Akrasia. (Da barrare nella lista).

Nella sala, sprofondata nel divano, avvertiva solo un po’ di acufene. Sentire il silenzio è impossibile. Aprì il libro e distese l’orecchia che aveva fatto all’angolo della pagina. Allungò le gambe sulla sedia e posizionò meglio il cuscino dietro la schiena. Aveva scritto un elenco di cose da fare ogni giorno, i buoni propositi nero su bianco, che alla fine le erano sembrati una lista della spesa, di quelle che compili e dimentichi sempre a casa. Erano le 14.00.

Lista: 5) h 14.00, leggere.

Voltò la pagina, cercando di far arrivare il più possibile la luce dalla finestra dietro le spalle, e allontanò un po’ il libro. Molto meglio. Fu allora che iniziò un rumore forte, continuo, come una trivella, no, come un meccanismo inceppato, un motore che stava cercando di accendersi.

Cos’è? Mi alzo?

E aspettò. Il rumore proveniva dal giardino di fianco alla casa, era chiaro. Forse un vicino stava armeggiando con qualche strumento. E non smetteva, anzi, stava aumentando. Era costante, penetrante.

Mi alzo? Si fermerà.

Girò la pagina e lesse tre righe, due volte. Quel sibilo ipnotizzante le stava trapanando il cervello.

E se mettessi le cuffie?

Continuò a leggere.

Potrebbe essere un’ astronave aliena, proprio qui fuori, e io me ne sto seduta. Forse sta cercando un contatto. Ora mi alzo.

E girò un’altra pagina. Il telefono l’avvisò dell’arrivo di un messaggio.

Ho voglia di mangiare qualcosa, ora mi alzo, vado a vedere da dove arriva questo rumore, e poi vado in cucina a prepararmi qualche carota.

Lista: 2) niente dolci.

Sospirò. Poggiò un piede a terra e il rumore, improvvisamente, perse volume, avvitandosi su sé stesso come una sirena che si sta spegnendo. Riposizionò gli occhiali sul naso, spostandoli bene verso gli occhi. E girò un’altra pagina. Appoggiò la testa allo schienale del divano, una gamba era rimasta a terra, e guardò il soffitto.

Chiuse gli occhi.

Il silenzio dopo il mare

Aveva arricciato le dita dei piedi nella sabbia del bagnasciuga mentre l’acqua fresca del mare, assonnato e dolce come una carezza, non aveva fretta, ma lei sì.

  • Buongiorno! Cosa prende?

I soliti rumori, le solite voci troppo alte. Perché urlano tutti? Il bar, il più bello della costa,  si stava riempiendo di gente in vacanza, ciabatte e capelli spettinati, borse colme e bambini già iperattivi. Come ogni giorno, scandito da gesti meccanici, preparava le colazioni, posizionava piattini e tazzine, controllava gli scontrini con discrezione e cercava un contatto che andasse al di là di un sorriso di circostanza. Aveva imparato negli anni, sapeva non superare il limite.

Il limite.

Ognuno aveva il suo e, nelle sue giornate, aveva suddiviso i clienti in 6 tipologie.

I Polpi, che ancora dovevano andare a dormire, ma biascicavano l’ordine con lo sguardo basso o velato dalla roba, acidi, ecstasy, hashish. Stropicciati fin nell’anima.

Le Ricciole, i villeggianti, eleganti fin dalle 7.00 del mattino. Gli uomini col quotidiano sotto al braccio e le donne con cagnolino al guinzaglio. Li conosceva tutti e, qualcuno, conosceva lei.

I Fritti misti, che erano entrati per sbaglio ma, ormai, già che c’erano, prendevano un caffè al banco. In genere venivano il primo giorno, prima di andare a fissare ombrellone e sdraio per la famiglia.

Gli Spiedini, i commessi dei negozi di lusso della strada principale, già stanchi, incravattati, profumati, con trecce di capelli rigide come fruste e unghie smaltate perfette.

Le Cozze, coppiette di innamorati. Esistevano dei sottolivelli. O erano visibilmente in amore, mano nella mano, occhi negli occhi, o erano già scaduti, come uno yogurt cagliato, l’incanto stava svanendo nei grumi di ricordi ancora presenti.

Le Meduse, i single, solitari e più o meno loquaci, a volte un po’ persi. Uomini e donne in un universo parallelo. Si chiedeva spesso come vivessero. Anche lei faceva parte di quell’universo e conosceva bene la sensazione di isolamento, come un tir in autostrada tra tante macchine piene di vita.

Le Sardine, famigliole perfette, papà, mamma, figli, più di uno. Passeggini spaziali e gadget di ultima generazione, le nuove tate per tacitare i bambini, seduti fuori, con un tripudio di brioches, caffè e latte, miele e nutella.

La prima ondata era finita, lasciando le cose da riordinare, pulire, sistemare, come dopo una mareggiata.

  • Allora Rica che hai fatto ieri sera?

Stefania, la sua collega, sposata, con un figlio e in attesa del secondo, cercava di sistemarla ad ogni costo. Proprio non le andava giù che a 38 anni fosse ancora single, una medusa.

L’aveva soprannominata Rica dal primo giorno di lavoro, dicendole che sembrava un ostrica, chiusa e coriacea. Qualcosa di pregiato, in fondo. Lei si chiamava Laura.

  • Sono rimasta in casa, sul terrazzo, a leggere.
  • Tesoro mio, ma se non ti dai da fare, se non esci, incontri un po’ di amici, mica cambia! I principi azzurri sono finiti!

Mi sa che hai preso l’ultimo, pensò Laura. Parlava molto con sé stessa, era giunta alla conclusione che a volte le parole erano inutili. Meglio, molto meglio ascoltare e, osservare.

Era arrivato il Professore, bella persona, d’altri tempi, come avrebbe detto sua madre. Ogni giorno entrava con passo tranquillo, al termine della mareggiata, ordinava il solito e si sedeva al suo tavolino, all’interno del bar. Fuori già si accalcava la folla diretta alle spiagge, rimbalzavano le chiacchiere nella calura che cominciava a dominare la giornata.

  • Buongiorno Laura.
  • Buongiorno Professore.

Parlavano poco, solo se sortiva un argomento di conversazione, in genere da lui. Era vedovo e molto corteggiato, a volte in maniera talmente evidente da risultare imbarazzante. Laura osservava la sua eleganza, tradita da qualche particolare dismesso, come le camicie non stirate. Eppure, invidiava la sua tranquillità, la sua sicurezza non ostentata, quella capacità di declinare inviti senza recare offesa.

Un Delfino, senza dubbio.

  • Laura vai al 3, sono arrivate delle clienti.

Anni di lavoro in quel bar e ancora non era riuscita a memorizzare i numeri dei tavolini all’aperto, un rifiuto inconscio. All’esterno, sotto al tendone a strisce bianche e verdi, tra vasi colmi di piante, erano stati collocati dieci tavolini da quattro, in ferro battuto e pietra lavica, costosissimi e pesantissimi. C’era solo un tavolo occupato, meno male.

  • Buongiorno, cosa vi posso portare?

C’erano tre giovani donne, sorridenti, dalla carnagione appena dorata che sbucava dai copricostume, avvolte da un fresco profumo di lavanda e cedro.

  • Buongiorno! Tre cappuccini, uno col cacao, e tre croissant vuoti.

L’ordinazione le venne fatta da due occhiali a specchio che le rimandarono il riverbero del sole.

  • Succo d’arancia?
  • No, grazie, anzi sì, per me.

Rientrare nel bar e passare l’ordine fu come tornare al sicuro. Tre Sirene sedute al tavolo 3. Paolo e Mattia, i camerieri, fecero a gara per andare a portare le colazioni.

Dal suo antro protetto, Laura osservava la scena già vista migliaia di volte. La battuta, le domande, i consigli. Poi, alla fine, i gelèes di frutta su un piattino con frangino, offerti alle dee, propizi per chi sa quale futura evoluzione. Il più delle volte toppavano alla grande, ma, chi può dirlo?

Laura era uscita sul retro un momento, per fumare. Il vicolo era stretto, tra le pareti delle case, con i cassonetti alla fine. Alzando lo sguardo era possibile vedere una fetta di cielo azzurro, come una larga riga. Da entrambi i lati, il vicolo sbucava su strade pedonali e si vedeva passare qualcuno, di tanto in tanto, passeggiare all’ombra dei pini marittimi.

C’erano giornate in cui soffiava un po’ di vento, passava un po’ di corrente, un sussurro lieve, ma non oggi.

Bilico

Io non mi conosco. Non vedo perché dovrei per forza ascoltare.

Uscendo di casa, con la testa che continuava a raccontare la solita storia, aveva preso la direzione verso il centro. Una folla che camminava, in disordine, osservando le vetrine già addobbate per il Natale. Tante luci dai fari delle macchine, riflessi che le ferivano gli occhi e quel sottofondo rumoroso, quel chiacchiericcio molesto che la infastidiva. Avrebbe dovuto già pensare agli acquisti, ai regali, ma proprio non ce la faceva. Avrebbe dovuto essere, se non allegra, almeno consapevole della fortuna che aveva. C’erano problemi? No.

Alla fine, tutti hanno problemi, anzi, preoccupazioni. I problemi sono altri.

Niente da fare. Il cervello ruminava, inquietava, chiedeva la pace. Poi, di colpo, un tonfo sordo e violento. Una frenata che sembra non finire mai.

Gente che urla e corre.

Qualcuno è stato investito?

Giaceva a terra, sull’asfalto, ferma e sanguinante. Era buio e le voci non le sentiva più. Ascoltava quel silenzio, quel vuoto. Ma non era pace, era terrore. Le sembrava di vedere piedi, tante scarpe. Rimase a fissare degli stivaletti bicolore, nero e marrone e pensò a quanto erano brutti. Poi, si sentì sollevare, mani che la posizionavano su qualcosa di rigido, piccolo, perché le braccia le cadevano penzoloni.

Sirene e sballottamenti. Voci. Poi, più nulla.

Ascoltava quel buio silenzioso. Era diventata quel silenzio, quel vuoto, senza intervenire.

Non intervengo. Non interviene il mio io. É questa la pace? Sono sconosciuta a me stessa, ho smesso di raccontarmi.

Codice rosso.

Sballo nel silenzio

Era davvero tardi. Aveva promesso di rientrare al massimo per le due e, come al solito, la mezz’ora in più era diventata un’ora, due ore, quasi tre. Guardava fuori dal finestrino della macchina, di fianco all’unico del gruppo che se l’era sentita di guidare. Il finestrino un po’ abbassato, quel tanto da permettere all’aria di sfiorarle la fronte e le sopracciglia. Aria umida, appiccicosa, ma in fondo piacevole, così le sembrava, in quell’abitacolo pieno di braccia, gambe, capelli.

Silenzio.

Solo nella testa pulsava ancora il ritmo sordo della musica, un tamburo ancestrale che non si fermava, che oscillava da tempia a tempia.

Silenzio.

Chiuse gli occhi ma le facevano male, come se le stessero premendo le orbite con i polpastrelli. Strana sensazione. Qualcuno dietro di lei stava parlando, non si mosse. Sentiva ridere ma il tamburo non si fermava.

Fermi al semaforo rosso abbassò un po’ di più il finestrino e venne sopraffatta dall’odore, nauseabondo, di pesce, dei resti che galleggiavano in pozzanghere dense, lasciate forse da un grossolano lavaggio fatto alla fine del mercato. Era talmente forte da stordire, come l’odore delle alghe putrefatte tra gli scogli, portato dalla salsedine marina. Ti entra nelle narici e lì resta.

Chissà se rivedrò quel ragazzo. Troppo alcool. Aveva un bel sorriso e delle strane orecchie.

Non era da lei. Lidia sì, la sua amica sì, era quella che sembrava facile. Non lei. Le faceva male la testa, così rimase a fissare lo specchietto e vide i suoi amici, uno sopra all’altro, addormentati. Lidia era dall’altra parte.

Dall’altra parte.

Lei che va in bagno con lui, lei che si lascia fare. Lei che, in fondo, non ricorda molto bene, a parte le maioliche rotte nell’angolo in basso del muro, il suo piede appoggiato alla tazza del water e il rumore dei colpi della sua schiena contro la sottile parete divisoria dei bagni. Tira su col naso, cerca di fare un respiro profondo. Poi guarda il vestito, macchiato, e lo abbassa un po’ sulle cosce.

Semaforo verde. A sobbalzi, si riparte.

Silenzio.


Foto da unsplash

BOCCIOLI DI ROSE

L’accendino non funzionava. Continuava a fare cilecca. Poi, finalmente, la fiamma fece il suo lavoro e, dopo aver aspirato, salì una nuvola bianca. Era in cortile, l’ora d’aria.

Si avvicinò qualcuno a chiederle di accendere e non rispose. Guardava la punta delle scarpe, scarponcini blu, con i lacci, coperti da un po’ di polvere. Poi alzò lo sguardo e la persona se ne era andata.

Tutti camminavano, in due o tre, e parlavano. Quando qualcuno alzava la voce, arrivava subito un agente del penitenziario. Lei invece se ne stava seduta ad osservare, a volte guardava il cielo, poi seguiva il perimetro delle mura.

Le ricordava un muretto della sua casa, ma là c’era una rosa e dell’edera, e il colore del cielo era più bello.

Sarà per lo smog, pensò. Chissà se qualcuno ha concimato le rose, dovrò ricordarmi di chiederlo.

Aspettava l’avvocato, c’erano risvolti, così le aveva detto. Il tempo rallenta quando aspetti, la sabbia nella clessidra sembra bagnata.

Succede.

Qualcuno le si siede vicino. Le parla. Le mostra una foto con due bambine. Perché? Chi sei? Perché hai la foto delle mie figlie? Le strappa di mano la foto e comincia ad urlare.

PERCHÉ HAI LE FOTO DELLE MIE FIGLIE? CHI SEI?

Gli agenti arrivano di corsa, braccia che la bloccano mentre scalcia e si dimena, come un animale che intuisce la sua fine. Sembra di gomma e la riportano dentro in quattro, fino al reparto medico, dove una iniezione pone fine all’esagitazione.

E la mente appare più chiara, i ricordi affiorano. Tutto quel sangue, nei lettini, sui cuscini.

NO.

Il rifiuto, la corsa verso i lettini, gli abbracci e le urla chiamando le sue bambine.

Il sangue addosso e LUI, dietro di lei. LUI che non era più lui. Lui che le aveva fatto battere il cuore in gola, lui che aveva amato con ogni centimetro della sua pelle, lui che era stato suo. Le sue bambine, che erano state, LORO.

É confusa, ha paura. Cosa succede? Perché sono qui? Devo andare a casa.

E una flebo riporta la calma.

Ma vede. Chiaramente.

Ora vede e ricorda il dolore di un lama che le colpisce il braccio, l’urlo che rimane in gola, la fuga tra calci e orrore, scivolando sul pavimento, aggrappandosi ai mobili. Sente il fiato di LUI ma non si gira, sta correndo verso il balcone, esce e urla. Un’altra coltellata al fianco, la sua mano che cerca qualcosa, afferra un attrezzo, non sa cosa.

Poi un colpo, secco.

Si ricorda del suono, come quello delle noci spaccate a mano, mentre LUI crolla a terra.

E silenzio. Orribile silenzio, terrificante silenzio, assordante silenzio.

Devo dire a qualcuno di dare il concime alle rose.


foto di Manmohan Pandey da Unsplash