Jams

Il jet lag comanda, almeno il primo giorno. Dopo aver aspettato che il sole schiarisse, almeno un po’, la parte alta delle facciate dei grattacieli, eccoti a passeggiare, o meglio, schivare una miriade di persone che camminano veloce, quasi correndo verso il posto di lavoro. Escono dalle fermate delle metropolitane come fiumi ordinati, non si toccano, non si parlano, sembrano sempre in ritardo.

Ma tu non hai fretta, se non fosse per il tuo stomaco che reclama, prenderesti anche tu un caffè al volo e ti confonderesti tra la folla.

I negozi stanno per aprire, le luci sono accese e all’interno, c’è un gran via vai di commessi, vetrinisti. Ti fermi davanti ad una vetrina di Bloomingdale’s, semicoperta da un telo. Sbirci col naso quasi appoggiato al vetro, i soliti manichini che sembrano seccati, si lasciano sistemare con lo sguardo perso in un certo snobismo. Uno ti sta fissando. Guardi meglio, non è un manichino, è un ragazzo, vestito di nero, dai capelli spettinati ad arte, gli occhi a mandorla e delle belle mani dalle dita lunghissime, con lo smalto nero. Una catena al posto della cintura manda bagliori ogni volta che si muove. Se rimanesse immobile, tra i manichini, nessuno se ne accorgerebbe. Ma a New York niente rimane immobile.

Quindi, neanche tu.

La Grand Central Station è lontana, un po’ troppo per andarci a piedi, a stomaco vuoto. Metro o taxi? Taxi. Ti volti e vedi che tre persone stanno già col braccio alzato, in attesa, conviene spostarsi un po’. Schivi un tombino fumante, passi davanti ad una Nail Spa, già piena di signore che parlano al telefono, sembrano avere i minuti contati.

Troppo stress appena sveglia.

La corsa in taxi è un rally, un po’ in inglese, un po’ in indi. L’autista ha perso la proverbiale calma dei suoi connazionali, si è integrato con la modalità efficienza, tic, tac, tic, tac. E ti lascia all’incrocio. Meglio. Chiudere lo sportello e vederlo sfrecciare verso il nuovo cliente, è un attimo.

Anche qui tanta gente e, controcorrente, raggiungi l’entrata della Grand Central, ed è come entrare nella caverna di Ali Babà.

La rush hour è passata, il gigantesco orologio segna le 09.25, la luce è morbida, cerchi il piccolo buco vicino alla costellazione dei pesci dipinta sul soffitto, sopra a viaggiatori che si muovono senza ansia e a un monaco seduto in meditazione, immobile come una statua sul pavimento in marmo.

Ecco la tua meta, il tuo coffee shop, piccolo, pulito, elegante, come sempre affollato di business men/women, che parlano sottovoce. Arriva il caffè, lungo e profumato e il solito breakfast, col bacon più croccante di Manhattan, il pane di segale tostato, il bagel e la selezione di jams, marmalade e honey.

Bene. La giornata può cominciare.


Foto di Rodolfo Cuadros da Unsplash