, più noto la somiglianza nelle espressioni, nei capelli, perfino nell’abbigliamento. Esistono sosia per ognuno di noi, in qualche parte del mondo ma, essermelo trovato di fianco, mi ha lasciato interdetta. Vorrei dirglielo, sapere cosa fa, come vive, se è sposato o ha figli. Vorrei, ma non lo faccio. Se è come mio fratello è riservato e, forse, mi guarderebbe come se fossi una molestatrice.

Una foto, gli ho scattato una foto di profilo senza che se ne accorgesse, mi servono prove. Spero che nessuno mi abbia visto. Mi guardo intorno e sono tutti intenti ad osservare i loro telefonini. C’è silenzio, solo teste chine, un girone infernale di dannati che sembrano dover espiare chissà quali colpe, restando intenti a fissare, in basso, uno schermo. Nessun contatto visivo, nessuna chiacchiera, non un fiato.

Ma siete tutti giovani! Tutti ragazzi! Che state facendo? Non la vedi quanto è carina la ragazza che hai di fronte? E tu? Non vorresti chiedere a quel ragazzo dove è andato a fare surf? Uno ha un braccio fasciato, forse è stata una medusa o si è fatto male in una partita a volleyball. Sono tutti da soli, avvolti da una membrana invisibile che li separa, li allontana. Vi siete divertiti in vacanza? Studiate? Lavorate? Che sogni avete? Mi giro a guardare “mio fratello”, ma ha appoggiato la testa di fianco e sta dormendo; l’americana scrolla il telefono. Riflessi azzurrognoli e lampi di luce si riflettono sulle pareti della carrozza, mentre parte l’ennesimo annuncio fastidioso.

Prendo il mio libro, aspetto il silenzio e, tornando col pensiero allo sciabordio delle onde, riprendo a leggere dal capitolo che avevo interrotto, tenendo in mano la porzione di madreperla raccolta al tramonto sul bagnasciuga.

Solipsismo in paradiso

Chiusa la conversazione. Aveva appena toccato la cornetta rossa per terminare la chiamata con la sua amica. Rimase a fissare le tende mosse dall‘aria del ventilatore, chiuse gli occhi.

Lei era l’amica cui confidare tutto, quella da cui ti aspetti risposte e rassicurazioni. Sapeva ascoltare, era come un abbraccio e sapeva cosa si aspettavano gli altri. Un abbraccio.

Si alzò per cercare le sigarette, ne aveva già fumate troppe mentre ascoltava lasciando che il fiume di parole riempisse la stanza, l’aria, la sua mente. Quella sera avrebbe mangiato da sola come succedeva da troppo tempo. Importava? Scostò le tende e rimase a fissare il giardino che sembrava immobile nella calura, arso da raggi impietosi. Pensò al deserto, alla forza devastante del sole, così potente, così importante. Poi, pensò alla luna, fredda, algida, lontana, sempre uguale e sempre diversa.

La sera prima aveva mangiato fuori, nel suo angolo di paradiso, alla luce delle candele alla citronella, ed era rimasta ad osservare il cielo, mettendo le mani a conchiglia intorno agli occhi, facendo un improbabile binocolo che potesse puntare lontano, che arrivasse ad osservare il grande carro e il piccolo carro. Aveva cercato la costellazione del sagittario e quella della bilancia, le uniche che riconosceva, ma il cielo non era limpido, i suoi occhi non erano limpidi. Le lacrime erano scivolate sulle guance, vicino alle orecchie, fino al collo. Tornando in posizione eretta, sentendo la cervicale che aveva sofferto, si era versata un po’ di vino bianco fresco nel calice e aveva appoggiato la testa sullo schienale della sedia, restando ad osservare le ombre tremule sul muro di fronte.

Quella sera però non le andava di mangiare fuori. In effetti non le andava proprio niente. Era come se quella telefonata l’avesse riempita, come se avesse fatto indigestione, sentiva chiaramente il peso di tanta indecisione alla bocca dello stomaco, il tedio dei lamenti che ingolfavano il fegato, un cerchio di opportunismo che le attanagliava le meningi.

É solo che le persone hanno bisogno di sfogarsi.

Si girò di colpo e il gatto la stava fissando. Due smeraldi tondi che la scrutavano intensamente, immobili, immensi. Il gatto si mosse lentamente fino ai suoi piedi e rimase seduto, al suo fianco, come una statua, come un guerriero pronto a difenderti. Non si toccarono. Squillò il telefono, era la sua amica, di nuovo.

Lei respirò a fondo e lasciò che il rumore del ventilatore riempisse l’aria fino ad arrivare alla sua testa. Chiudendo gli occhi, s’immaginò il fragore delle onde del mare, la lunga linea blu che separa l’acqua dal cielo e le sembrò di sentire l’eco lontana del cozzare di boe, un peschereggio che rientrava. Un sorriso, si ricordò del sorriso di un vecchio pescatore, un sorriso senza due denti, bianco come l’avorio, nel viso accartocciato da una vita senza protezioni, schermi, maschere.

Il telefono squillò di nuovo ma lei si era alzata ed era uscita. Il gatto rimase seduto fino a quando il telefono si silenziò.

Quella sera lei avrebbe mangiato nel suo angolo di paradiso.

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Impulso di scrittura giornaliero
Quali strategie usi per mantenere la salute e il benessere?

Fuggire dalle tossicità è un atto di coraggio e cura di sé. Se qualcosa mi fa sentire a disagio, svuotata o fuori posto, cerco di ascoltare quell’istinto. Allontanarsi non è egoismo, ma protezione. Circondarsi di chi può farci crescere, non di chi ci consuma, perché meritiamo pace, chiarezza e relazioni che nutrono, non che prosciugano. La pace interiore vale più di mille legami forzati e liberarsi è il primo passo per rinascere.

E poi… tanta frutta e verdura, movimento, gioco, sport, risate e sogni!😜

La memoria non ha muri

Concluso. Avevano terminato con la lettura infinita, le firme e la consegna degli assegni.  Finito tutto. Venduta. Uscendo dallo studio del notaio avvertì il vuoto nello stomaco, una sorta di panico controllato che non contorceva le budella ma si dilatava, muovendosi lentamente nella pancia. L’acquirente volle offrirle da bere e, al bar, davanti a un analcolico, le chiese di passare insieme nella casa, voleva darle qualcosa, qualcosa che aveva dimenticato.

Possibile?

Il tragitto fu breve e triste, con un senso di colpa crescente, quasi avesse abbandonato un cucciolo per strada. Il portone, l’androne e l’ascensore. Osservava tutto, ogni angolo, ogni imperfezione che la salutava. La porta, la porta della casa dei suoi genitori, con ancora attaccata la targhetta con i loro nomi. Il suono delle chiavi che aprivano, un rumore così intimo, familiare. Lui entrò e accese le luci, poi andò ad aprire le finestre e le persiane, lasciando apparire le stanze vuote, sventrate.

Era stato duro decidere cosa vendere e cosa tenere, dividere con il fratello, gesti che avevano lentamente sbranato gli oggetti dei suoi genitori, soffermandosi, di tanto in tanto, a guardare gli album delle foto, divise per anni.

Gli angoli della casa erano carichi di energia, i segni sul parquet erano cicatrici nella memoria. Ogni stanza era colma di ricordi di vita, di parole non dette, di segreti che non avrebbe mai saputo.

Le tende si mossero un po’ per la corrente d’aria mentre i passi rimbombavano nel salone vuoto, senza neanche un mobile. L’acquirente lo aveva voluto completamente libero. Era rimasta solo una lampada da terra, sotto la cui luce si sedeva suo padre a leggere. Tutto il resto era stato portato via e sistemato in scatoloni accatastati.

Si diresse verso la cucina e le sembrò di vedere le ombre dei suoi genitori, di spalle, mentre, uno di fianco all’altro, preparavano le loro medicine per la sera.

  • Ecco.

Quasi spaventata, come se l’avessero svegliata di colpo, si voltò e vide un quadro tra le mani del nuovo proprietario, lo sconosciuto che stava già marcando il territorio, il suo territorio.

Era un quadro della sua mamma. Come aveva potuto dimenticarlo? Si ricordò di averlo appoggiato sul letto, quel giorno stava piovendo e suo fratello non la smetteva di parlare.

Lo prese tra le mani, lo fissò avvertendo la commozione che tracimava dagli occhi feriti da un riverbero. Chiuse e aprì gli occhi più volte cercando di mettere a fuoco. Erano là, riflesse chiaramente, le mani di sua madre, bellissime mani, con uno dei suoi anelli “matti”, enormi e meravigliosi. Chiuse gli occhi.

Ringraziò e senza guardare più niente, avvinta a quel quadro, salutò con i convenevoli di rito e chiuse la porta dietro di sé.

Ci sono case che ti lasciano solo quando sei pronto.

SPAM

Sono partiti. I suoi amici sono partiti per le vacanze. Sveglia, pillole, caffè e bagno. Aggiunge un’altra tacca alla settimana. Un’altra giornata in cui cercare qualcosa da ricordare. Così esce, come sempre, ha le sue commissioni da fare, quasi sempre le stesse, negli stessi negozi in cui incontra le stesse persone. Possibile? Devastante. Corre, corre sempre. Gli impegni si accavallano, anche se riesce a risolvere tante questioni, per lo più banali, ma comunque tossiche. Ma non riesce mai a staccare veramente, neanche quando si isola per un po’, quando si ferma a occhi chiusi ascoltando il suo respiro.

Si alza il vento e porta nuvole cariche di pioggia. Ora è fermo, sotto un temporale estivo, con l’ombrello che ripara appena. É fermo. Sposta l’ombrello, lascia che le gocce arrivino sul viso, sui capelli, lascia che il braccio scivoli di fianco con l’ombrello, fino a terra. Un tuono lontano sembra parlargli: ci sono. É un suono caldo, un abbraccio che arriva fino al cuore. Le macchine stanno passando veloci, di sicuro qualcuno lo starà guardando e si starà chiedendo cosa fa. Le gocce arrivano agli occhi e la sensazione non è quella che si era immaginato. Non sono come il collirio, oh no, sono piccole e fastidiose, gli appannano la vista. Non importa. Comincia a sentire le spalle bagnate, qualche rivolo che scende sul collo e sul petto.

Arrivano delle persone, sta ingombrando il piccolo marciapiedi. Meglio spostarsi. Piove. Annusa l’odore dell’aria bagnata, guarda i muri arroventati che odorano di pietra e sembrano antiche carte assorbenti, macchiate qua e là da minuscoli punti che appaiono e scompaiono. Il cielo è vivo. Si spostano le nuvole assorbite dal sole che reclama il suo regno. Vincerà.

I suoi amici sono partiti, e non lo hanno invitato.

“Sono finito negli spam.”

Dolcezza

La giornata stava per terminare quando entrò nel supermercato. Non cercava nulla di particolare, giusto un po’ di prosciutto da mettere sotto i denti.

Si aggirava tra le corsie con una leggerezza che solo i single dal cuore spezzato possono avere. Si fermò davanti al banco del salumiere, attirato dal profumo penetrante del prosciutto crudo che si mescolava con quello del formaggio stagionato.

Incredibile come certi aromi si mescolino in un’armonia spontanea.

Si fermò ad osservare la distesa di cibi pronti, le vaschette ripiene di intingoli, qualcuna dai colori poco invitanti, ma tutto era sistemato come in un dipinto, quasi in prospettiva. C’era stata sicuramente una ricerca alla base, niente era dato al caso. Distolse lo sguardo per non essere rapito da quell’ammasso di cibo e gli occhi si fermarono sul vetro del banco. E lì, su quel vetro brillante, sotto il neon del negozio, vide riflessa una ragazza. Le mani. Le sue mani.

Le dita lunghe e sottili come strumenti d’arte, e le unghie lunghe e levigate che somigliavano a conchiglie appena sbiancate dal mare. Una combinazione di grazia e forza che lo colpì, una poesia di carni delicate e vellutate. Non riusciva a staccare gli occhi dalle sue mani. Era convinto che, se avesse avuto il coraggio di guardarle abbastanza a lungo, avrebbe scoperto un intero universo tra quelle dita.

E gli apparve l’immagine di una lunga spiaggia assolata. Il sole caldo, ma non troppo, il vento che le scompigliava i capelli, quelle mani che accarezzavano le onde, le lunghe dita che sfioravano la sabbia sulla riva, mentre lui si sentiva più in forma che mai, come se i venti marini avessero magicamente aperto la sua mente. Quelle mani gli stavano carezzando l’anima.

“Mi scusi,” le chiese con una voce che suonava più come una preghiera, “ha mai pensato che, un giorno, quelle mani potrebbero raccogliere un cuore impazzito per loro?”

Lei lo guardò imbarazzata, prese il suo pacchettino e si allontanò.

Era tornato alla realtà, al freddo chiarore delle luci, in mezzo ad altre persone che non potevano lontanamente comprendere il suo viaggio immaginario in una storia d’amore completa di spiagge, onde e conchiglie. Venne scosso da un brivido, come un feticista deluso.

In fondo, quelle mani erano state solo una scusa per sognare un po’ di dolcezza, nel suo mondo.

“Dica dottò!”

L’ironia. Un’arma potente.

Impulso di scrittura giornaliero
Come capisci che è il momento di staccare? Cosa fai per realizzarlo?

Sei nel traffico, hai finito di lavorare e ti senti in una scatola. Macchine ovunque, gente ovunque, clacson e semafori. Poi, un ‘altra, che sta come te, decide di fare retromarcia per uscire dal parcheggio, senza guardare. Ma sì, prendimi pure in pieno la portiera! Ecco, mentre l’urlo sta uscendo dalla tua bocca come un mutante, e l’occhio ti scappa sullo specchietto retrovisore, rimandandoti una te deformata e tendente al verde acido,,, direi che può essere un segnale di leggero stress. Se te ne accorgi ti puoi ricomporre, riarrotolare la lingua, aspettare che i capelli tornino allo stato normale e magari fermarti. Lì, dove sei. Un attimo. Scendere e respirare. Non troppo, se no vai in iperossigenazione, e non fa bene.

L’ironia salverà il mondo. (anche se sei stressata/o)

Il silenzio dopo il mare (4)

Ci siamo! Questo racconto iniziato per gioco si conclude qui, almeno, sulla carta.

“Il silenzio dopo il mare”

Le profondità

Sono le h 20.00. Laura ha parcheggiato la macchina dalla parte opposta alla casa in cui vive Anna, si è accesa una sigaretta, abbassando un po’ il finestrino. C’è ancora chiaro e un po’ di persone che stanno camminando, forse verso casa o forse hanno già mangiato. La zona non è periferica, è un quartiere tranquillo, non quello che si aspettava. Nessun brutto ceffo o sbandati, non è nella perdizione, in uno di quei luoghi in cui non vanno le brave persone. Niente a che vedere con gli acquari tranquilli e perfetti delle zone centrali, somiglia più a un anfratto naturale, popolato da militi e una varietà di organismi che non hanno trovato niente di meglio.

Sta aspettando, forse è arrivata troppo tardi, del Professore nessuna traccia, sarà già salito? Il telefono vibra e s’illumina un messaggio. É di Anna.

Mi dispiace moltissimo ma devo rimandare l’appuntamento per cause personali. Mi perdoni. Le può andare bene domani?

Laura rimane a fissare lo schermo, poi guarda la casa, l’intonaco verdino, le ante marroni, alcune chiuse. Non sa cosa pensare ma, soprattutto, non sa cosa fare.

Si apre il portone. Escono il Professore e una donna. É una donna giovane, alta e sottile, con i capelli biondi a caschetto e un completo in lino bianco. Chiude la porta e s’incamminano. Che fare? Li seguo? Li seguo.

Camminano piano e parlano. Allora lui la conosceva già?

Arrivano ad un piccolo giardino, lo attraversano e si dirigono ai tavolini di un bar. Laura cammina svelta, scivola come un anguilla a pelo sabbia, li supera senza farsi notare e si siede dietro di loro, in un angolo vicino a una siepe. Le arriva il profumo fresco della ragazza e quello amaro del Professore. Li vede guardarsi negli occhi, ordinare qualcosa da bere, due gin tonic, poi silenzio. Passano alcuni clienti, un banco di sardine, si spostano disordinatamente ma in gruppo, fino a che trovano la zona adatta. Il Professore sta parlando ma Laura non riesce a sentire, il gruppo si sta sistemando. Che nervi! Ce la fate a sedervi?

  • Perché non torni a casa?

Questa domanda le arriva come un colpo di arbalete e rimane in apnea, concentrata. Fissa la ragazza, la guarda meglio. Le mani. Ha le mani grandi dalle dita lunghe. Di colpo lei scoppia in una risata e il Professore le fa eco. Hanno la stessa risata.

Lui si toglie gli occhiali e li pulisce, lei gli sta sorridendo e lo accarezza in viso. Sta piangendo, il Professore sta piangendo. Cosa gli hai detto? Ti picchierei per averlo fatto piangere!

  • Papà, non soffrire, lo sai che sto bene. Ti ho già detto che presto cambierà, molto presto. E forse, forse, allora ci ritroveremo, se vorrai.

Sua figlia! Non deve essere facile. Ma come sarà successo? Chissà cosa l’ha portata a scegliere quel tipo di vita?

  • Quando?

La mano di Anna scivola sul tavolo e avvolge quella del Professore. Restano così, stretti come le valve di una capasanta, con le venature in rilievo sulla pelle chiara. Ma l’acqua del mare non è immobile, mai, e nasconde, confonde.

  • Chiedo scusa, ciao Ferdinando. Ti ho lasciato il vestito che mi hai prestato davanti al portone di casa. Scusate eh! Ma è tuo padre? Buonasera, sono Alessandro.

Alessandro è una mora dai capelli lunghi e lucidi, con i polpacci un po’ troppo grossi. Si salutano e se ne va, ancheggiando sui tacchi.

Anna/Ferdinando e il Professore sono vicini ma lontani. Lui è un delfino, ma lei, non è una sirena.

Non ancora.

C’è tanta luce, quel riverbero che scoppia un attimo prima del tramonto e inonda tutto confondendo i colori, coprendo la superficie del mare con una lamiera morbida e danzante.

Là sotto, la vita non è come ce la immaginiamo.


Beh, grazie per aver letto “Il silenzio dopo il mare”!🧜

Il silenzio dopo il mare

Aveva arricciato le dita dei piedi nella sabbia del bagnasciuga mentre l’acqua fresca del mare, assonnato e dolce come una carezza, non aveva fretta, ma lei sì.

  • Buongiorno! Cosa prende?

I soliti rumori, le solite voci troppo alte. Perché urlano tutti? Il bar, il più bello della costa,  si stava riempiendo di gente in vacanza, ciabatte e capelli spettinati, borse colme e bambini già iperattivi. Come ogni giorno, scandito da gesti meccanici, preparava le colazioni, posizionava piattini e tazzine, controllava gli scontrini con discrezione e cercava un contatto che andasse al di là di un sorriso di circostanza. Aveva imparato negli anni, sapeva non superare il limite.

Il limite.

Ognuno aveva il suo e, nelle sue giornate, aveva suddiviso i clienti in 6 tipologie.

I Polpi, che ancora dovevano andare a dormire, ma biascicavano l’ordine con lo sguardo basso o velato dalla roba, acidi, ecstasy, hashish. Stropicciati fin nell’anima.

Le Ricciole, i villeggianti, eleganti fin dalle 7.00 del mattino. Gli uomini col quotidiano sotto al braccio e le donne con cagnolino al guinzaglio. Li conosceva tutti e, qualcuno, conosceva lei.

I Fritti misti, che erano entrati per sbaglio ma, ormai, già che c’erano, prendevano un caffè al banco. In genere venivano il primo giorno, prima di andare a fissare ombrellone e sdraio per la famiglia.

Gli Spiedini, i commessi dei negozi di lusso della strada principale, già stanchi, incravattati, profumati, con trecce di capelli rigide come fruste e unghie smaltate perfette.

Le Cozze, coppiette di innamorati. Esistevano dei sottolivelli. O erano visibilmente in amore, mano nella mano, occhi negli occhi, o erano già scaduti, come uno yogurt cagliato, l’incanto stava svanendo nei grumi di ricordi ancora presenti.

Le Meduse, i single, solitari e più o meno loquaci, a volte un po’ persi. Uomini e donne in un universo parallelo. Si chiedeva spesso come vivessero. Anche lei faceva parte di quell’universo e conosceva bene la sensazione di isolamento, come un tir in autostrada tra tante macchine piene di vita.

Le Sardine, famigliole perfette, papà, mamma, figli, più di uno. Passeggini spaziali e gadget di ultima generazione, le nuove tate per tacitare i bambini, seduti fuori, con un tripudio di brioches, caffè e latte, miele e nutella.

La prima ondata era finita, lasciando le cose da riordinare, pulire, sistemare, come dopo una mareggiata.

  • Allora Rica che hai fatto ieri sera?

Stefania, la sua collega, sposata, con un figlio e in attesa del secondo, cercava di sistemarla ad ogni costo. Proprio non le andava giù che a 38 anni fosse ancora single, una medusa.

L’aveva soprannominata Rica dal primo giorno di lavoro, dicendole che sembrava un ostrica, chiusa e coriacea. Qualcosa di pregiato, in fondo. Lei si chiamava Laura.

  • Sono rimasta in casa, sul terrazzo, a leggere.
  • Tesoro mio, ma se non ti dai da fare, se non esci, incontri un po’ di amici, mica cambia! I principi azzurri sono finiti!

Mi sa che hai preso l’ultimo, pensò Laura. Parlava molto con sé stessa, era giunta alla conclusione che a volte le parole erano inutili. Meglio, molto meglio ascoltare e, osservare.

Era arrivato il Professore, bella persona, d’altri tempi, come avrebbe detto sua madre. Ogni giorno entrava con passo tranquillo, al termine della mareggiata, ordinava il solito e si sedeva al suo tavolino, all’interno del bar. Fuori già si accalcava la folla diretta alle spiagge, rimbalzavano le chiacchiere nella calura che cominciava a dominare la giornata.

  • Buongiorno Laura.
  • Buongiorno Professore.

Parlavano poco, solo se sortiva un argomento di conversazione, in genere da lui. Era vedovo e molto corteggiato, a volte in maniera talmente evidente da risultare imbarazzante. Laura osservava la sua eleganza, tradita da qualche particolare dismesso, come le camicie non stirate. Eppure, invidiava la sua tranquillità, la sua sicurezza non ostentata, quella capacità di declinare inviti senza recare offesa.

Un Delfino, senza dubbio.

  • Laura vai al 3, sono arrivate delle clienti.

Anni di lavoro in quel bar e ancora non era riuscita a memorizzare i numeri dei tavolini all’aperto, un rifiuto inconscio. All’esterno, sotto al tendone a strisce bianche e verdi, tra vasi colmi di piante, erano stati collocati dieci tavolini da quattro, in ferro battuto e pietra lavica, costosissimi e pesantissimi. C’era solo un tavolo occupato, meno male.

  • Buongiorno, cosa vi posso portare?

C’erano tre giovani donne, sorridenti, dalla carnagione appena dorata che sbucava dai copricostume, avvolte da un fresco profumo di lavanda e cedro.

  • Buongiorno! Tre cappuccini, uno col cacao, e tre croissant vuoti.

L’ordinazione le venne fatta da due occhiali a specchio che le rimandarono il riverbero del sole.

  • Succo d’arancia?
  • No, grazie, anzi sì, per me.

Rientrare nel bar e passare l’ordine fu come tornare al sicuro. Tre Sirene sedute al tavolo 3. Paolo e Mattia, i camerieri, fecero a gara per andare a portare le colazioni.

Dal suo antro protetto, Laura osservava la scena già vista migliaia di volte. La battuta, le domande, i consigli. Poi, alla fine, i gelèes di frutta su un piattino con frangino, offerti alle dee, propizi per chi sa quale futura evoluzione. Il più delle volte toppavano alla grande, ma, chi può dirlo?

Laura era uscita sul retro un momento, per fumare. Il vicolo era stretto, tra le pareti delle case, con i cassonetti alla fine. Alzando lo sguardo era possibile vedere una fetta di cielo azzurro, come una larga riga. Da entrambi i lati, il vicolo sbucava su strade pedonali e si vedeva passare qualcuno, di tanto in tanto, passeggiare all’ombra dei pini marittimi.

C’erano giornate in cui soffiava un po’ di vento, passava un po’ di corrente, un sussurro lieve, ma non oggi.

Governare la passione

Le era sempre piaciuto passeggiare sulla banchina, tra lo sciabordio dell’acqua e i rumori cantilenanti delle barche ormeggiate. Nelle giornate ventose il porto diventava un luogo sospeso tra suoni, odori e lunghi respiri. Si sedette al bar, sul pontile coperto, davanti a un cielo stropicciato. Il vento arrivava a raffiche, a volte così forti da far tremare le assi un po’ sconnesse, interrompendo il silenzio, come certe litanie che non puoi fermare. Ascolti. E lei ascoltava, e osservava lontano.

Il mare aperto fa paura.

Le sartie delle barche vibravano come corde di violino tirate dal vento. Ogni tanto gli scafi cozzavano tra loro con un suono legnoso, sordo, quasi animale, e le boe gemevano, trattenute a fatica. Inspirò a fondo l’aria che sapeva di sale, alghe e gasolio. In lontananza, minuscola, una barca a vela appariva e spariva dietro il respiro gonfio delle onde. Là in fondo, c’era il suo amore, su quell’imbarcazione che sembrava un modellino in una bottiglia, con le vele spiegate. Ma non era immobile, era viva.

Lo sapeva, la passione era così: come quella tempesta. Ti trascina, ti solleva, ti acceca. È infuocata per un attimo, e poi ti lascia nuda, ebbra di umori, senza più appigli. La governi, credi, ma è lei che gioca con te.

A riva le onde non spumeggiavano, smorzate da una cappa di umidità che tagliava il fiato, ma laggiù, al largo, il vento stava crescendo e la barca rallentava. Le vele, prima gonfie come muscoli in tensione, si stavano afflosciando come petali bagnati, piegate per non cedere alla furia.

* “Ma c’è’n che da n’tuffa!”, gridò un vecchio pescatore, seduto su una bitta, indicando la barca lontana. La sua voce si perse tra le altre, tra i mugugni e le risate rauche di chi il mare lo conosceva troppo bene per fidarsi. Il loro dialetto si fondeva con i cigolii del legno e il lamento delle cime tese, come un coro stanco e saggio.

Un raggio di sole, improvviso, squarciò le nuvole e colpì il veliero. Un occhio di bue, perfetto. Tutto sembrò fermarsi: il mare, il vento, anche i mugugni dei vecchi. Un quadro. Le sembrava proprio un quadro.

Le onde si facevano più alte, più cattive, e lei si alzò in piedi per poter vedere oltre, tendendo le braccia per prendere la barca col pensiero, riportarla a riva. Cielo e mare avevano lo stesso colore: un impasto colloso, bluastro, quasi solido.

Quando rientrate?
State rientrando?

Non vedeva più il veliero.

Il respiro si era fermato, con le mani a scudo sul viso cercava ancora un segno, un profilo, una vela. Ma la passione era là, nascosta, inghiottita dal mare aperto. Sarebbe tornata. Bastava aspettare.

  • *Ma c’è una cosa da guardare!