Revival

Si era perso. Il navigatore lo stava facendo andare in circolo, ricalcolava continuamente il percorso. Succede. Ma a quell’ora, notte fonda, la cosa era davvero irritante. Un bar, quello là in fondo sembra un bar. Decide di fermarsi per chiedere informazioni e, già che c’è, andare in bagno. Il beep della chiusura porte, i fari che lampeggiano, l’elettricità statica che scivola a terra è una scarica veloce, che lo lascia come se lo avesse investito una secchiata d’acqua fredda. L’effetto corroborante di un respiro a pieni polmoni, accompagnato da una strana sensazione di spossatezza, indolenzimento. Non riesce neanche a stiracchiarsi, troppe ore al volante.

Si avvicina alla porta del locale, sotto la luce fredda e pallida di un neon, accompagnato dal rumore dei suoi passi sul selciato. L’entrata è in legno e vetro, con appiccicati vecchi e consunti stickers, e una maniglia in ottone usurato. Entra e vede il posto affollato, stranamente gremito da personaggi, come un cast di comparse in pausa, sparsi a gruppetti. Due anziani eleganti, in giacca e cravatta, assorti davanti ad una scacchiera, una coppia gay che amoreggiava nell’angolo, quattro signori ad un tavolo vicino alla parete dove le carte da gioco volavano tra insulti bonari e bicchieri di vino rosso.

Si avvicinò al bancone dove una prosperosa signora dalle labbra carminio, lo stava fissando, senza sorriso.

“Il bagno è qui a destra, questa è la chiave. Le faccio un caffè?”

Prese la chiave e si avviò. Si aspettava una turca, e infatti. Sull’anta interna della porta era appeso un poster, con una bella ragazza ammiccante, in pantaloncini di jeans e camicetta annodata. L’impresa richiese la massima concentrazione, mentre i pensieri andavano ai clienti presenti a quell’ora di notte, in quella zona sperduta, periferica, lontana, col juke box che suonava canzoni dimenticate. Si era lavato le mani ma non c’era niente per asciugarle e non aveva neanche un fazzoletto. Le sfregò violentemente nel tentativo di togliere più umidità possibile. Una risata forte, femminile, come un verso di un animale, lo accolse al suo rientro nella sala.

Lei, era seduta su uno sgabello al bancone del bar, fasciata da un vestito in jersey che le lasciava scoperta una gamba, e parlava con labbra carminio. Ad ogni scambio di battute, la risata sguaiata, forzata, esplodeva nel locale, sovrastava la musica, rimaneva quasi sospesa vicino al soffitto, per poi svanire, fino alla seguente. Il caffè era buonissimo e glielo aveva servito accompagnato da un boero.

“Guarda se hai vinto”

“Prego?”

“Nel boero, guarda se hai vinto.”

Lo scartò, il cioccolato era vecchio, striato, ma, all’interno dell’involucro, sul biglietto, lesse: Hai vinto 10 boeri!

Sorpreso, imbarazzato come un ragazzino, mostrò il biglietto alla proprietaria che cominciò a staccare i cioccolatini dal totem rosso che li raccoglieva. Pagò e rimase a fissare quel mucchietto davanti a sé, sentendosi gli occhi di tutti addosso. La risata sardonica lo scosse e, come se fosse la cosa giusta da fare, lasciò un boero ad ogni persona presente in quel bar , alla risata sardonica, alle labbra carminio, ai quattro giocatori di carte, ai due gay e ai due che stavano sfidandosi a scacchi. Nessuno ringraziò, nessuno fece un cenno.

Uscì accompagnato da un revival e, chiusa la porta, tutto tacque.

In macchina, dallo specchietto retrovisore, vide la luce dell’insegna allontanarsi fino a sparire. E non aveva chiesto informazioni.


Foto da unsplash

L’importanza dei dettagli

La fila alla cassa era immobile da un po’ e la gente cominciava a spazientirsi. La percezione del tempo, in certi momenti della vita, sembra alterata al punto di essere convinti di sprecare minuti preziosissimi. E così, gli animi cominciarono ad inquietarsi per l’attesa, mentre gli sguardi analizzavano, con precisione certosina, nei carrelli davanti al loro, la quantità di roba e il tempo che ci sarebbe voluto per scaricarla, registrarla, impacchettarla.

Le persone in fila stavano per arrivare al limite della sopportazione. Era evidente. Ma la cassiera, tra l’annoiato e lo stizzito, stava aspettando che il vecchio signore davanti a lei, finisse di pagare. Mancavano ancora circa due euro e, frugando, nelle tasche, dappertutto, l’anziano stava raccogliendo monete e monetine, poggiandole sull’acciaio dello scivolo della cassa. Niente da fare.

“Mancano ancora sessanta centesimi, che facciamo?”

Gli occhi di lui, velati dalla cataratta, il corpo perso in un completo diventato troppo largo, quelle mani un po’ tremanti e l’imbarazzo per gli sguardi addosso. La signora che era proprio dietro, col suo carrello pieno e il tempo contato, si avvicinò e mise, violentemente, sessanta centesimi sul mucchietto di monete.

“Ecco qua. Così ci muoviamo.”

E come se si fosse aperta una diga, lasciando scorrere l’acqua sui campi assetati, la cassa suonò emettendo lo scontrino, la cassiera tirò un sospiro e tutti nella fila mugugnarono contenti. L’anziano prese il suo pacchetto, si voltò per ringraziare la signora, scusandosi, ma lei era già indaffarata a sistemare la sua spesa, ingombrando, riempiendo sacchetti.

Quando il vecchio sparì oltre l’uscita, iniziarono i commenti, prima sommessi, poi ad alta voce, un serpente di malignità che si muoveva lento, tra sguardi eloquenti e certezze granitiche. Dal “Le pensioni che danno sono ridicole” al “A quell’età dovrebbe stare in un ricovero”, fino al commento più atteso, quello della signora, “Piuttosto che ridursi così, meglio morire.” Meravigliosamente malvagia, il diavolo è nei dettagli.

Tra le luci e la confusione sommessa del supermercato, in quel micro-mondo dai tempi accelerati, non sono permesse esitazioni né parole di troppo. Una volta usciti dal serpente, si riprende la propria vita, il proprio ritmo, e ci si avvia veloci, quasi si stesse per uscire di prigione.

E lei, s’incamminò. Appena fuori, proprio davanti alle porte che si aprivano e si chiudevano senza sosta, l’anziano signore, con sessanta centesimi in mano e una rosa, la stava aspettando, per ringraziarla. Nell’altra parte del mondo.


Foto da unsplash

La magia

<Mi è venuto un attacco di scrittura.>

Come una bronchite, di quelle lunghe, anche fastidiosa, che non ti lascia dormire.

Così si alzò per andare al computer, per sentire quel ticchettio dei tasti che la calmava come uno sciroppo contro la tosse. Le righe che si riempivano di parole, la mente che si riempiva di pensieri, il portacenere che si riempiva di sigarette lasciate lì, a consumarsi.

Che ore saranno? Importa? No.

Ci sono momenti nella vita in cui provi qualcosa di speciale, ti è concesso, e ti senti vivo. Ed eccola, la scossa che percorre le braccia, le mani, arrivando alle dita che sembravano avere vita propria. Le osservava mentre i pensieri fluivano fino ai tasti. Non guardava lo schermo, pensava, già sapeva che avrebbe dovuto correggere chissà quanti refusi, non aveva importanza.

Come da bambina, quando sull’altalena guardava il mondo a testa in giù, sentiva il suo mondo sottosopra.

Quella sensazione di correre per arrivare sempre nello stesso posto, impegnata a combattere qualcosa che non è visibile.

< Mi sa che ho la febbre. >

Continuava a scrivere e cancellare, riscrivere.

Capitava, a volte, ed era come nelle fiabe, la magia che fa tutto, e la faceva sentire come uno strumento, una prolunga dei tasti. La magia della mente che stava facendo un defrag: le scene, le persone, i dialoghi, apparivano e sparivano, lasciando tracce di amore, odio, desiderio, vita, si sovrapponevano e svanivano. Pensieri come piume messaggere, un Allegro di Bach che sfrigolava le sinapsi, seguendo il suo ritmo incessante. Guai a fermarsi per fare pipì, il concerto doveva finire, essere compiuto.

Capita, a volte, la magia.


Foto di Michael Dziedzic da Unsplash

Artemide per un giorno

Cosa c’è di più bello dell’atmosfera che si crea attorno ad un evento che ti ricorda l’infanzia? Come un’aura, un turbine di energia che sovrasta e avvolge. Non importa se hai sbagliato abbigliamento, non importa se c’è tanta gente, non importa neanche se hai parcheggiato su Saturno, perché non c’è un angolino libero.

Oggi c’è la Festa delle Castagne. Ed è una splendida giornata.

Il sole è tiepido ma brillante, il profumo di caldarroste arriva portato da un vento leggero. Poi, arrivano anche le foglie, tante. Ma non importa. Alzi lo sguardo sulle fronde degli alberi pronti a spogliarsi dei loro colori e sai, lo sai bene, che presto ti toccherà raccoglierli quei colori. Ma non importa. Vuoi solo metterti in coda, insieme ai bambini, alle famiglie, e arrivare al cartoccio di caldarroste.

La fila si ingrossa, i bambini cominciano a piangere, le mamme litigano con i papà. Vorresti che arrivasse un colpo di vento, forte, di quelli che ti costringono a smettere quello che stai facendo per proteggerti, per tenere la giacca che hai in mano o spostare i capelli che ti stanno coprendo il viso. E arriva. Ma tu sei soave.

Sposti l’attenzione altrove, guardando il piazzale di fianco. C’è una mostra di trattori antichi, belli. Li stanno fotografando da tutti i lati, con i bambini seduti in braccio, appoggiati alle ruote enormi, appoggiati ai manubri enormi, davanti, dietro. Poi, la folla si sposta piano, indietreggia.

Che succede? Partono?

E si accendono i motori, sbuffando nuvole nere, roboanti, lenti e rumorosi, i trattori si muovono.

C’era proprio bisogno? Era necessario farlo adesso?

Lo smog si diffonde presto e il profumo del verde, delle castagne, vengono inghiottiti, tutti si mettono fazzoletti sul naso e la bocca. Ma stai arrivando al traguardo, il tuo cartoccio è lì e lo prendi, incurante del calore sprigionato da quei frutti roventi. Ti allontani veloce, vuoi tornare a respirare e cerchi un posto dove sederti.

Scusate, permesso, mi scusi, vorrei andare là.

Dieci metri in dieci minuti, ma almeno le castagne si sono raffreddate un po’, i rumori sembrano attutiti dal vento. L’unico posto libero é nel bar, e meno male, hai appena mangiato una castagna che ti ha allappato la bocca e ci vuole proprio una bella bottiglietta d’acqua. Entri e ti metti di nuovo in coda. Oggi va così.

Poi, ti vedi.

Nello specchio dietro la cassa del bar, sopra la tua testa, il vento e la fuliggine ti hanno regalato una pettinatura simile ad un nido d’aquila, con tanto di foglie e un rametto.

<Prego?>

<Una bottiglietta d’acqua, per favore.>

Non fai una piega. La cassiera ti fissa ma non dice niente. Ti muovi come se niente fosse, come una dea greca, portando con eleganza la tua acconciatura campestre e ti siedi, di fronte alla vetrata.

Fuori, il caos, niente a che vedere con i ricordi delle sagre d’infanzia, ma tra loro e te, il vetro riflette la tua figura, le foglie gialle e arancioni tra capelli, le bucce delle castagne sul tavolino. Intorno tutto si muove veloce, hanno fretta, fretta di bere, fretta di andare a vedere, fretta di mangiare. I colori stanno cambiando, i raggi di sole sono più morbidi, le ombre si allungano e un uccellino si ferma proprio di fianco alla vetrata, forse vuole qualche briciola. Ti fissa un attimo e si gira. Ora siete in due ad osservare lo spettacolo.

Ti guardi… tu, Artemide, e pensi: Mi manca solo un arco e una ninfa. E sorridi.


foto di Jackson David da Unsplash

Ti hanno detto

E così hai aperto gli occhi. Anche oggi.

La sveglia ha suonato la prima volta e l’hai silenziata, sapendo di avere ancora 15 minuti prima del secondo e definitivo squillo. Ti sei crogiolato tra le lenzuola, mezzo scoperto perché fa ancora caldo, e hai passato quei 15 minuti in dormiveglia, forse hai sognato, ti sei stiracchiato, hai affondato la testa nel cuscino, cercando l’oblio.

Ma al secondo allarme, rumoroso e fastidioso come un colpo di clacson al semaforo, sei scattato a sedere, come una molla. Hai ancora gli occhi chiusi e non vorresti, proprio non vorresti alzarti.

Allunghi una mano sul comodino, prendi le tue pillole bianche e rosa e bevi, a collo, dalla bottiglia.

Alzati, forza.

Quanto è difficile, quanto peso hai addosso. Eppure ti hanno detto che sei forte.

Che ne sanno?

Ti guardi allo specchio, la barba, devi rasarti, e dovresti anche andare dal barbiere. Oggi, no.

Un passo davanti all’altro, fino alla cucina, ti siedi mentre aspetti il caffè. I pensili, la tavola, il forno, la macchinetta del caffè. Borbottio e vapore profumato, spegni il fuoco. Rimani così, in piedi, davanti alla moka, la tazzina di fianco che aspetta.

Rimani così.

Hai chiuso ancora gli occhi, vorresti solo dormire. Ma ti hanno detto che sei forte. Versi il caffè e lo bevi lentamente, caffè nero, lungo, senza zucchero, come la tua vita, amara e buia.

Un piede davanti all’altro fino al bagno. Ti hanno detto che sei forte. La schiuma da barba bianca, una nuvola sul viso e il rasoio che traccia solchi, sciacqui e ricominci. Ti hanno detto che sei forte. Le braccia pesano, una lacrima scende lungo un solco appena rasato, tra la schiuma.

Che ne sanno?


Foto di Serhat Beyazkaya da Unsplash

Succede

Piove. Succede.

Esci di casa comunque, impavida, vestita a strati perché la stagione non perdona. Sfidi la giornata con maglietta e pantaloni leggeri, ma ti corazzi con un trench impermeabile. con cappuccio. Ombrello, sneakers bianche. Perché bianche? Ti va di avere un tocco di luce, almeno sui piedi.

E via, fuori, a respirare.

Nonostante il cielo nero, cumuli nembi in lontananza che si muovono lenti, i raggi del sole, a volte, riescono a bucare le nuvole, squarciare, se pur per un attimo, il grigiore, e appaiono i colori. Le foglie d’acero rosso fuoco, il verde brillante delle siepi che aspettano la potatura, addirittura l’asfalto brilla. Ombrello chiuso, la pioggia ha smesso, solo qualche goccia che arriva portata dal vento. Le panchine sono bagnate, schivi le pozzanghere mentre il panorama cambia, dal grigio metallico invernale al luminoso riflesso di un settembre che non cede ancora all’arrivo dell’autunno.

Ora fa caldo, sarà perché l’umidità non dà tregua. Togliamoci lo spolverino.

La vita è fatta di attimi, alcuni sembrano proprio coincidenze ineluttabili.

Scroscio d’acqua sporca, laterale, direttamente dalla pozzanghera a lato del marciapiede. La macchina che è appena sfrecciata in quella pozza, si allontana lasciandoti così. Gocce grigie e marroni maculano i tuoi pantaloni e le scarpe, scendono lente dal braccio fino a terra.

Un attimo. É stato un attimo, ineluttabile.

Succede.

Non emetti suoni, osservi solo. Che alternativa avresti? Il colpevole è sparito, dileguato. le persone ti passano di fianco, schivandoti.

Di nuovo, il sole spacca le nubi, raggi come tante frecce luminose che arrivano a terra.

Ci vuole un caffè. Macchiato.


Jams

Il jet lag comanda, almeno il primo giorno. Dopo aver aspettato che il sole schiarisse, almeno un po’, la parte alta delle facciate dei grattacieli, eccoti a passeggiare, o meglio, schivare una miriade di persone che camminano veloce, quasi correndo verso il posto di lavoro. Escono dalle fermate delle metropolitane come fiumi ordinati, non si toccano, non si parlano, sembrano sempre in ritardo.

Ma tu non hai fretta, se non fosse per il tuo stomaco che reclama, prenderesti anche tu un caffè al volo e ti confonderesti tra la folla.

I negozi stanno per aprire, le luci sono accese e all’interno, c’è un gran via vai di commessi, vetrinisti. Ti fermi davanti ad una vetrina di Bloomingdale’s, semicoperta da un telo. Sbirci col naso quasi appoggiato al vetro, i soliti manichini che sembrano seccati, si lasciano sistemare con lo sguardo perso in un certo snobismo. Uno ti sta fissando. Guardi meglio, non è un manichino, è un ragazzo, vestito di nero, dai capelli spettinati ad arte, gli occhi a mandorla e delle belle mani dalle dita lunghissime, con lo smalto nero. Una catena al posto della cintura manda bagliori ogni volta che si muove. Se rimanesse immobile, tra i manichini, nessuno se ne accorgerebbe. Ma a New York niente rimane immobile.

Quindi, neanche tu.

La Grand Central Station è lontana, un po’ troppo per andarci a piedi, a stomaco vuoto. Metro o taxi? Taxi. Ti volti e vedi che tre persone stanno già col braccio alzato, in attesa, conviene spostarsi un po’. Schivi un tombino fumante, passi davanti ad una Nail Spa, già piena di signore che parlano al telefono, sembrano avere i minuti contati.

Troppo stress appena sveglia.

La corsa in taxi è un rally, un po’ in inglese, un po’ in indi. L’autista ha perso la proverbiale calma dei suoi connazionali, si è integrato con la modalità efficienza, tic, tac, tic, tac. E ti lascia all’incrocio. Meglio. Chiudere lo sportello e vederlo sfrecciare verso il nuovo cliente, è un attimo.

Anche qui tanta gente e, controcorrente, raggiungi l’entrata della Grand Central, ed è come entrare nella caverna di Ali Babà.

La rush hour è passata, il gigantesco orologio segna le 09.25, la luce è morbida, cerchi il piccolo buco vicino alla costellazione dei pesci dipinta sul soffitto, sopra a viaggiatori che si muovono senza ansia e a un monaco seduto in meditazione, immobile come una statua sul pavimento in marmo.

Ecco la tua meta, il tuo coffee shop, piccolo, pulito, elegante, come sempre affollato di business men/women, che parlano sottovoce. Arriva il caffè, lungo e profumato e il solito breakfast, col bacon più croccante di Manhattan, il pane di segale tostato, il bagel e la selezione di jams, marmalade e honey.

Bene. La giornata può cominciare.


Foto di Rodolfo Cuadros da Unsplash

Alla stessa altezza

C’era una volta una bella scarpa, di pelle, colorata, col tacco vertiginoso. ed era una scarpa sola. Da tempo cercava di dare un senso al suo esistere e accettava inviti da tutti e per ogni evento.

Così, si era ritrovata a dover fronteggiare estenuanti corse campestri,  rimanere in piedi per ore in fila all’entrata di concerti, improvvisare arabesque strappa tendini, sfuggire schizzi salmastri in riva al mare, in bilico su dune di sabbia.

Da troppo tempo non trovava una collocazione adeguata, era davvero stanca.

Tante promesse, tante illusioni. Aveva provato a uscire con uno scarpone, ma era impenetrabile, quasi come lo stivale di gomma del mese prima.

Qualcuno le aveva detto che avrebbe dovuto accontentarsi, che non poteva certo pretendere di avere la luna, ma la scarpa voleva solo un’altra scarpa. O meglio, una scarpa che non la facesse tentennare, che l’aiutasse nel dolore di un callo ma anche che condividesse la gioia sfrenata di una serata passata a ballare fino allo sfinimento o la soddisfazione immensa di aver salito insieme un percorso vertiginoso di 4000 gradini.

Chiedeva troppo? Era così sbagliato sperare di avere al proprio fianco qualcosa su cui contare e per cui esserci sempre? Lei sarebbe stata un solido appoggio, la décolleté della vita.

Fu così che la scarpa, un bel giorno, mentre stava sfogliando una rivista, vide la sua anima gemella! Era proprio lei! Ma era già in coppia e  ahimè, l’altra, aveva sicuramente dieci anni di meno…

Cara scarpa, non cedere, non cedere mai. Sbaglieresti e soffriresti. Non vorrai ritrovarti a zoppicare con al tuo fianco una infradito?

Si sa, la vita può riservare momenti difficili come la follia di un tacco rotto, o le suole che prima o poi andranno rifatte ma, in due, si può tenere testa anche ad acquazzoni e pozzanghere, a patto di essere alla “stessa altezza”.


Foto di Marc A Sporys da Unsplash

Venere carnivora

Federica si sta vestendo. La sua amica Chiara l’aveva pregata di accompagnarla al suo primo colloquio di lavoro. Si guarda allo specchio e decide di cambiarsi. Doveva essere al top, lasciare senza fiato.

Era fatta così.

Saluta i suoi velocemente e corre in macchina all’appuntamento al solito incrocio, parcheggia e aspetta. Qualche colpetto sul vetro e Chiara entra in macchina, comincia a parlare, le chiede consigli, le spiega di cosa si tratta.

Chiara è una ragazza carina, dolce, sta ancora studiando all’Università e questa occasione di lavoro part time l’aveva inseguita da tempo.

Le mani di Federica avvinghiate al volante, lo smalto rosso fuoco e le unghie a punta. Chiara le nota ma non dice niente, si aspettava un complimento rassicurante ma Federica è impegnata a cercare un parcheggio.

Entrano nel palazzo accompagnate dal rumore dei tacchi di Federica e dall’ansia di Chiara. L’ascensore sembra non arrivare mai, circondate da impiegati, borse, zaini e braccia cariche di file.

Sala d’attesa. Non c’è nessuno, solo loro due, le fredde luci del neon e una pianta. Sarà vera? Sembra, ma è troppo verde, però è bella.

E arriva la segretaria,

Chiara è pronta. La segue ed entra nell’ufficio dove l’aspetta un funzionario, è un colloquio importante e il suo curriculum era stato d’impatto. A 22 anni già parlava quattro lingue, aveva fatto stage all’estero ed era all’ultimo anno di università.

Si chiude la porta ma Chiara non è sola, Federica è dietro di lei. Perché? Non importa, va bene, andrà bene.

Invece no.

Il tempo di accomodarsi e Chiara capisce che le unghie a punta della sua amica, i tacchi, la gonna un po’ troppo corta e i sorrisi, tra i capelli vaporosi, dondolandosi sulla sedia, non sarebbero stati affatto d’aiuto. Federica interrompe in continuazione, cattura l’attenzione, divaga. Anche il funzionario divaga.

E Chiara inizia a sprofondare come nelle sabbie mobili, la sua mente si agita, raccoglie un po’ di coraggio e sciorina la motivazione, le aspettative, la disponibilità. Parole che le sembrano fluttuare in un’ atmosfera seduttiva, imbarazzante, fastidiosa.

Finito. Saluti e, <le faremo sapere.>

E sono fuori. Chiara è fuori.

Solo in macchina chiede spiegazioni, cerca di capire perché si è comportata come un’avversaria, non come un’amica.

< Era il mio colloquio, ti avevo chiesto appoggio, come hai potuto? Tu hai già un lavoro.>

< La vita è fatta di sfide, ci vuole sempre un pizzico di arroganza. Lezione numero uno. >

L’eco di quella frase le fece compagnia per giorni, sicura di aver perso un’opportunità per leggerezza o troppa fiducia, sicuramente aveva perso un’amica o quella che pensava fosse un’amica.

Sbaglio? Esagero? Tutta questa faccenda mi fa sentire perdente.

E il telefono suona, la risposta è già arrivata. Risponde, ascolta, ringrazia.

Chiamerò Federica.

< Mi dispiace tanto Chiara, non so come dirtelo, ma mi hanno offerto il posto che volevi. Davvero non me lo aspettavo… >

Chiara ascolta e non parla, lascia che le parole riempiano il silenzio, che le scuse si accavallino in un tentativo sciocco di dare la colpa al destino. In fondo non c’era colpa.

< La legge della giungla… Chiara, ci sei?>

< Stavo ascoltando, sono contenta per te, sarai la tuttofare dell’ufficio, non è male. Io invece ho avuto una proposta molto interessante dall’Ufficio Marketing. Sarò nel team che si occupa di relazioni con l’estero, proprio due piani sopra il tuo, vorrà dire che ci prenderemo un caffè qualche volta, se ci ritroveremo… in quella giungla.>

Basta, volare alto.


Foto di Pedro Miguel Aires da Unsplash

R: rosa, rosso, rapace

Oggi c’è un po’ di sole, il cielo è velato da nubi che sembrano zucchero filato, un po’ rosa, un po’ azzurro. Vestita per andare a scuola, soppesa lo zaino nuovo, è un bel carico ma non importa, oggi è il primo giorno di scuola. Esce di casa, si sente bella, sarà la curiosità di rivedere i compagni dopo l’estate, sarà che è l’ultimo anno di liceo, oggi, è bella. È partita presto e cammina calma, guardandosi riflessa nelle vetrine. Si ferma e si fa un selfie, il suo sorriso, il suo vestitino nuovo, un po’ di trucco e i capelli che profumano.

C’è tempo. Passerò per il parco.

Che meraviglia, in tutto quel verde, ascoltando Cosmic Love dalle cuffiette del telefono, ferma, sul sentiero, con gli occhi chiusi.

… A falling star fell from your heart

and landed in my eyes…

Due braccia, una mano sulla bocca, qualcosa di forte e terribile la solleva e la trascina via. La lancia oltre la siepe e la blocca a terra, afferra la sua testa e la sbatte più volte sul prato. Un pugno violento in pieno viso le blocca la voce, l’urlo che rimane in gola. Ed è schiacciata al suolo, senza respiro, i capelli coperti di foglie e sangue. Uno strappo e poi, solo dolore, atroce, sconosciuto, profondo e senza fine. Umori fetidi, vomito che vorrebbe esplodere, si agita come un pupazzo, come un piccolo ragno schiacciato da una pietra.

Ed è finito.

Tutto.

È per terra, la sua figura esile, tremante e immobile, le gambe aperte e graffiate, le braccia lungo il corpo, senza forze.

Non ha più un corpo.

Le cola il sangue su un occhio mentre fissa il cielo, non ha più un corpo. Le nuvole di zucchero filato si muovono là in alto. sopra di lei, lontano.

… I screamed aloud

the stars, the moon

they have all been blown out

(you left me in the dark)…


Foto di Erol Ahmed da Unsplash

Non abbastanza

Due figure piccole e lontane, lui davanti e lei dietro che lo segue.

Sono sul ponte di legno, il camminamento sopra l’Arda, circondati da alberi e vegetazione. Da qui si vedono solo i loro busti in movimento, due sagome a metà come nei vecchi Luna Park, ti viene voglia di provare a lanciare una palla e farli cadere. Ma arrivano fino alla fine del ponte, attraversano, sempre uno dietro l’altro, e man mano che si avvicinano, si sente una voce.

È lei che parla con lui, ma lui cammina, a volte aumenta il passo, forse vorrebbe correre. Ma lei, parla.

Arrivano frasi spezzate, interrogativi senza risposta, appesi nel vuoto, portati dal vento altrove, ma non a lui. Non stanno discutendo, non c’è tensione nel tono della voce, neanche nelle posture. C’è… scollamento.

Due vite probabilmente che condividono molto, ma non abbastanza.

Eppure ci sarà stato un momento di perfetta intesa, di magia. Osservo lei, impegnata nell’inseguimento, che lancia i suoi segnali, e lui, in fuga, che lancia i suoi.

Fermatevi.

Fermatevi, vi prego. Guardatevi negli occhi ancora una volta, anche senza dire niente. Cercatevi in un gesto, nelle mani che un tempo erano elettriche, un nodo inscindibile, un canale energetico carico di possibilità.

E si fermano, ma solo perché incontrano qualcuno.

Caffè? Cambia la scena, ora anche lui parla. Parlano, non comunicano. Lui parla all’altro lui, lei parla all’altra lei.

Non si guardano più, non si bastano più.

Non abbastanza.


Foto di Geoffroy Hauwen da Unsplash

Passione

Vola il vestito, le balze come onde che accarezzano l’aria. Sul palco le luci passano tra i ballerini e il faro punta Lei, esile come fenicottero rosa acceso, pronto a volare.

Un flamenco che parte lento e sinuoso, i passi avanzano, le braccia disegnano i pensieri. All’improvviso le mani danno il tempo, in un ritmo crescente che cattura i battiti dei cuori.

Stop.

Buio.

Il faro di luce si riaccende su Lui, di schiena, teso come un toro che annusa l’aria e che, lentamente, si gira puntando un piede. Cambiano i colori, la tensione, il ritmo dei battiti delle mani che piano piano aumenta.

Lui e Lei.

Non sono loro ad essere protagonisti, è la sensualità che ne prende possesso. Una danza lenta, di sguardi e posture, giravolte che si sfiorano, petti gonfi. Il toro batte un piede. Lei, sinuosa, è persa nel suo vortice, sparisce e riappare tra i volant, come una fiamma in movimento.

Sono animali che si studiano, sono amanti che giocano. Il ritmo incalza, battono i piedi entrambi, cola il sudore e i visi si scaldano. Sono ovunque e da nessuna parte, si avvicinano e si allontanano, quasi sfidandosi, i loro capelli si toccano appena ma ormai sembrano una cosa sola.

Rosa acceso e nero, sangue e pietra, graffi di passione scanditi dall’incessante pestare dei tacchi sul palcoscenico, in un crescendo che cattura, arriva fino alle sedie, alle schiene di chi li sta osservando. E siamo là, in quel momento, proprio quando esplode e, di colpo, si ferma tutto.

Giusto il tempo di capire, di tornare a terra, e parte l’applauso, guardando il palco e le due figure sfinite, spettinate, palpitanti.

C’è stato un vincitore in quell’arena? Qualcuno voleva vincere?

Un gioco, era un gioco, come dovrebbe essere la vita. E le luci si spengono.


Foto di Dolo Iglesias da Unsplash

V: verde, vene, vita, veleno.

Una foglia cade sul tavolo in pietra lavica, nel giardino appena falciato.

È una foglia del fico che sta vicino alla siepe. Come ci è arrivata fino a qui?

La guardo, è carnosa, enorme, con le venature in rilievo. Verde, compatta, elastica e profuma. Rilascia l’aroma dolce dei frutti ancora appesi, appoggiata come un piccolo vassoio, viene voglia di riempirla di dolcetti, di gelatine di frutta. Sembrerebbe quasi una mano.

Vado a raccogliere u po’ di fichi, alcuni sono già maturi al punto giusto, morbidi e succosi, altri rilasciano un liquido lattiginoso, appiccicoso, quasi ad avvisarmi che no, non è il momento, non devo interferire con i loro tempi, non è giusto strapparli al loro divenire.

Sembrano lacrime.

Scusami fico, scusami se forzo la natura, la tua natura, se pecco di fretta per uno sciocco desiderio di completare la mia idea ed ammirare un kadō di foglie e frutti. Là, sul tavolo, vicino alla tazza del caffè, ora c’è uno splendido pezzo di natura che appassirà, avvizzirà e, se non mi sbrigo a mangiarne un po’, si riempirà d api.

Un vento delicato e caldo smuove le fronde. Due corvi si sono avventati sui rami, si dimenano, beccano, spaccano, fanno a pezzi i frutti più grossi, lasciando cadere brandelli, come stessero sbranando un animale.

La vita e la sua crudeltà. È un intreccio di forza e debolezza, lotta e attimi di meraviglia, zucchero e veleno.

Intanto, sono arrivate le api.


Foto di Clay Banks da Unsplash

Amabile nulla

Amabile. Lei era così, glielo dicevano spesso.

Era quel tipo di persona che passa inosservata, mai sopra le righe, forse un po’ solitaria. La sua casa era in ordine, sempre. Non un granello di polvere, non un cuscino fuori posto, anche le tende, immacolate, erano immobili, a piombo, perfette. Una vita in discesa la sua, famiglia normale, nessuna eccellenza negli studi, laurea conseguita nei tempi e il lavoro era arrivato facile, grazie al papà, in uno studio di architettura. Niente di più, niente di meno.

Si era svegliata come ogni giorno, da quattro anni, alle 06.15, ed era scesa dal letto col piede destro, sempre lo stesso piede. Una routine di gesti ed abitudini, dall’accendere il bollitore dell’acqua, al fumare la prima sigaretta davanti alla finestra, ancora in pigiama. Il cielo era azzurro, i palazzi di fronte sembravano deserti, un silenzio reboante. Quella notte aveva dormito male, per l’ennesima volta le avevano chiesto di passare un progetto ad un altro collega. Per l’ennesima volta lo aveva aiutato.

“Sei davvero amabile.”

Era amabile quando le amiche le davano buca, quando tutti potevano contare su di lei, quando non disturbava, quando non esisteva.

Era lunedì.

Lunedì: pantaloni e camicia, scarpe e borsa abbinate. Tazza lavata e asciugata, tapparelle abbassate, chiavi di casa e il rumore del portone che si chiude. Rimbomba un attimo nella tromba delle scale, solo un attimo.

Uscendo dal palazzo il vento le gonfia i capelli e la camicia, mentre le sembra di camminare a fatica, come se affondasse nella ghiaia, fino al cancello. Era già arrivata alla metro, non le era chiaro quale tragitto avesse fatto, sicuramente sempre lo stesso, ma non si era fermata al bar. Forse sì.

Non le importava, stava aspettando, nell’aria stantia, tra tante persone che parlavano, ma non sentiva. Stava aspettando sulla linea gialla. Una donna, né giovane, né vecchia le si piazza davanti.

Sei amabile.

Arriva l’aria che precede il rumore e quell’odore acre di metallo e cemento, poi, le luci della metro. É quasi lì.

Le sue mani si alzano lentamente e spinge, forte, la schiena che ha davanti a se. Urla, braccia che la braccano, schizzi di sangue ovunque, l’orrore negli occhi delle persone, lo sgomento.

Silenzio, fate silenzio, fatemi spazio, non vi vedo. Non vi sento.


Foto di Alexander Grey da Unsplash

alone and beyond

Un piccolo passo, poi un altro. Con la maglietta rossa e un bel cappello di paglia, appoggiato ad un girello, procedeva fragile, sul marciapiedi, fermandosi di tanto in tanto per riprendere un po’ di forza. Alzava lo sguardo dal grigio dell’asfalto, da quell’attrezzo, sua armatura e destriero, verso il cielo. Il tragitto da casa al bar era un percorso lungo e faticoso che faceva ogni mattina da solo, dopo essersi preparato con cura, pettinato e vestito come ogni giorno, guardandosi allo specchio, senza occhiali.

Aveva quasi 90 anni ma ancora ci vedeva bene, era il resto del corpo che non rispondeva più come un tempo. Ma quando si svegliava, dopo essersi fatto il caffè, mentre raggiungeva il bagno lentamente, gli capitava di avere dei flash, di ricordarsi com’era sentirsi agili e forti, di quanto era tutto più semplice. Si era invece scordato quando era cominciato il decadimento, forse perché non c’era stato un vero e proprio inizio, era accaduto e basta, come succede per lo scorrere delle stagioni.

Non amava rimuginare, non sarebbe servito niente e quindi, ogni giorno, se il tempo lo consentiva, prendeva le sue gambe di metallo e usciva, sempre in ordine, col suo cappello. Fino a poco tempo prima era riuscito anche a fare la spesa ma aveva dovuto rinunciare e accontentarsi di percorrere il lungo tragitto da casa sua al bar, dove lo aspettava il suo tavolino in un angolo comodo.

Qualche parola scambiata con le signore che passavano ogni giorno e che salutava come un cavaliere d’altri tempi, le solite risposte al cameriere gentile che gli portava il suo caffè macchiato caldo. Nei giorni dispari arrivavano alcune sue vecchie conoscenze e lo invitavano a giocare a carte, non oggi.

I ricordi riapparirono vedendo gonfiarsi il tendone del bar, come una vela spiegata e, chiudendo gli occhi, rivide le onde fragorose e minacciose che conosceva bene. Avrebbe voluto raccontare di quando aveva fatto il mozzo su una nave per sette anni, per poi rimanere fino a diventare Comandante. Avrebbe voluto raccontare dei posti che aveva visitato e delle persone che aveva conosciuto, del suo equipaggio, le lunghe ore passate a chiacchierare, andando poi a recuperare chi si era perso nei bar dell’Havana, troppo ubriaco per ritrovare la strada. Gli sarebbe piaciuto narrare la sua vita a chi passava, camminando veloce, sempre di fretta, e portarlo per un attimo con sé, nei suoi ricordi del profumo della pelle di amori travolgenti, di giuramenti mai rispettati o dei rimpianti che spaccavano il cuore davanti alle albe in pieno oceano. Quanto avrebbe voluto descrivere le fughe dai pirati che apparivano dal nulla, nei mari delle coste africane, i colori sgargianti delle stoffe barattate con il pesce, le nottate senza fine, di guardia, aspettando che il destino decidesse con quanta forza li avrebbe messi alla prova.

Gli anni erano volati, scanditi dalle stagioni e dalle rotte. Avrebbe potuto disegnare la sua vita su un mappamondo, con un pennarello che avrebbe alla fine ricoperto tutti gli oceani e toccato tutti i continenti.

Non c’era nessuno a cui raccontare tutto ciò, nessuno che fosse interessato ad ascoltare. Per il mondo era solo un vecchio che aveva lavorato su una nave.

Ma oggi, la nostalgia aveva lasciato il posto ad un sorriso, il vento era così forte da avergli strappato il cappello e scompigliato i capelli, sopra quello sguardo azzurro, profondo e lontano. Le nuvole correvano veloci e il sole appariva e spariva.

“Ecco, Comandante!”

Il giovane cameriere gli aveva riportato il cappello ma lui, al comando, le mani salde sul timone, a occhi chiusi sapeva bene cosa fare, vedeva la rotta, vedeva i gabbiani che seguivano la barca, e il mare.

Il Comandante, era salpato, e stava navigando.


foto di Daniil Silantev da unsplash

Sovrappopolamento e Universo 25

Siamo in tanti. Più di 8 miliardi di persone su questo pianeta, e ci stiamo già stretti. La rabbia, le rivolte, le tensioni incontrollate che stanno aumentando e di cui leggiamo o ascoltiamo, sono sicuramente scatenate da problemi irrisolti o troppo spesso ignorati ma, alla base di tutto questo, volendo analizzare il contesto, non credete che la sovrappopolazione umana sia spesso il detonatore di tanta violenza?

Nel 1968, lo scienziato John Calhoun, fece un esperimento, Universo 25, proprio per verificare, con i topi, come potesse incidere l’aumento della popolazione nell’evoluzione del comportamento.

Ebbene, lo scienziato aveva predisposto una situazione di benessere per non creare stress, in cui la comunità di topi viveva serenamente, in uno spazio adeguato, senza nessun predatore, con cibo in abbondanza e nessuna preoccupazione.

Nel giro di un anno e mezzo, lo spazio destinato era affollato al punto che gli atteggiamenti dei topi erano cambiati, esprimendo violenza, cannibalismo (anche se non mancava il cibo), pansessualismo. Non mancava il sostentamento, gli spazi erano ridotti ma, soprattutto, essendo in tanti, erano venuti a mancare i ruoli sociali per tutti. Solo chi si isolava non veniva coinvolto.

In pochi anni, oltre al crollo delle nascite, si assistette all’annientamento dell’intera colonia, fino all’ultimo topo.

John Calhoun era giunto alla conclusione che, non importa quanto l’uomo pensi di essere sofisticato, quando mancano i ruoli sociali da impiegare per tutti, il sistema collassa.

Le ultime proiezioni della Nazioni Unite prevedono il raggiungimento di un picco di circa 10,4 miliardi di persone intorno al 2080.

Fondamentalmente è la ricerca di lavoro che spinge a concentrarsi nei centri urbani, più o meno grandi, ed è già una lotta, in macchina, nelle metropolitane, autobus, treni, nei condomini. La mancanza di lavoro e quindi di un ruolo sociale, fa il resto.

Io, rimango positiva sulle capacità dell’essere umano di adattarsi ai nuovi scenari. Certo, i cambiamenti non si accettano mai volentieri, si è spaventati, ma l’evoluzione, l’utilizzo delle tecnologie digitali in questa nuova economia globale, devono puntare al miglioramento della qualità della vita.

Dipende da noi.

Dipende da noi essere parte attiva, avere il coraggio di spostarsi, di cambiare, di accettare il diverso e modificare, se necessario, il proprio stile di vita.

Lo spazio c’è, tolte l’Asia e l’Africa, che totalizzano più di 6 miliardi di abitanti, nel resto del pianeta c’è spazio, per tutti. Nessuno ha mai pensato di andare in Oceania o in Polinesia? Un proverbio polinesiano la dice lunga: “C’è un tempo per essere albero e un tempo per essere piroga”, entrambi dela stessa materia, ma uno sedentario, l’altro in movimento.

Io ho viaggiato e vissuto all’estero quasi due terzi della mia vita. Sono scelte, a volte è difficile lasciare il certo per l’incerto ma tutto sta nella motivazione e nell’essere pronti ad affrontare l’incognito. C’è spazio, per gli essere umani e, soprattutto, per allargare la mente, ascoltare e imparare.

“Rivolgi il tuo viso verso il sole, le ombre resteranno alle tue spalle”. (Insieme ai topi).


foto di goashape – unsplah

Una vita a piedi nudi

Faby, 1,36 cm di altezza, sogna una vita a piedi nudi.

É giovane Faby, ed è nata con una sindrome incurabile, la Disostosi Cleidocranica, che non le ha permesso una crescita dell’apparato scheletrico normale. Ma ride, Faby, spiega i suoi trucchetti per affrontare questo mondo: solette, zeppe, tacchi alti anche 17/20 cm, nascosti da abiti lunghi. E poi, cuscini per poter guidare, interruttori della luce posizionati in basso…

Lei che vede in rosa, lei che si è operata per poter arrivare ad almeno 1, 44 cm, lei che sa cosa significa vivere in un mondo a misura 1,60cm almeno, si sente fortunata perché è carina, proporzionata e, soprattutto, amata. La prima bicicletta comprata, più piccola, così diversa da quella degli altri bambini, non le scatena ricordi di imbarazzo, vergogna o dolore (che probabilmente avrà provato), ma quasi di tenerezza.

Dopo una vita dietro ai tacchi, baluardo necessario per poter essere il più possibile indipendente, ora sta affrontando la dolorosa fisioterapia dopo l’operazione che non è riuscita perfettamente, lasciandole una gamba leggermente più corta. L’aspetta un altro intervento. Ma sa che ce la farà. Ce l’ha già fatta.

Eppure, questo mondo ora impegnato a preparare valigie per le vacanze, scrutando il tempo, innervosendosi per un ritardo del treno o dell’aereo, non lo sa. E quando sarà sulla spiaggia o su un prato, camminando a piedi nudi, non proverà la stessa gioia di Faby. Tutti abbiamo il nostro personale pezzettino di inferno, qualcuno ci convive da sempre.

Ma io la vedo Faby, affondare i piedi sul bagnasciuga, ancora più alta di quel 1,44 cm, una silfide leggera che levita sui litigi per l’ombra, per i granelli di sabbia lanciati con un pallone. Lei sorride sulle piccinerie umane, sulle nostre debolezze ed i commenti cattivi o superficiali. Lei, è altissima.


Foto di Louisa Potter da Unsplash

Video da TIK TOK- Faby

Cuore livido

Non è necessario essere perfetti per tutti. Basta essere speciali per qualcuno.

Si era alzata, accaldata, dopo una notte scandita da docce fredde e lotte col ventilatore posizionato verso la parete, alla ricerca di un refolo seppur meccanico. Proprio nel momento più bello, quando l’aria cominciava ad entrare attraverso la zanzariera, quasi fresca, l’aria delle quattro del mattino, si era svegliata. Non c’era stato verso di riaddormentarsi, mindfulness e meditazione non avevano sortito alcun effetto, la mente tornava a giocare, come un bambino iperattivo, senza sosta.

Smetti di pensare, smetti di pensare, smetti di pensare.

Smetti di pensare che le persone o qualcuno in particolare debba capirti. Solo tu lo sai quanto hai pianto, quanto hai dovuto faticare, quanto hai lottato pensando di non farcela. E ancora non è detto. Solo tu conosci i tuoi pensieri delle quattro di mattina. Vale così per tutti, perché dovresti essere diversa?

La schiena le faceva male, le cicale stavano dormendo, almeno loro. Il silenzio, l’aria ferma, il cielo che ancora non cambiava colore, tutta quella calma, calma apparente, come prima di una tempesta, la stava turbando. Camminava tra le stanze buie, calde, girava intorno al tavolo e ritornava in salone. Si era tolta le ciabatte per sentire il fresco del pavimento e dopo un po’ si sedette ad osservare la pianta dei piedi. Notò un po’ di polvere, poca ma fastidiosa, e andò in bagno. Doccia fresca, la terza o quarta della nottata, prima in piedi poi, lentamente, accovacciata a terra, lasciandosi colpire dalle gocce come in un temporale. Gocce d’acqua che si mischiavano alle lacrime calde.

Ma quando arriva il giorno?

Si asciugò tamponando un po’ la pelle, per prolungare la sensazione di fresco, poi, andò allo specchio.

Eccoti, oggi è il primo giorno. Hai deciso di fare il primo passo per cambiare e ti stai allontanando.

Cominciava ad arrivare la luce dall’esterno, un’alba lattiginosa che lentamente fece apparire il suo viso, le sue occhiaia, i punti di sutura sul sopracciglio e i lividi sulle braccia.

Basta essere speciali per qualcuno.

Ce n’era voluta di forza per capire di non essere speciale, per lui. Il cuore batteva forte, un misto di paura e terrore, insicurezza e solitudine. Fuori il mondo stava aprendo gli occhi, sicuramente anche lui si sarebbe svegliato tra poco.

Aprì l’armadietto, prese i vestiti e il borsone che aveva preparato il giorno prima. Era tardi, era già tardi? Si vestì in fretta e in silenzio, come un ladro, prese le scarpe e in punta di piedi raggiunse la porta di casa.

Nell’ascensore, guardandosi allo specchio, le sembrò di ricordarsi com’era stata, dietro quei segni, quelle vili botte sulla pancia e sulla schiena, quegli occhi pesti e spenti. Anche il suo cuore era livido.

Non sapeva dove sarebbe andata, se ne era andata.


Foto di Olivier Collet da Unsplah

Sensorium Dei

Il tempo, è un’illusione? Come sabbia fine che scende in una clessidra, esiste come realtà in divenire strettamente connessa con lo spazio, flusso. Sarà questa giornata dal cielo coperto che minaccia temporali estivi, tuonando in lontananza, e che ha fatto riempire i caffè di persone uscite a rinfrescarsi un po’, sarà a causa di questa elettricità nell’aria che mi attraversa, ricordandomi che siamo qualcosa di più di semplici individui su una superstrada, a senso unico, impegnati a sorpassarci mentre ci dimentichiamo di fermarci di tanto in tanto, che si materializza nella mia mente la visione di una linea di mezzeria, continua, interrotta solo raramente, a ricordarci che ci possiamo fermare.

Possiamo fermarci e mangiare un panino, sul cofano della macchina, occhi negli occhi.

Passa un gruppo di ragazzi con degli strumenti musicali protetti dalle custodie. A quell’età il tempo ha un’altra unità di misura, è scandito da sogni, delusioni, tempeste ormonali, l’orologio non ha lancette.

Poi, di colpo, le lancette appaiono e, col tempo, ecco i minuti, le ore, i giorni, gli anni.

Quanto tempo sprecato?

L’unico spreco che vorrei recuperare, come il pane avanzato e buttato via, è legato alla leggerezza con cui ho vissuto la certezza che i cambiamenti dipendessero solo da me. Ma forse, forse, non c’era altro modo.

Errori, dolori, gioie, speranze, lasciano segni sui calendari appesi o nei diari, nelle foto, nella mente.

Attimi preziosi, cristallizzati nella nostalgia crudele o nel ricordo di risate di pancia, che pizzicano gli occhi ed esplodono nelle viscere dolenti.

I ragazzi si sono fermati sotto una pensilina, stanno aspettando l’autobus ed uno apre la custodia, prende un archetto. Dopo qualche prova di accordatura, inizia il suo concerto, giovane Konzertmeister. Arrivano le note di un Allegro di Bach, come se il vento le seguisse, trasportando le foglie nell’aria, scompigliando i capelli delle signore sedute, passando tra le sedie, sui tavolini, zampettando sulla schiuma dei cappuccini. I cuori, il mio cuore, segue i battiti dettati dalle note, ed è magia.

Fermati tempo, Fermati e ascolta.


foto di Adrien king da Unsplash

Vado a comprare il pane

Ci sono i saldi al SUPER. I famigerati prendi 3 paghi 2. In realtà io amo i negozietti, quelli dal sapore antico, spesso con carissimi prodotti di nicchia che però assicurano gratificanti risultati culinari.

Ma come resistere al richiamo dell’AFFARE?

Così anch’io mi ritrovo a passeggiare tra gli scaffali, si fa per dire. Provate a passeggiare, rallentando di tanto in tanto e qualcuno calpesterà senza pietà il vostro metatarso. Tentennate nella scelta delle olive e sentirete lo sguardo di rimprovero dell’inserviente intenta a sistemare tonnellate di pasta.
Effettivamente non capisce a cosa serva leggere i componenti della salsa, E’ IN OFFERTA!!!

Quindi, anche se la quantità di sodio ti causerà danni certi ai reni, non importa.

Guardo con circospezione la verdura, le ciliegie sono in offerta, arrivano dal Cile. Ecco spiegato il prezzo, hanno viaggiato in business.

Mi dirigo al reparto casa: carta igienica, carta cucina, carta forno. Tre per tre, nove confezioni, praticamente porto a casa un albero in nove  scatole. Poi gli spray pulenti, i detersivi, i disinfettanti… Ho tutto ciò che mi serve, posso anche andare in letargo.

Ma  il percorso non è finito, mi aspetta l’ultimo girone infernale, la cassa. Un numero spropositato di casse aperte e non so mai quale scegliere. Mi dirigo verso la numero sei, ma non mi piace il numero, allora vado verso la otto ma mi sembra che ci siano troppi carrelli in fila. Cedo all’idiozia e mi fermo alla sette.

La cassiera sta lanciando la merce sullo scivolo di metallo dove, alla fine, una ragazza bionda sta parando gli articoli con maestria, infilandoli al volo nelle buste. Sarò all’altezza? Esco da cotanta mattinata con contusioni multiple alle dita e un quantitativo di roba esagerato.

E, ovviamente, mi sono dimenticata il pane.


foto di Oleksii-S