Sballo nel silenzio

Era davvero tardi. Aveva promesso di rientrare al massimo per le due e, come al solito, la mezz’ora in più era diventata un’ora, due ore, quasi tre. Guardava fuori dal finestrino della macchina, di fianco all’unico del gruppo che se l’era sentita di guidare. Il finestrino un po’ abbassato, quel tanto da permettere all’aria di sfiorarle la fronte e le sopracciglia. Aria umida, appiccicosa, ma in fondo piacevole, così le sembrava, in quell’abitacolo pieno di braccia, gambe, capelli.

Silenzio.

Solo nella testa pulsava ancora il ritmo sordo della musica, un tamburo ancestrale che non si fermava, che oscillava da tempia a tempia.

Silenzio.

Chiuse gli occhi ma le facevano male, come se le stessero premendo le orbite con i polpastrelli. Strana sensazione. Qualcuno dietro di lei stava parlando, non si mosse. Sentiva ridere ma il tamburo non si fermava.

Fermi al semaforo rosso abbassò un po’ di più il finestrino e venne sopraffatta dall’odore, nauseabondo, di pesce, dei resti che galleggiavano in pozzanghere dense, lasciate forse da un grossolano lavaggio fatto alla fine del mercato. Era talmente forte da stordire, come l’odore delle alghe putrefatte tra gli scogli, portato dalla salsedine marina. Ti entra nelle narici e lì resta.

Chissà se rivedrò quel ragazzo. Troppo alcool. Aveva un bel sorriso e delle strane orecchie.

Non era da lei. Lidia sì, la sua amica sì, era quella che sembrava facile. Non lei. Le faceva male la testa, così rimase a fissare lo specchietto e vide i suoi amici, uno sopra all’altro, addormentati. Lidia era dall’altra parte.

Dall’altra parte.

Lei che va in bagno con lui, lei che si lascia fare. Lei che, in fondo, non ricorda molto bene, a parte le maioliche rotte nell’angolo in basso del muro, il suo piede appoggiato alla tazza del water e il rumore dei colpi della sua schiena contro la sottile parete divisoria dei bagni. Tira su col naso, cerca di fare un respiro profondo. Poi guarda il vestito, macchiato, e lo abbassa un po’ sulle cosce.

Semaforo verde. A sobbalzi, si riparte.

Silenzio.


Foto da unsplash

BOCCIOLI DI ROSE

L’accendino non funzionava. Continuava a fare cilecca. Poi, finalmente, la fiamma fece il suo lavoro e, dopo aver aspirato, salì una nuvola bianca. Era in cortile, l’ora d’aria.

Si avvicinò qualcuno a chiederle di accendere e non rispose. Guardava la punta delle scarpe, scarponcini blu, con i lacci, coperti da un po’ di polvere. Poi alzò lo sguardo e la persona se ne era andata.

Tutti camminavano, in due o tre, e parlavano. Quando qualcuno alzava la voce, arrivava subito un agente del penitenziario. Lei invece se ne stava seduta ad osservare, a volte guardava il cielo, poi seguiva il perimetro delle mura.

Le ricordava un muretto della sua casa, ma là c’era una rosa e dell’edera, e il colore del cielo era più bello.

Sarà per lo smog, pensò. Chissà se qualcuno ha concimato le rose, dovrò ricordarmi di chiederlo.

Aspettava l’avvocato, c’erano risvolti, così le aveva detto. Il tempo rallenta quando aspetti, la sabbia nella clessidra sembra bagnata.

Succede.

Qualcuno le si siede vicino. Le parla. Le mostra una foto con due bambine. Perché? Chi sei? Perché hai la foto delle mie figlie? Le strappa di mano la foto e comincia ad urlare.

PERCHÉ HAI LE FOTO DELLE MIE FIGLIE? CHI SEI?

Gli agenti arrivano di corsa, braccia che la bloccano mentre scalcia e si dimena, come un animale che intuisce la sua fine. Sembra di gomma e la riportano dentro in quattro, fino al reparto medico, dove una iniezione pone fine all’esagitazione.

E la mente appare più chiara, i ricordi affiorano. Tutto quel sangue, nei lettini, sui cuscini.

NO.

Il rifiuto, la corsa verso i lettini, gli abbracci e le urla chiamando le sue bambine.

Il sangue addosso e LUI, dietro di lei. LUI che non era più lui. Lui che le aveva fatto battere il cuore in gola, lui che aveva amato con ogni centimetro della sua pelle, lui che era stato suo. Le sue bambine, che erano state, LORO.

É confusa, ha paura. Cosa succede? Perché sono qui? Devo andare a casa.

E una flebo riporta la calma.

Ma vede. Chiaramente.

Ora vede e ricorda il dolore di un lama che le colpisce il braccio, l’urlo che rimane in gola, la fuga tra calci e orrore, scivolando sul pavimento, aggrappandosi ai mobili. Sente il fiato di LUI ma non si gira, sta correndo verso il balcone, esce e urla. Un’altra coltellata al fianco, la sua mano che cerca qualcosa, afferra un attrezzo, non sa cosa.

Poi un colpo, secco.

Si ricorda del suono, come quello delle noci spaccate a mano, mentre LUI crolla a terra.

E silenzio. Orribile silenzio, terrificante silenzio, assordante silenzio.

Devo dire a qualcuno di dare il concime alle rose.


foto di Manmohan Pandey da Unsplash