Mi è rimasta una nota, tra le scapole

Chiudi gli occhi. Ascolta. Cosa vedi? Lascia perdere che hai fame! Riesci?

Non importa, va bene lo stesso. Cosa vedi? Io ho chiuso gli occhi e ti ascolto.

Io vedo la stessa stanza in cui eravamo prima, piena di gente. Mi sembra di sentire anche caldo, mentre qualcosa di fresco e amaro mi si scioglie in bocca e scivola tra i denti, sotto la lingua. Forse sono state le sigarette, troppe. Sento un profumo di gelsomino arrivare da fuori, dal balcone.

Sì, lo percepisco anch’io quel panorama che si perde fino al tramonto. Come una distesa, un blocco di mattoncini lego che spariscono sotto il cielo pesante che si sta spegnendo. Presto sarà tutto nero. Quasi solido.

Chi è? Con chi stai parlando? É bionda? Ha una voce da bionda, le braccia lunghissime e tanti bracciali che tintinnano. Vanno al ritmo della musica che viene dal salone, dove sono tutti in silenzio e stanno ascoltando qualcuno che tocca il piano.

Mi sembra di vederle le note, come tanti uccellini che svolazzano sbattendo contro le pareti e il soffitto, ma non toccano le persone. Uno, colorato, si è fermato sul piano, è immobile. Lo vedi anche tu?

La senti la musica vibrare tra le vertebre, salire e scendere come se stesse cercando una direzione? Ora si è come incastrata, proprio tra le spalle. Solo una nota, di tanto in tanto, sale fino alla testa. Di tanto in tanto accarezza gli occhi per poi scivolare di nuovo lungo la colonna vertebrale, fino ai piedi. E sparisce. Quando arriva, sparisce.

No! Non applaudite. Sì, capisco che era un personaggio famoso ma avete rotto l’incanto.

É tornata la luce dei lampadari, il tintinnio dei bracciali e quelle braccia lunghissime che arrivano ovunque. Mi è rimasta una nota tra le scapole, se ne sta lì, ferma.

Lasciami così, per un po’, lasciami ferma a sentire questo buio. Sì, tra poco riapro gli occhi. Tra poco.

Giada Verde Menta

Mi chiamo Giada e sono in un loop dei miei.

Giada, un nome prezioso, chissà per quale motivo i miei genitori avevano scelto quel nome. In fondo in quegli anni non ce ne erano molti di strani, qualche Delfina o Luce, ma il periodo delle scelte fantasiose era già passato. Forse mia madre era rimasta ancorata a sensazioni della sua giovinezza ed io ero il suo gadget, come un portachiavi, uno di quegli aggeggi che appendi alle borse. I miei genitori, classici borghesi, laureati in economia. Mia madre usciva in tailleur ma aveva sempre qualcosa di folk, che fosse un fazzoletto o il colore delle calze, me la ricordo come una strana. Mio padre invece si era intristito, aveva perso i capelli e aveva le occhiaie, puzzava sempre di fumo.

Mi ricordo interminabili giri in macchina alla ricerca di un parcheggio, con l’abitacolo pieno di fumo e io che tiravo giù il finestrino con la manovella. Erano gli anni in cui le portiere si chiudevano facendo un rumore strano, di ferraglia, e i viaggi verso il mare erano viaggi, con tanto di panini al sacco e bibite che puntualmente diventavano calde. Ma quando finalmente arrivavi, cominciavi a sentire il profumo del mare e della sabbia, la macchina diventava rovente e per aprire il cofano dovevi fare in fretta. Poi scaricavi enormi valigie, quelle senza rotelle, quelle con la cerniera e spesso una sorta di chiusura come nelle borse, con tanto di chiavetta, mai utilizzata, che rimaneva appesa alla maniglia della valigia.

Si andava in camera, ci si cambiava e poi tutti in costume, alla ricerca del bagno che era abbinato all’albergo. Io mi vergognavo e giravo con delle magliette lunghe, che arrivavano fin sotto le natiche, facendo uscire due gambe lunghe e asciutte come quelle di un fenicottero. Avevo i capelli corti, alla maschietta, guardavo le altre ragazzine, già molto più donne di me, camminare nei loro bikini colorati, sorridenti. Poi, andavo al bar, prendevo un ghiacciolo alla menta e la mia vacanza era cominciata.

Ora sono qui, al mare, e osservo mia nipote, ha tredici anni. Siamo arrivati senza neanche uno stop all’autogrill per un caffè. Ma non avevamo fretta, il viaggio è stato silenzioso, solo mio marito parlava al telefono con un socio mentre io guardavo fuori dal finestrino la lunga distesa di campi, ormai tutti uguali, e nostra nipote Elena se ne stava isolata nelle sue cuffie, a occhi chiusi.

Ora sono qui. Sul lettino sotto all’ombrellone, tra tanti ombrelloni aperti, da sola. Il vento porta i profumi delle creme solari e lascia sulla pelle una patina di salsedine mista a finissima sabbia. Mio marito è ancora in albergo, deve finire un lavoro. Elena è là, seduta sul bagnasciuga, le cuffie sulle orecchie e lo sguardo perso chissà dove. Vedo tanti ragazzi e ragazze, soli, se ne stanno sdraiati sfoggiando ogni parte del corpo possibile, sono belli, bellissimi, e soli. Giusto qualche coppia cammina veloce, con i piedi nell’acqua, schivando chi sta arrivando dall’altra parte.

Elena è tornata e si sdraia, prende il telefonino e scrolla. È come anestetizzata, ipnotizzata. Si fa un selfie, poi un altro. Vorrei parlarle, sto cercando uno spiraglio, lo cerco sempre, e lei in genere risponde e basta.

  • Elena?

Si gira e mi guarda. Aspetta.

  • Mi dici una cosa che proprio non ti piace di me?

Si siede. Forse vorrebbe parlare, forse ha paura.

  • Non ci sono risposte sbagliate Elena. È solo una domanda.

Mi guarda e so che dall’infinito elenco nella sua mente non trova niente che sia al primo posto, ma sta pensando.

Mi alzo e vado al bar. Lei rimane a fissarmi. Cammino chiudendo il pareo sulla pancia, accelero perché la sabbia è davvero rovente.

  • Avete ghiaccioli? Alla menta? Me ne da due?

Fare il niente che voglio (it/en)

Ho preso tutto.

Rapido sguardo sulla scrivania per controllare se ha spento il computer e rimesso un po’ in ordine.

Detesto lasciare le penne fuori posto, le pratiche non impilate. Pazienza per la carta che deborda dal cestino, sembra quasi un’Ikebana multicolore. Via , via, devo uscire da qui, ho mille cose da fare!

Cammina veloce, a piccoli passi nervosi, seguendo il rumore dei tacchi sul marmo lucido. Il percorso è sempre lo stesso, come binari che la portano proprio davanti agli ascensori. Arrivano altre persone, chiacchierando, ciondolando, perdendo tempo. Si sta formando una piccola folla e l’ansia sale. Guarda l’ora sul telefonino e vede un messaggio.

  • Io vado. Ti aspetto là.

L’ascensore è arrivato e, come sempre, è già quasi al limite della capienza, ma lei entra di corsa.

C’ero io prima di voi. Ma cosa fate? Ma guarda se quell’idiota doveva entrare per forza!

Le porte dell’ascensore non riescono a chiudersi.

Siamo in troppi!

Il grumo di persone si sposta all’interno, si stringe al massimo. Un cubo di Rubik che si muove senza soluzione. E l’ultimo entrato alla fine rinuncia ed esce, accompagnato da evidenti sospiri di sollievo.

Quando hai fretta, tutto rallenta.

Ed è fuori, finalmente. Un passo dietro l’altro nella hall, schivando persone, borse, zainetti e gomiti. Poi, un altro imbuto, una clessidra di corpi che scivola piano verso la luce. Sente l’aria fresca arrivarle sul viso e il caos del traffico, colonna sonora di ogni sua giornata d’ufficio. Un passo dietro l’altro, ora è diretta alla metro, in una coda disordinata che si sposta, aprendosi e chiudendosi. Lei, è là dentro, un passo dietro l’altro, seguendo il ritmo degli altri, con la testa bassa e un braccio avvinghiato alla borsa.

Inciampa.

Improvvisamente, si trova a terra, sul marciapiedi, con l’anaconda di corpi che le scivola a fianco. Si rialza piano, guardandosi le mani e massaggiandosi i palmi. É immobile e la schivano tutti. C’è un giardinetto proprio là, a destra, con delle signore sedute e dei bambini che stanno giocando. Un’ambulanza sfreccia, la sirena urla urgenza, mentre una coppia litiga in macchina, aspettando che scatti il verde.

E si alza il vento. Una folata che sposta le fronde verdi dei platani.

Lei è immobile e si sente vuota. Avverte la bellezza del vuoto.

Per un momento, si accorge che non c’è veramente nulla che deve fare.

Che meraviglia, il niente.

Arriva un altro messaggio.

Ora ti rispondo. Tra un attimo.


EMBRACING NOTHINGNESS


I’ve got everything.

A quick glance at the desk to check if the computer’s turned off and if things are somewhat tidied up.

I hate leaving pens out of place, files unstacked. Never mind the paper spilling out of the bin, it almost looks like a multicolored Ikebana. I have to get out of here, I’ve got a thousand things to do!

She walks quickly, in small, nervous steps, following the sound of her heels on the polished marble. The path is always the same, like tracks leading her straight to the elevators. Other people arrive, chatting, dawdling, wasting time. A small crowd is forming and her anxiety rises. She checks the time on her phone and sees a message.

  • I’m going. I’ll wait for you there.

The elevator arrives and, as usual, it’s already nearly full, but she rushes in.

I was here before you. What are you doing? Seriously, did that idiot really have to squeeze in?

The elevator doors won’t close.

There are too many of us!

The clump of people shifts inside, squeezing in as tightly as possible. A Rubik’s cube shifting with no solution. And the last one in finally gets out, met with obvious sighs of relief.

When you’re in a hurry, everything slows down.

And she’s out, at last. One step after another through the lobby, dodging people, bags, backpacks and elbows. Then, another bottleneck, an hourglass of bodies slowly slipping toward the light. She feels the cool air hitting her face, along with the chaos of traffic, the soundtrack of every office day. One step after another, now heading toward the metro, in a messy line that shifts, opening and closing. She’s in it, one step after another, following the rhythm of the others, head down, one arm clinging to her bag.

She trips.

Suddenly, she’s on the ground, on the sidewalk, while the anaconda of bodies slides past her. She slowly gets up, looking at her hands, rubbing her palms. She stands still, and everyone dodges her. There’s a little park just to the right, with ladies sitting and kids playing. An ambulance speeds by, siren screaming urgency, while a couple argues in a car, waiting for the light to turn green.

And the wind picks up. A gust that rustles the green branches of the plane trees.

She stands still, and she feels empty.

The beauty of emptiness.

For a moment, she realizes there’s truly nothing she has to do.

What a wonder, this nothingness.

Another message comes in.

I’ll answer you. In a moment.

Una solo è Doriforo

Ho gli occhi chiusi per far agire meglio il collirio. Sono elettrica. Sigarette, vietate. Non per la salute ma per non rischiare di bruciare qualche abito. A tre a tre, sedute davanti agli specchi per il trucco e parrucco, circondate da hair stylist e make-up artist, spazzole, phon, pennelli che sbuffano polveri leggerissime come soffi di fumo.

Ho proprio voglia di una sigaretta.

La pelle del mio viso è tirata come un palloncino pronto ad esplodere. Mi hanno messo dei cerottini per allungare la forma degli occhi. Sembro una giapponese incazzata ma, loro, i giapponesi, non lo danno mai a vedere. Nella prova vestiti hanno fatto fatica a chiudermi la cerniera.

Mi sento gonfia.

Sono tre giorni che mangio solo un pezzetto di formaggio e bevo anche poco. Questa mattina ho pesato le mie feci, come sempre: 65 gr. È il diuretico di ieri sera che non ha fatto molto effetto.

Mi sento gonfia.

“Via, via! Sbrigati!”

E mi metto in fila, coperta da una vestaglietta col logo. Siamo tutte con un vestaglietta col logo. Tutte alte uguali, ma io, sono la più gonfia. Sento le sarte davanti alla fila, stanno urlando, chiedono delle spille da balia. Come in una catena di montaggio, chi è pronta, scivola di lato e passa il controllo finale.

Lu, è là. Lo stilista, posseduto da un’energia che opprime tutto il backstage.

Ogni volta è così.

Ogni volta prendo dei calmanti, ma non troppi, se no rischio di non reggermi in piedi. E ho i piedi gelati. Tocca già a me? Qualcuno mi toglie la vestaglia, due mani mi girano e sollevano le mie braccia.

“Trucco!”

Passano della cipria, forse del talco, sotto le mie ascelle.

Ogni volta è così.

Mi infilano un cappuccio macchiato che odora di creme, serve a proteggere la pettinatura e il trucco. L’abito mi cola addosso, si uniforma al mio corpo come una seconda pelle. E ancora mani. Che stringono il tessuto, che lo lisciano, e la cerniera sale. Per un attimo sento la pelle bruciare, come se fosse stata pizzicata o graffiata da un uncino. Via il cappuccio. Mi girano intorno come api impazzite, uno mi ha colpito il ginocchio destro. È arrabbiato, si vede. Il ginocchio mi fa male ma devono ritoccarmi il trucco.

Di colpo, le voci si abbassano, i visi si allargano in sorrisi.

Lei, sta passando.

Gli occhi anelano un suo sguardo, un saluto anche solo accennato. Lei è famosa, famosissima. Lei, non è più una ragazzina, ma è una dea. Ha il suo spazio, quasi un camerino, i suoi professionisti, la sua acqua e i suoi fiori. Li chiamano carisma, quella lunga falcata che non deve chiedere permesso e quel profilo in cui si stenta a riconoscere un naso, ritoccato così tante volte da sembrare trasparente. Non sarò mai come lei.

Tocca a noi. Come ballerine di fila, una vicina all’altra, perfette e anonime.

Un braccio che si alza, un “VAI”, e sono dentro alla luce, affogo nella musica, procedo con i miei piedi freddi, in scarpe troppo grandi, senza vedere veramente nessuno. Lo sguardo fisso davanti a me, sulla schiena di chi mi precede. Il sangue pulsa piano, la testa è leggera, tanti flash e tanti passi.

Ogni volta è così.

Quando sono triste guardo il cielo

Sono sdraiata da più di mezz’ora. Forse meno. Non respiro bene, mi sento rintronata, ho la bocca secca e un saporaccio che mi fa venire conati di vomito in continuazione.

La mia macchina è là, di traverso e un po’ rialzata. Sembra tentare di scavalcare il guard-rail ma senza riuscirci, e perde ancora del liquido, forse dell’olio, anche se i vigili del fuoco la hanno inondata di schiuma. C’é tanto caos ma ora l’aria è più chiara, spostata dalle eliche di un elicottero atterrato lontano, in mezzo al campo. Mi arriva l’odore dell’erba, mischiato a quello del cherosene e del sangue. Proprio sotto la coltre di fumo si vede l’asfalto bagnato, intriso, lucido, e tanti scarponi lambiti da tute fosforescenti che sembrano senza un corpo.

Appena dopo l’impatto, che ricordo come uno spintone violento e rumoroso, devo aver perso i sensi. Non so chi mi ha estratto dalla macchina e mi ha deposto qui, sul ciglio della strada, nella corsia di emergenza. Non sono sola, ci sono altre tre persone stese a terra.

I rumori sono ovattati, non sento, vedo solo delle sagome che corrono e, al di là della cortina grigia, appare e scompare una lunga carovana di macchine, i fari accesi, ombre in piedi che guardano da questa parte.

Non riesco a girare il collo, mi devo muovere piano, dovrei girare anche il busto per guardare dall’altra parte.

In quell’inferno schizzano lapilli, piccoli fuochi d’artificio tra le luci rosse, e le figure che appaiono, per un attimo, sono maschere coperte di fuliggine, con la bocca che si apre e si chiude in un urlo.

Il cielo, il cielo è ancora là, in alto.

Arriva un po’ d’aria e si sentono, in lontananza, le sirene delle ambulanze che cercano di farsi spazio nel traffico immobile, dall’altra parte dell’autostrada.

Dovrei telefonare. Sì, devo avvisare. Ora chiedo.

Sposto lo sguardo perché hanno smesso di tagliare lamiere, non ci sono più lapilli. Dall’alone grigio sta emergendo una carcassa enorme e lunga, un pachiderma ferito e sdraiato su un fianco dipinto di viola e giallo, piegato in due, una enorme V che ha abbracciato una macchina, ma l’ha stretta troppo, davvero troppo.

C’è silenzio.

Di colpo, due mani mi prendono il viso, qualcuno mi parla, è un medico. Non sento. Mi spara una luce nelle pupille e ho un momento di terrore, come un attimo prima dello schianto. Si allontana.

Dove vai? Cosa faccio? Devo telefonare.

Passa una barella, poi un’altra, un’altra ancora. Sono corpi, feriti coperti di sangue che si mischia ai capelli e a quello che rimane di abiti bruciati, incollati alla carne carbonizzata. Ad uno manca una scarpa. Sembrano vivi, si muovono, si contorcono. Sembrano vivi.

C’è una barella grande, enorme, con un cucciolo d’uomo. Non ha più capelli, è un bambolotto bruciato a metà. Non si lamenta, guarda fisso in alto, guarda il cielo. Dentro di me sento le sue lacrime e mi sembra di affogare.

Devo telefonare.

Passa. Tutto passa.

Non so perché eri sparito, dicono che succede. Ma perché a me? Avevi smesso di rispondermi e mi hai fatto preoccupare. Bastava scriverlo, dirlo.

Ora mi scrivi di nuovo, come se nulla fosse, dopo quasi più di sei mesi.

Mi alzo dal divano, infagottata nella tuta di pile. Non ho mangiato e lo stomaco gorgoglia.

“Beh? Rispondigli, no? Qual è il problema?”

E mia madre incomincia a dispensare consigli non richiesti. Quanto vorrei avere le sue certezze, ma non ne sono in grado. Mi mangio le unghie, mi arrabbio e le urlo spesso contro. Lei mi dice che la mia rabbia è solo debolezza travestita da forza. La fisso e, mentre sta vestendosi per uscire, longilinea e splendida come sempre, me la immagino seduta, tranquilla, trangugiare uno di quei panini che esplodono maionese e foglie di rucola da tutti i lati. Si riempie la bocca di cibo e certezze, come un blocco unico, cementato al terreno, uno Stonehenge che mastica chiunque si avvicini.

Lei sa cosa fare. Lo ha sempre saputo. Io, no. Lei è un facocero che si nutre delle debolezze altrui. Delle mie. E non ingrassa.

Mi allontano dalla sua stanza, il più lontano possibile. Sento il freddo del marmo attraverso i calzettoni rosa, finché arrivo sul tappeto che mi frena. La finestra, vado alla finestra.

Rileggo il messaggio che ho ricevuto: “Ciao, come stai? Passeggiata in centro?”

Mi ha sventrato e non se ne rende conto.

Nel frattempo, sono tornata nell’ingresso e non me ne sono accorta. Mi guardo nello specchio sul cassettone e vorrei vederlo vuoto, invece, sono là, dentro quella figura corpulenta, in quella salsiccia che mi ricopre.

Mi ero affidata a te, mi riflettevo nel tuo volto e ho cambiato forma per compiacerti, ho dimenticato pezzi di me pensando che fossero superflui. Ho nascosto i miei sogni, desideri, dolori, per non sbagliare, ora mi sento un’ombra che non appartiene a nessuno. Quando sei sparito mi sono persa e ho cominciato a mangiare, tanto, cercavo un motivo, qualcosa a cui dare la colpa, qualcosa che non fossi io.

Il tuo negarsi è stato come un sasso caduto nel cuore.

Stavo cominciando a dimenticarti, stavo tentando veramente, mi sentivo un po’ meglio, anche il mio stomaco stava meglio. Ignoravo anche le continue domande di mia madre sul perché non ci vedevamo più, schivavo i suoi sguardi compassionevoli ma accusatori, quel suo indugiare sui miei fianchi. Insomma, ora cosa faccio?

Le mie dita stanno rispondendo. Ma chi vi ha dato il permesso?

“Ciao. Va bene. A che ora?”

E aspetto. Ancora.

Intanto sceglierò cosa mettermi. In camera mia, sul letto, c’è un vestito, largo e lungo. Non lo metto da tanto, mi fa sentire una balena. Di fianco, un biglietto, di mia madre.

“Metti questo. E non mangiare gelati.”

Un crampo lungo e forte, un conato di vomito che mi fa correre in bagno. Lo scroscio dell’acqua fa da sottofondo al mio respiro che soffoca i singhiozzi.

Il tempo passa.

Il telefono è rimasto sul letto. Non arrivano risposte.

Vado in cucina e apro il frigo. Afferro qualunque cosa davanti a me e la trascino in bocca, coscia di pollo, cetriolini, ah! amo i cetriolini, del formaggio e una fetta di crostata.

Non arrivano risposte.

Apro il congelatore e prendo un barattolo di gelato. Ce ne sono cinque.

Non arrivano risposte.

Mi sono macchiata la tuta col gelato, sembra un disegno, ci vedo un occhio che mi fissa.

Passa. Tutto passa.

Divinus incensum profanus

Una nebbia sottile cominciava ad avvolgere tutto in un lieve manto simile all’incenso bruciato nei turibuli. Guardava i tronchi dei grandi alberi, giganti silenziosi, che affondavano le loro radici nel terreno umido come mani dalle lunghe dita. Stava rientrando a casa, camminando lungo la strada, persa tra il buio e il silenzio.  Solo le foglie, al passaggio del vento, emettevano un suono delicato, quasi un sussurro.

Il cielo divenne opaco e denso come se il tempo stesso fosse sospeso, privo di movimento. Sentì in lontananza lo scroscio dell’acqua del fiume che scivolava su sassi levigati e la nebbia pesante cominciò a salire, lenta e avvolgente. Un abbraccio gelido da cui non era possibile sfuggire. Quel chiarore quasi irreale confondeva, facendole perdere ogni riferimento. Si fermò, allungando le braccia in cerca di un tronco, una staccionata, un appoggio qualsiasi.

Da qualche parte, più lontano, udì il verso di un animale, un lamento sommesso, un richiamo alla solitudine che si perdeva in quel buio. Eppure, in quel nulla fatto di freddo grigiore, non si sentiva sola. Ogni tanto, le sembrava di vedere delle ombre sfuggenti, figure indistinte, vaghe, quasi avessero una vita propria. Non erano spettri, né apparizioni di fantasmi.  Erano forse i ricordi di un passato che non aveva mai vissuto?  O sogni di un futuro che non aveva il coraggio di immaginare?  

Se ne stava immobile, respirando profondamente l’aria umida e fresca, nel profumo di muschio e di terra bagnata. Il suo respiro e la nebbia, un unico soffio in un’atmosfera irreale. C’era qualcosa di divino. Seguì il mormorio dell’acqua, forse il cammino non aveva davvero una meta, né un inizio. Ad un tratto la nebbia si aprì, e le sembrò di vedere un’ombra incredibilmente familiare che si dissolse subito nell’aria.  Era tutto un continuo fluire di passato e futuro e ogni passo che faceva era una danza invisibile tra ciò che era stato e ciò che doveva ancora accadere.

Le apparve la discesa, sgombra, sicura. S’incamminò verso casa.

Non scordare

Non scordare:
noi camminiamo sopra l’inferno,
guardando i fiori.

Kobayashi Issa
(1763-1828)

Agli uomini, dalle donne.

Io, lo straccio e il lago

Mi dispiace, ma passa, vedrai che passa. Fai una passeggiata, respira, abbraccia un albero.

– A Roma?

Va beh, vai in un parco…

– Ma è domenica, una folla di famiglie, coppie, cani, urla…

Perché non fai un po’ di meditazione? A casa, tranquilla, in penombra e da sola.

– No, ti prego no. Ci ho provato e continuo a pensare. È dura.

Facciamo così, ora andiamo fuori, cerchiamo un ristorantino piacevole, poi andiamo a fare una bella passeggiata vicino a un lago.

– Grazie, davvero, ma mi sento uno straccio.

Scese a prendere l’auto e partì, guidando a zig zag tra il traffico, mesto e un po’ ubriaco, della domenica sul lungotevere. I marciapiedi erano fiumi di persone, turisti di ogni nazionalità, rigorosamente divisi in gruppi monocolore, in file rumorose, che migravano verso S.Pietro. Un’anaconda che si srotolava tra i ponti e le vie, sbucando ovunque senza che si potesse immaginare dove iniziasse, chi fosse a capo di quest’esodo.

Chi avrà incominciato tutto questo oggi? Chi sarà alla testa dell’anaconda?

Le sembrava di vederla dall’alto, come un lunghissimo e flessibile copertone, imprevedibile e aggressiva, pronta a soffocare la sua preda stringendola fra le sue spire fino a soffocarla.

Girò a destra per parcheggiare in una strada secondaria, vicino alla fermata Lepanto della metro. Parchimetro, tagliando. Nonostante il sole, la giornata era insolitamente fredda e i bar erano affollati di gente che aspettava in piedi davanti ai banconi, calpestando briciole di cornetti e fazzoletti di carta non raccolti. Un’immagine triste vista da fuori, come certe stalle non perfettamente organizzate, dove i bovini si accalcano, spingendosi e ansimandosi addosso. Niente caffè.

Sono qui.

– Ma ti avevo detto di lasciar perdere…

Partì lo sblocco elettrico del portone che lentamente, molto lentamente, iniziò ad aprirsi. Stava guardando verso il lungotevere quando venne travolta da un bambino che, uscendo, le calpestò l’alluce sinistro. E arrivò subito dopo la mamma. Capello biondo vaporoso, cappottino stretto in vita da una mini cintura, simile alle fascette ferma cavo, chiamava suo figlio con una voce squillante che cozzava con la pettinatura alla Marilyn. Papà non c’è? No.

Adorava Roma, con quei “siparietti” d’incontri lampo, come scene un po’ trash di film caserecci. Ci si poteva scrivere davvero una storia dietro l’altra.

– Perché sei venuta? Mi vedi? Non sono in condizione di uscire. Non mi sono neanche vestita.

Mi offri un caffè?

Veronica, un giunco di un metro e ottanta, di madre prussiana e padre siciliano, alla soglia degli anta. Un’opera d’arte incompiuta. Uno straccio, ma di lino, tessuto a mano.

Mentre il caffè usciva con un sommesso borbottio, Veronica passava dalla sua camera alla cucina, parlando, chiedendo se faceva freddo, mostrandole la giacca che voleva indossare, per poi sparire di nuovo in bagno. Dalla finestra entrava una fetta di luce, quel lembo che era riuscito a passare tra i tetti e i palazzi di fronte, fermandosi sul muro come una meridiana brillante.

Saranno già le 11.00.

– Pronta! Ma davvero vuoi andare al lago? Quale? Albano, Bracciano… É domenica… ci sarà un traffico pazzesco. E se rimaniamo qui?

Fissò l’amica con un sorriso che non prevedeva cambi di programma.

Hai bisogno d’acqua. I giunchi necessitano d’idratazione per essere in salute, sempreverdi. Ed io, ho bisogno di specchiarmi nell’immobilità del lago, perdermi tra i riflessi del verde e del sole.

– Quiete. Abbiamo bisogno di quiete. Andiamo.

Ombra senza sole

Dovevi proprio andartene così? E adesso? Ora che i miei pensieri rimbalzano tra le pareti, ora che avverto come un senso di vertigine per il vuoto, cosa faccio? Da dove comincio?

Non si fa così.

Non è stato corretto da parte tua, in nessun modo. Anzi, avresti potuto trovare migliaia di parole, gesti, avresti dovuto.

Me lo dovevi.

Com’é potuto succedere? Mi viene da pensare ai suicidi, a quelli che decidono per un atto estremo, senza ritorno. Ecco. Hai suicidato il nostro amore. Era il nostro e io non mi sono accorta che era malato. Non si dice così anche per i suicidi? Era normale, sembrava stare bene.

Sembrava stare bene.

Ah, lo so dove mi vuoi portare! A pensare che è colpa mia, vuoi che sia la sola a provare dolore per questo lutto. Hai riempito solo una valigia, le tue camicie penzolano stirate nell’armadio. Il tuo odore é ovunque, vorrei urlare, ma non ci sei.

Ora entro nell’armadio e urlo.

Mi guardo allo specchio e non vedo più nulla, é vuoto. Ho cambiato forma così tante volte per te che ho dimenticato com’ero. Ho dimenticato pezzi di me, nascosto sogni, dolori e desideri, per non sbagliare.

Ora vedo solo un’ombra grigia.

Farò una doccia. Voglio lasciare scorrere l’acqua addosso, voglio lavare via quell’odore, voglio che questa crisalide si apra ma è impermeabile, è una fitta trama che blocca anche il respiro.

Vorrei inseguirti.

Ma non so il perché.

Perfetta nel cuore

Impulso di scrittura giornaliero
Scrivi della casa dei tuoi sogni.

Ah, la casa dei sogni! Potrei descrivere minuziosamente come me la immagino perché, nella realtà, manca sempre qualcosa. Manca il mare, manca la luce che filtra dalle tende leggere, manca una scala che scende proprio sulla sabbia, manca quell’essere isolati ma non troppo, mancano le altre case intorno che pullulano di vita. Eppure, ovunque mi trovassi, se il mio amore era con me, allora era casa. Ed era perfetta. Come due calici di cristallo, su una tovaglietta di fiandra appoggiata sugli scogli prima del tramonto.

Guardare l’abisso

Un rigagnolo d’acqua scivolava via, esattamente come un gorgo d’acqua nel lavandino. Un vortice che, anche se piccolo, portava via inesorabilmente, e quasi dolcemente, tutto. E per tutto, intendeva quella che era stata la sua vita fino a quel momento.

“Siamo spiacenti, non vorremmo fare a meno della sua figura professionale ma, la situazione contingente prevede una riorganizzazione aziendale.”

Pur essendo consapevole della crisi, pur constatando, giorno dopo giorno, un crescendo di tensione tra i colleghi che le apparivano sempre più scialbi, affranti, pallidi fino a diventare quasi evanescenti, non si era resa conto di essere a rischio, esattamente come gli altri. Ma quanta sicurezza! Quanta stupida certezza aveva maturato, semplicemente per aver lavorato in quell’azienda per oltre vent’anni. Riorganizzazione.

Fissava il suo caffè sul tavolino del bar dove andava spesso, e osservava le persone intorno, ignare del suo problema, di lei e della sua vita miseramente crollata. Poteva pensare a un fallimento o le era concesso di aggrapparsi alle colpe altrui? Da quando si era svegliata, la sua testa era una bolla grigia, come una pozza di fango bollente. Il mondo non era come lo aveva immaginato fino a quella fatidica comunicazione. La sua tracotanza ora cercava conferme che nessuno mai le avrebbe dato. Le sembrava di tremare, non riusciva a piangere, sicuramente non lì, mai lo avrebbe fatto. Il quadro della sua vita stava perdendo i contorni, liquefacendosi in un disegno astratto ma senza significato.

Passò una mamma con due bambini, diretta ad un altro tavolino. Rimase a fissare la scena, mentre arrivava il papà. E lei invece? Lei che aveva investito così tanto in sé stessa, lei che aveva creduto di far parte di qualcosa, ora si sentiva come un vecchio attrezzo, gettato via, rimpiazzato. Il quadro della sua vita, ora, era un ammasso di colori mischiati, come senape andata a male.

Il mondo va veloce, troppo. Non aveva avuto il tempo di pensare, ecco la verità. D’altra parte, pensare di cambiare dopo tutti quegli sforzi, quell’energia spesa, sarebbe stato, come minimo, un passo azzardato. Perché cambiare quando sai che, alla fine, qualcuno risolverà? Ne era certa.

Non esistono più certezze. I suoi genitori avevano cominciato e finito la loro carriera lavorativa sempre nella stessa azienda. Solo suo padre, a un certo punto, aveva inseguito una promozione ma, c’erano dei rischi, avrebbe dovuto cambiare città e quindi, alla fine, erano rimasti dov’erano. In fondo stavano bene, cosa mancava?

A cosa mi aggrappo adesso? Sono stanca. Ricominciare ora è come chiedermi di scalare l’Everest senza ossigeno. Mi manca l’aria.

Nella sua mente, il quadro della sua vita era ormai una tavola uniforme e vuota. Il rigagnolo continuava a scivolare tra le crepe dell’asfalto, veloce, diretto allo scarico, senza fare alcun rumore.

Glimmer

Che colore ha il dolore? Si era svegliata dall’intervento, ancora dopata dall’anestesia, i movimenti rallentati e la bocca impastata. Tra le bende che le fasciavano il viso poteva scorgere, di fronte a sé, un pezzo di muro e di soffitto, e rimase a fissare la linea che interrompeva due colori, era la sola cosa che le faceva comprendere di stare osservando due parti distinte. C’era il muro e c’era il soffitto.

Aveva sete, forse aveva voglia di parlare. I rumori erano attutiti, anche perché le orecchie… “Oh mio dio le orecchie”, chissà come erano diventate. E chissà com’era diventata la sua faccia, quel viso che era arrivata a detestare, che non riusciva più a guardare allo specchio. Un nemico, ecco quello che vedeva, un infame che le ricordava il tempo che aveva solcato ogni suo poro, modificandola come si fa con la creta. Un kintsugi senza oro, solo solchi che mantenevano unite tutte le parti ormai senz’anima, porzioni di sé che stavano crollando miseramente, incappucciando la vista, intristendo i sorrisi, il tutto in un grigiore refrattario anche alla luce del sole.

Non riusciva a spostare il collo, sentiva la pelle tendersi, pronta a strapparsi, e rimase immobile. Un prurito insopportabile sotto quelle bende, “Ma non viene nessuno?”, respirava a fondo senza muoversi. Come se non bastasse il prurito, incominciò ad avvertire dolore, una sorta di nevralgia che si stava impossessando di tutta la testa, viso compreso, lasciandole la sensazione di avere un timpano teso proprio sotto il cuoio capelluto.  Resistere. Doveva resistere, la avevano avvertita delle conseguenze di un intervento di face-lifting. Possibile cerchio alla testa. Altro che cerchio, era tra due morse che tiravano, non aveva neanche il coraggio di muovere la bocca o qualsiasi altro muscolo. Scintille. Ecco che colore aveva il dolore in quel momento! Non come i lapilli sprizzati dalla legna d’inverno ma simili a quello sfavillio che sprigiona da una levigatrice, di quelle utilizzate per affilare coltelli, luminescente, freddo, metallico.

Avvertì una presenza, era un’infermiera che era entrata e stava parlando. Non sentiva bene, la fissò con gli occhi, cercando di incrociare i suoi e farle capire cosa stesse provando. Ma niente, quella befana parlava, parlava, e trafficava con il sostegno della flebo.

“Morfina! Aumenta la morfina!” Cominciò a sudare e arrivarono anche nausea e vomito. Le veniva da piangere ma NO! Non poteva, non doveva.

L’infermiera se ne era andata, restò a fissare il muro e il soffitto davanti a lei mentre una lacrima scendeva tra le bende. La linea di divisione stava diventando più sottile, morbida, sembrava che si stesse muovendo, scivolando via. Rimase un’unica parete liscia, senza soluzione di continuità, rosea e levigata, quasi bombata, come un palloncino.

Un viso, il suo futuro viso.

Assolo e outro

Sei proprio bella. Non riesco a pensare ad altro. Il cameriere si avvicina con i primi piatti, sta parlando ma sono frastornato. Mia moglie sta sorridendo, ha appena detto che le piace il servizio, sembra felice. Io sorrido e affondo la forchetta nei tagliolini, li attorciglio, li attorciglio, li attorciglio. Poi mi fermo perché, in effetti, sto creando una palla compatta, come lo zucchero filato su un bastoncino. Colpetto di tosse e un goccio di vino. Cerco di scambiare qualche parola con mia moglie, le chiedo se vuole assaggiare quello che ho ordinato. Ma il mio sguardo, tutto di me, ti sta fissando. Sei proprio una visione. I tuoi capelli si muovono scivolando sulla schiena, li sposti con la mano delicata, dalle dita lunghe, dietro l’orecchio. Mi sembra di sentire il tuo profumo arrivare fino a me, come un sortilegio. Sono certo di averti già vista, sicuramente immaginata. Non sento la tua voce, vorrei sentirti parlare, ma siamo lontani. Il tuo compagno ( è tuo marito?), sta guardando il telefonino. Ma come si fa? Come può staccare gli occhi da te? Io non ci riesco. E bevo. Verso del vino a mia moglie che sta parlando di ferie, suoceri, nostro figlio che ancora non ha deciso cosa fare della sua vita. E se adesso venissi da te? Se ti prendessi per mano e ti portassi via? Mi hai guardato! I tuoi occhi sono rimasti nei miei per un attimo. Ci provo, io ci provo. Quella cosa delle telepatia mi ha sempre affascinato e ora, ci provo. Mi concentro. Cameriere e nuovi piatti. “Non li toccate perché sono caldissimi.” Sentisse le mie mani! Sono in fiamme, ho lo stomaco chiuso, no, chiuso no, infatti sto mangiando. Mastico, più che altro. Sarà un colpo di fulmine? Mai successo prima. Mia moglie sta chiedendo se sto bene, perché sono tutto rosso. “Andropausa?” “Ma cosa ti viene in mente. Sarà stato il vino.” Prendo la bottiglia e gliela mostro, 13 gradi e mezzo. “Visto?” Mi giro e non ci sei più. Al tuo tavolo, tuo marito sta aspettando, digitando sul telefono. Sei andata in bagno? “Scusami cara, vado un attimo in bagno.” Mi risponde, mia moglie mi risponde ma non sento, anzi, sento solo il mio cuore che sta martellando battiti. Cammino quasi al suo ritmo, veloce, cercando con lo sguardo i bagni. “Sono là dietro a destra”. Là dietro, a destra. Schivo i tavoli, attraverso una palude di parole che si accavallano in un mostruoso sottofondo, giro a destra e mi fermo. Dietro la paratia che nasconde la sala, davanti alle porte con le sagome di una signora e un signore, aspetto. Cosa farò quando uscirai? E la porta delle signore si apre. Sei tu. Sei tu? Una ragazza un pò in carne, non troppo alta, dai seni formosi che riflettono la luce dei faretti. Mi guardi ma non mi vedi. “Mi scusi.” E mi aggiri. Quel mi scusi mi ha gelato. Ma che razza di voce hai? Dura, grave, e in sintonia con i polpacci da terzino. Perfino le tue mani mi sembrano diverse, lunghe ma per niente delicate, con le unghie lunghe e affilate. Sono deluso, sì, sono amaramente deluso, mi sento fraudato. Dov’é il mio sogno? Dov’è? Spingo la porta del bagno dei signori e mi fermo davanti allo specchio. Ma guardati! Sei un sognatore, sei un romantico sognatore! Esce un uomo da una toilette e mi sembra il caso di affrettarmi ad uscire. Non si va in toilette se ci sono gli orinatoi a muro, a meno di avere qualche emergenza che non voglio nemmeno soffermarmi a pensare. Mi sorpassa, senza neanche lavarsi le mani ed esce. Ma che schifo, che schifo di mondo. Che schifo di serata.

Non ci sono i gabbiani

Osservo dall’alto di una collina. Siamo dovuti scappare, non respiravamo più. Siamo stati svegliati da un rumore forte, sembravano colpi di frusta impazziti. Quando ho spostato le tende e ho visto i fili elettrici che si dimenavano nell’aria, colpendo l’asfalto e spruzzando lapilli, sono rimasto fermo, pensando a come fosse successo. Il tempo di raggiungere la porta d’ingresso e già l’aria nel corridoio era grigia, irrespirabile, cattiva. Non so come siamo arrivati fin quassù. Mi ricordo le urla dei vicini, io, in pigiama che, sulla soglia di casa, resto pietrificato a guardare l’orizzonte, in fuoco.

Un cielo così non l’avevo mai visto, da fine del mondo. Devo averlo anche pensato. Poi, le corse da una stanza all’altra, mia moglie che prende i bambini, i soldi, i pochi gioielli e, mentre si veste, mi urla di prendere un borsone e metterci i vestiti per tutti. L’ho fatto. Ora sono in pigiama, qui, sulla collina, con addosso una coperta.

Là in fondo c’era la nostra casa, non si vede, è stata ingoiata da un’onda gialla e rossa di altissime lingue di fuoco dalla punta blu. Un’orda mefistofelica che sta divorando con gioia, che avanza senza fretta e lascia un’ombra nera, una immensa nuvola statica sui resti del banchetto. Sento i lamenti intorno a me, di chi sta osservando i morsi del fuoco che sbranano le mura, i giardini. Si sentono in lontananza i versi degli animali che stanno fuggendo, forse non riescono a vedere, hanno paura, non respirano. Come si fa a non avere paura? Ora che siamo qui, sani e salvi, come tizzoni spenti che esalano umori acri, ci guardiamo intorno. Continuano ad arrivare macchine, tra poco saremo bloccati. Il panico non ti fa ragionare. Quel mostro là sotto non si fermerà, si sta ingozzando con sempre più ingordigia, sono i nostri ricordi a fare da carburante, le nostre foto, i mobili, le palizzate dipinte, le altalene. Siamo attorniati da tanti cani che abbaiano, i gatti invece sono in braccio, col muso nascosto dentro le maglie, in cerca di un filtro per respirare meglio. Anche noi abbiamo dei fazzoletti sulla bocca e sul naso, gli occhi pizzicano. Dobbiamo allontanarci, dobbiamo muoverci. La nuvola nera si è alzata e arriverà, come un mantello pesante, una coltre di morte.

Via! Andiamo via! Urlo. Ma pochi se ne vanno, la maggior parte rimane a fissare quello che ha costruito in una vita, bruciare come un mucchio di paglia, sparire dietro le loro lacrime. C’è chi sta filmando. Seriously? Forse vuole documentare, forse è in diretta su qualche Social. Io vorrei essere altrove. Saliamo in macchina e, lentamente, ci allontaniamo seguendo un tragico corteo, non profughi né esiliati, ma sfollati. Si starà già parlando di calamità e, per un po’, non saremo soli.

Là in fondo, dalla parte opposta alle fiamme, il mare si muove lento come una lastra d’acciaio, la luce della luna filtra nell’aria densa di fuliggine. Non ci sono i gabbiani e i leoni marini saranno già al largo. Seguo le altre macchine, una scia di fari, come lunghe vene iridescenti che si muovono pulsando.

“Tenete chiusi i finestrini! State tranquilli, stiamo andando via.”

Dietro di noi, mi sembra di sentire un verso disumano, è il brutale boato del fuoco che avanza.

PLPL – Roma Convention Center La Nuvola – 4/8 dicembre 2024

PLPL – ROMA – LA NUVOLA – 4/8 dicembre 2024

Rientrata! Stanca (molto stanca) ma felice!

È sempre bello partecipare alle Fiere dei Libri e questa al Roma Convention Center La Nuvola, è stata una full immersion!

Cara Gattapazza, ti ho aspettato… e Marisa Salabelle, potevi dirmelo prima che eri presente, ti avrei sicuramente cercata!!!

Ho portato a casa incontri, sorprese, chiacchierate e interviste e… un bel raffreddore!

Non vi ho dimenticato,,, è che dovevo anche dormire( almeno un po’😜).

Marcella


Bilico

Io non mi conosco. Non vedo perché dovrei per forza ascoltare.

Uscendo di casa, con la testa che continuava a raccontare la solita storia, aveva preso la direzione verso il centro. Una folla che camminava, in disordine, osservando le vetrine già addobbate per il Natale. Tante luci dai fari delle macchine, riflessi che le ferivano gli occhi e quel sottofondo rumoroso, quel chiacchiericcio molesto che la infastidiva. Avrebbe dovuto già pensare agli acquisti, ai regali, ma proprio non ce la faceva. Avrebbe dovuto essere, se non allegra, almeno consapevole della fortuna che aveva. C’erano problemi? No.

Alla fine, tutti hanno problemi, anzi, preoccupazioni. I problemi sono altri.

Niente da fare. Il cervello ruminava, inquietava, chiedeva la pace. Poi, di colpo, un tonfo sordo e violento. Una frenata che sembra non finire mai.

Gente che urla e corre.

Qualcuno è stato investito?

Giaceva a terra, sull’asfalto, ferma e sanguinante. Era buio e le voci non le sentiva più. Ascoltava quel silenzio, quel vuoto. Ma non era pace, era terrore. Le sembrava di vedere piedi, tante scarpe. Rimase a fissare degli stivaletti bicolore, nero e marrone e pensò a quanto erano brutti. Poi, si sentì sollevare, mani che la posizionavano su qualcosa di rigido, piccolo, perché le braccia le cadevano penzoloni.

Sirene e sballottamenti. Voci. Poi, più nulla.

Ascoltava quel buio silenzioso. Era diventata quel silenzio, quel vuoto, senza intervenire.

Non intervengo. Non interviene il mio io. É questa la pace? Sono sconosciuta a me stessa, ho smesso di raccontarmi.

Codice rosso.

A M A R E

Impulso di scrittura giornaliero
Condividi cinque cose in cui sei bravo.

A ascoltare

M meditare

A aspettare

R rispettare

E… scrivere.

Per la quinta, diciamo che ci provo.

Boccascena e il mantello d’Arlecchino

Persa. Non provava altra sensazione. Pensandoci meglio, si sentiva anche oppressa, claustrofobica, come rinchiusa in un bunker grigio, con le fredde luci dei neon. Era davanti allo specchio, chiudendo un occhio alla volta, fissando l’iride. Le sembrava che una fosse più chiara dell’altra. Immaginazione. Forse un po’ di strabismo di Venere. Sensuale. Si perse tra le pagliuzze ocra che, diventando immense, la ingoiavano e la risputavano inevitabilmente sul freddo vetro. Persa.

Era invidia. La sua, aveva qualche screziatura gialla. Persa.

Quanto avrebbe voluto provare invidia buona, semplice ammirazione, ma non esiste l’invidia buona. E rise amaramente, pensando a chi si barrica dietro alle parole e cerca uno scudo per proteggersi dalla verità. Bruciava, eccome, avere perso. Una bella colata di acido proprio nello stomaco, lenta e crudele.

L’invidia è la carie delle ossa, ne puoi sentire l’odore, immaginare il colore imputridito, sapendo che è lì, insolente. É uno dei sette vizi capitali, mica fuffa, una dichiarazione di inferiorità, comprovata dal fallimento personale. Ed io, ho fallito.

Persa.

Che altro avrebbe potuto fare? Raccomandazioni, cena e annessi con uno dei giurati, si era perfino fatta la mastoplastica riduttiva e ritocchini vari su indicazioni del suo agente. Ma non era bastato.

Che altro volete? Ditemelo? Il talento c’è, lo so che c’è, quindi? Cosa mi manca? Perché non io?

Un conato di vomito la piegò sulla tazza del WC, spruzzando aceto e bile ovunque. La pelle si stava squamando, bastava toccarla e perdeva piccole scaglie luminescenti.

Più magra di così? Lo posso fare. Certo che posso.

Si asciugò la bocca e andò in cucina scrollando i video sul cellulare. Prese un bicchiere e lo riempì d’aceto, bevendolo tutto d’un fiato. Quasi non sentiva le budella contorcersi mentre osservava le altre, quelle che erano state prese.

Lacrime acide, collose e minuscole, le scesero sul viso e lì, rimasero.

Assenza

Un sospiro. Ancora. E gli occhi trattengono le lacrime come una diga al limite della capienza. Lei è seduta, vicino a suo marito, ed entrambi, stanno fissando la sedia vuota, davanti a loro. Il piatto mezzo pieno di pasta in bianco, col parmigiano, il piatto preferito da suo figlio. Quello era il piatto che le aveva sempre chiesto, quello era la via per la salvezza. Ma non era stato così. Neanche oggi. Il mostro che si era impossessato di Davide lo stava portando via, e lei sentiva i conati di vomito, dal bagno, e lo sciacquone, che dichiarava: é fatta.

Assenza.

Questa parola le si era insinuata sotto-pelle, durante le sedute con lo psicologo che aveva preso in cura Davide. Ma non erano le ragazze ad essere vittime di anoressia?

An-orexis, assenza di appetito(orexis), non è solo il rifiuto di nutrirsi, è assenza di desiderio, del desiderio di vivere.

Perché Davide?

Eri così intelligente, non capisco come mai non riuscivi ad ottenere voti migliori, per non parlare delle uscite con i tuoi amici. Quante volte ti abbiamo rimproverato per aver fatto cose assurde, come guidare bendato o lanciarti, da un palazzo di tre piani, all’altro. E quella volta che tuo padre ti ha visto uscire truccato come un trans, e gli avevi risposto che era un gioco? Gioco, sti c…i, io ero rimasta inorridita. Mio figlio, MIO FIGLIO, che va a passare una serata con chissà chi, conciato in quel modo. Ti sei drogato? Sono sicura che ti sei anche drogato.

Non sai più ragionare. Lo hai mai fatto? Bisogna pensare prima di agire!

Non vedi quanto ci fai preoccupare? Pensavo fossi più forte. Hai smesso di lottare, se mai hai cominciato. Io sono stanca, tuo padre è stanco.

Davide non ha nessun sentimento di colpa. Lui nega, negava sempre. Lui, allo specchio, si vede enorme e grottesco, immeritevole di esistere. Nella sua camera, perfettamente in ordine, i libri impilati per gamma di colore e dimensione, il letto immacolato, col copriletto rigidamente infilato ai quattro lati, la scrivania sgombra, con solo quattro penne allineate davanti al computer. Non c’era posto per ninnoli o fogli, per scarpe abbandonate a terra, magliette lasciate sulla sedia. Non c’era posto.

Prese dall’armadio, lucido e perfettamente chiuso, il suo borsone per la palestra ed uscì.