
Mi chiamo Giovanna e ho 88 anni.
Sto aspettando, distesa su una barella, all’entrata del pronto soccorso, davanti alla porta scorrevole che si apre, si chiude, si apre, si chiude. Tra un’apertura e una chiusura, entrano folate di vento gelido e la coperta che mi hanno messo addosso, fino a coprirmi la faccia, è davvero brutta, sembra pesante ma non scalda. A guardarla bene, ricorda quelle delle carceri, grigia con quelle righe amaranto sbiadite. Mia figlia mi ha accompagnato e sta parlando con l’accettazione. Siamo venute in ambulanza, con codice rosso. Avrebbero dovuto portarmi già dentro l’ospedale, dovrei essere già tra le mani di un dottore ma, ormai so, dopo svariati ricoveri, che devi proprio essere a un passo dall’aldilà, per saltare la parte burocratica iniziale. Comunque non sento più la gamba destra, è quella più esposta all’aria, e mi fanno male le mani. Respiro a fatica e non ho la forza per spostare la coperta dalla faccia. Spero che mia figlia si sbrighi o penseranno che io sia un cadavere, in attesa di essere spostata all’obitorio.
Sento entrare altre barelle, ahia, questo significa che se arriva qualcuno che sta peggio di me, scenderò in graduatoria. Voci confuse, l’aria che solleva un lembo della coperta e mi scopre i piedi. Di bene in meglio. Qualcuno passa e me li copre, spostando senza grazia quella coltre ruvida. Mi sembra sia la dottoressa che è venuta a casa, la voce potente e la risata forte sono le sue. Stanno uscendo, forse a prendere qualcun altro.
Che via vai. Una stazione. E mia figlia è arrivata, mi scopre il viso. “Ma guarda se devono lasciare le persone così! Come stai mamma? Ora ti sposto io, qui non puoi stare, con un inizio di polmonite! E dov’è l’ossigeno? Questi sono matti.” E sento le sue mani, calde, che mi accarezzano il viso, sento il suo cappotto sopra di me, mentre la barella scivola, prima a fatica ma, dopo due spinte energiche, leggera, verso l’interno. Qualcuno sta parlando, stanno sgridando mia figlia. E lei risponde. Non l’ho mai sentita parlare con quel tono di voce. Sembra una leonessa che protegge la cucciolata. Com’ero io. Nessuno poteva fermarmi se minacciavano qualcuno della mia famiglia.
Ora me ne sto qui, inerme, debole. Non provo rabbia, né angoscia. Provo solo un gran freddo. Ho chiuso gli occhi mentre mi posizionano una mascherina, un infermiere sta regolando il flusso d’aria. E i polmoni sembrano aprirsi, respiro di nuovo… respiro di nuovo. “Torno subito mamma.” Mia figlia è ripartita all’attacco, so che non starà ferma ad aspettare. Mi ha messo un cuscino sotto la testa e sto decisamente più comoda.
Riesco a vedere le altre persone al triage, visi contorti nel dolore, visi con gli occhi spaventati, qualcuno si è addormentato, qualcuno se ne sta in piedi di fianco al desk dell’accettazione, un distributore di bevande ronza nell’angolo. Poi vedo arrivare un’infermiera. Ha il viso stanco, le occhiaie, la divisa stropicciata e si dirige verso i colleghi. Uno di loro sta suturando una ferita sulla fronte di un signore che avrà più o meno la mia età. “Vedrà che rimarrà bello! Le sto facendo un lavoretto perfetto!” É gentile, giovane. In effetti, sono in pochi, davvero pochi. L’infermiere più anziano è uscito dall’ufficio e sta dicendo a tutti di pazientare ancora un po’.
La porta scorrevole si apre e, all’improvviso, non riesco a vedere bene, entra un fiume di gente, un vortice di urla e spintoni. Sento che mia figlia sta spostando la barella verso il muro, oltre i sedili, lontano dal tornado di parolacce e violenza che, nel frattempo, sta pestando a calci e pugni, i due infermieri. Urla, offese, pianti e grida. Qualcuno è morto, anzi è morta. É morta una ragazza, e tutta la sua famiglia sta scaricando il dolore e la rabbia su chi ritiene sia il colpevole. Arrivano altri infermieri mentre le persone in attesa fanno fatica a muoversi, spostarsi dall’orrore.
Ed entrano i poliziotti, sono in tre, non bastano. Ma uno tira fuori la pistola. Vedo l’ombra dell’arma proiettata sul soffitto, vedo tante ombre che si contorcono, un teatrino macabro e surreale.
Arrivano anche i carabinieri e altri poliziotti.
Li hanno fermati. Hanno fermato la furia di una famiglia che, dice mia figlia, ha ridotto a pezzi tre infermieri. Li hanno pestati a sangue, hanno anche picchiato l’infermiera, le sta sanguinando il labbro.
“Come sta il ragazzo, quello giovane?” Trovo la forza di domandare a mia figlia.
“Non so mamma. É a terra, immobile.”
Il nostro Servizio sanitario ha qualche lacuna, manca il personale e non tutti sono “adatti,” non tutti sono professionalmente all’altezza di un compito così duro e delicato. Ma, a volte, schermare la propria empatia, aiuta ad arrivare a sera senza il cuore maciullato. É un impiego che richiede molto e che forse non è pagato il giusto. Non voglio generalizzare né in un senso né nell’altro, perché ognuno di noi avrà avuto esperienze più o meno positive. Di certo MAI, in nessun caso, si dovrebbero verificare situazioni come quella che ho descritto e che, purtroppo, a volte sentiamo nella cronaca.
Il mio abbraccio a chi ha scelto la professione medica, che sia infermiere o primario di reparto, augurando loro che non diventi mai solo “un lavoro”. Perché non lo é.