SHIKATA GA NAI

É successo, ancora. E ancora succederà.

Camminando sulla ghiaia, circondata da un’aura afflitta, rarefatta, sto per salutare un mio amico. Non una persona che conoscevo, è un amico. E la percezione della tristezza cambia, lo strappo che sento nella tela della mia vita, nel drappo che ho creato fin dalla nascita tessendo la trama dei miei ricordi, lascia intravedere un taglio simile a una ferita. Filano i nostri pensieri, anche quando siamo convinti che non succeda niente, creano pattern a volte perfetti e che restano come preziosi ricami nel caos dell’ordito unico delle nostre vite. Così, come per tutti, anche il mio arazzo di vita è cosparso di momenti che testimoniano qualcosa di bello: le emozioni, le soddisfazioni, le amicizie. Philia, l’amicizia, un dono della vita che travalica l’amore inteso come eros, la passione, perché è il te stesso dall’altra parte dello specchio.

Quel qualcuno che non potevi non incontrare nella tua vita, affine e disinteressato, così in sintonia da avvertire il tuo malessere e gioire per i tuoi successi. Decisamente una mosca bianca. Niente a che vedere con la persona che ti vomita i suoi sfoghi come in un cestino dei rifiuti, lontano anni luce dalle frasi di convenienza: ”Chiama quando vuoi. Io ci sono”.

Guardandomi intorno, tra le figure immobili e vestite di scuro, annuso il profumo d’incenso e penso a quanto gli piaceva. Lui che diceva di essere epicureo, anche pensando alla morte come a qualcosa che prenderà il nostro posto, un evento ineluttabile, per poi immaginarsi come un’onda che ritorna all’oceano. Non spariremo, ci evolveremo.

Ora vorrei vedere e sentire le onde, vorrei scorgere un guizzo che gli assomiglia. Come una carezza che mi aiuti a continuare a tessere, senza cercare di riparare quello che non si può, incastonando in quel taglio un suo sorriso.

Shikata ga nai. Impara a lasciare andare.

SPAM

Sono partiti. I suoi amici sono partiti per le vacanze. Sveglia, pillole, caffè e bagno. Aggiunge un’altra tacca alla settimana. Un’altra giornata in cui cercare qualcosa da ricordare. Così esce, come sempre, ha le sue commissioni da fare, quasi sempre le stesse, negli stessi negozi in cui incontra le stesse persone. Possibile? Devastante. Corre, corre sempre. Gli impegni si accavallano, anche se riesce a risolvere tante questioni, per lo più banali, ma comunque tossiche. Ma non riesce mai a staccare veramente, neanche quando si isola per un po’, quando si ferma a occhi chiusi ascoltando il suo respiro.

Si alza il vento e porta nuvole cariche di pioggia. Ora è fermo, sotto un temporale estivo, con l’ombrello che ripara appena. É fermo. Sposta l’ombrello, lascia che le gocce arrivino sul viso, sui capelli, lascia che il braccio scivoli di fianco con l’ombrello, fino a terra. Un tuono lontano sembra parlargli: ci sono. É un suono caldo, un abbraccio che arriva fino al cuore. Le macchine stanno passando veloci, di sicuro qualcuno lo starà guardando e si starà chiedendo cosa fa. Le gocce arrivano agli occhi e la sensazione non è quella che si era immaginato. Non sono come il collirio, oh no, sono piccole e fastidiose, gli appannano la vista. Non importa. Comincia a sentire le spalle bagnate, qualche rivolo che scende sul collo e sul petto.

Arrivano delle persone, sta ingombrando il piccolo marciapiedi. Meglio spostarsi. Piove. Annusa l’odore dell’aria bagnata, guarda i muri arroventati che odorano di pietra e sembrano antiche carte assorbenti, macchiate qua e là da minuscoli punti che appaiono e scompaiono. Il cielo è vivo. Si spostano le nuvole assorbite dal sole che reclama il suo regno. Vincerà.

I suoi amici sono partiti, e non lo hanno invitato.

“Sono finito negli spam.”

Giada Verde Menta

Mi chiamo Giada e sono in un loop dei miei.

Giada, un nome prezioso, chissà per quale motivo i miei genitori avevano scelto quel nome. In fondo in quegli anni non ce ne erano molti di strani, qualche Delfina o Luce, ma il periodo delle scelte fantasiose era già passato. Forse mia madre era rimasta ancorata a sensazioni della sua giovinezza ed io ero il suo gadget, come un portachiavi, uno di quegli aggeggi che appendi alle borse. I miei genitori, classici borghesi, laureati in economia. Mia madre usciva in tailleur ma aveva sempre qualcosa di folk, che fosse un fazzoletto o il colore delle calze, me la ricordo come una strana. Mio padre invece si era intristito, aveva perso i capelli e aveva le occhiaie, puzzava sempre di fumo.

Mi ricordo interminabili giri in macchina alla ricerca di un parcheggio, con l’abitacolo pieno di fumo e io che tiravo giù il finestrino con la manovella. Erano gli anni in cui le portiere si chiudevano facendo un rumore strano, di ferraglia, e i viaggi verso il mare erano viaggi, con tanto di panini al sacco e bibite che puntualmente diventavano calde. Ma quando finalmente arrivavi, cominciavi a sentire il profumo del mare e della sabbia, la macchina diventava rovente e per aprire il cofano dovevi fare in fretta. Poi scaricavi enormi valigie, quelle senza rotelle, quelle con la cerniera e spesso una sorta di chiusura come nelle borse, con tanto di chiavetta, mai utilizzata, che rimaneva appesa alla maniglia della valigia.

Si andava in camera, ci si cambiava e poi tutti in costume, alla ricerca del bagno che era abbinato all’albergo. Io mi vergognavo e giravo con delle magliette lunghe, che arrivavano fin sotto le natiche, facendo uscire due gambe lunghe e asciutte come quelle di un fenicottero. Avevo i capelli corti, alla maschietta, guardavo le altre ragazzine, già molto più donne di me, camminare nei loro bikini colorati, sorridenti. Poi, andavo al bar, prendevo un ghiacciolo alla menta e la mia vacanza era cominciata.

Ora sono qui, al mare, e osservo mia nipote, ha tredici anni. Siamo arrivati senza neanche uno stop all’autogrill per un caffè. Ma non avevamo fretta, il viaggio è stato silenzioso, solo mio marito parlava al telefono con un socio mentre io guardavo fuori dal finestrino la lunga distesa di campi, ormai tutti uguali, e nostra nipote Elena se ne stava isolata nelle sue cuffie, a occhi chiusi.

Ora sono qui. Sul lettino sotto all’ombrellone, tra tanti ombrelloni aperti, da sola. Il vento porta i profumi delle creme solari e lascia sulla pelle una patina di salsedine mista a finissima sabbia. Mio marito è ancora in albergo, deve finire un lavoro. Elena è là, seduta sul bagnasciuga, le cuffie sulle orecchie e lo sguardo perso chissà dove. Vedo tanti ragazzi e ragazze, soli, se ne stanno sdraiati sfoggiando ogni parte del corpo possibile, sono belli, bellissimi, e soli. Giusto qualche coppia cammina veloce, con i piedi nell’acqua, schivando chi sta arrivando dall’altra parte.

Elena è tornata e si sdraia, prende il telefonino e scrolla. È come anestetizzata, ipnotizzata. Si fa un selfie, poi un altro. Vorrei parlarle, sto cercando uno spiraglio, lo cerco sempre, e lei in genere risponde e basta.

  • Elena?

Si gira e mi guarda. Aspetta.

  • Mi dici una cosa che proprio non ti piace di me?

Si siede. Forse vorrebbe parlare, forse ha paura.

  • Non ci sono risposte sbagliate Elena. È solo una domanda.

Mi guarda e so che dall’infinito elenco nella sua mente non trova niente che sia al primo posto, ma sta pensando.

Mi alzo e vado al bar. Lei rimane a fissarmi. Cammino chiudendo il pareo sulla pancia, accelero perché la sabbia è davvero rovente.

  • Avete ghiaccioli? Alla menta? Me ne da due?

Fare il niente che voglio (it/en)

Ho preso tutto.

Rapido sguardo sulla scrivania per controllare se ha spento il computer e rimesso un po’ in ordine.

Detesto lasciare le penne fuori posto, le pratiche non impilate. Pazienza per la carta che deborda dal cestino, sembra quasi un’Ikebana multicolore. Via , via, devo uscire da qui, ho mille cose da fare!

Cammina veloce, a piccoli passi nervosi, seguendo il rumore dei tacchi sul marmo lucido. Il percorso è sempre lo stesso, come binari che la portano proprio davanti agli ascensori. Arrivano altre persone, chiacchierando, ciondolando, perdendo tempo. Si sta formando una piccola folla e l’ansia sale. Guarda l’ora sul telefonino e vede un messaggio.

  • Io vado. Ti aspetto là.

L’ascensore è arrivato e, come sempre, è già quasi al limite della capienza, ma lei entra di corsa.

C’ero io prima di voi. Ma cosa fate? Ma guarda se quell’idiota doveva entrare per forza!

Le porte dell’ascensore non riescono a chiudersi.

Siamo in troppi!

Il grumo di persone si sposta all’interno, si stringe al massimo. Un cubo di Rubik che si muove senza soluzione. E l’ultimo entrato alla fine rinuncia ed esce, accompagnato da evidenti sospiri di sollievo.

Quando hai fretta, tutto rallenta.

Ed è fuori, finalmente. Un passo dietro l’altro nella hall, schivando persone, borse, zainetti e gomiti. Poi, un altro imbuto, una clessidra di corpi che scivola piano verso la luce. Sente l’aria fresca arrivarle sul viso e il caos del traffico, colonna sonora di ogni sua giornata d’ufficio. Un passo dietro l’altro, ora è diretta alla metro, in una coda disordinata che si sposta, aprendosi e chiudendosi. Lei, è là dentro, un passo dietro l’altro, seguendo il ritmo degli altri, con la testa bassa e un braccio avvinghiato alla borsa.

Inciampa.

Improvvisamente, si trova a terra, sul marciapiedi, con l’anaconda di corpi che le scivola a fianco. Si rialza piano, guardandosi le mani e massaggiandosi i palmi. É immobile e la schivano tutti. C’è un giardinetto proprio là, a destra, con delle signore sedute e dei bambini che stanno giocando. Un’ambulanza sfreccia, la sirena urla urgenza, mentre una coppia litiga in macchina, aspettando che scatti il verde.

E si alza il vento. Una folata che sposta le fronde verdi dei platani.

Lei è immobile e si sente vuota. Avverte la bellezza del vuoto.

Per un momento, si accorge che non c’è veramente nulla che deve fare.

Che meraviglia, il niente.

Arriva un altro messaggio.

Ora ti rispondo. Tra un attimo.


EMBRACING NOTHINGNESS


I’ve got everything.

A quick glance at the desk to check if the computer’s turned off and if things are somewhat tidied up.

I hate leaving pens out of place, files unstacked. Never mind the paper spilling out of the bin, it almost looks like a multicolored Ikebana. I have to get out of here, I’ve got a thousand things to do!

She walks quickly, in small, nervous steps, following the sound of her heels on the polished marble. The path is always the same, like tracks leading her straight to the elevators. Other people arrive, chatting, dawdling, wasting time. A small crowd is forming and her anxiety rises. She checks the time on her phone and sees a message.

  • I’m going. I’ll wait for you there.

The elevator arrives and, as usual, it’s already nearly full, but she rushes in.

I was here before you. What are you doing? Seriously, did that idiot really have to squeeze in?

The elevator doors won’t close.

There are too many of us!

The clump of people shifts inside, squeezing in as tightly as possible. A Rubik’s cube shifting with no solution. And the last one in finally gets out, met with obvious sighs of relief.

When you’re in a hurry, everything slows down.

And she’s out, at last. One step after another through the lobby, dodging people, bags, backpacks and elbows. Then, another bottleneck, an hourglass of bodies slowly slipping toward the light. She feels the cool air hitting her face, along with the chaos of traffic, the soundtrack of every office day. One step after another, now heading toward the metro, in a messy line that shifts, opening and closing. She’s in it, one step after another, following the rhythm of the others, head down, one arm clinging to her bag.

She trips.

Suddenly, she’s on the ground, on the sidewalk, while the anaconda of bodies slides past her. She slowly gets up, looking at her hands, rubbing her palms. She stands still, and everyone dodges her. There’s a little park just to the right, with ladies sitting and kids playing. An ambulance speeds by, siren screaming urgency, while a couple argues in a car, waiting for the light to turn green.

And the wind picks up. A gust that rustles the green branches of the plane trees.

She stands still, and she feels empty.

The beauty of emptiness.

For a moment, she realizes there’s truly nothing she has to do.

What a wonder, this nothingness.

Another message comes in.

I’ll answer you. In a moment.

Una solo è Doriforo

Ho gli occhi chiusi per far agire meglio il collirio. Sono elettrica. Sigarette, vietate. Non per la salute ma per non rischiare di bruciare qualche abito. A tre a tre, sedute davanti agli specchi per il trucco e parrucco, circondate da hair stylist e make-up artist, spazzole, phon, pennelli che sbuffano polveri leggerissime come soffi di fumo.

Ho proprio voglia di una sigaretta.

La pelle del mio viso è tirata come un palloncino pronto ad esplodere. Mi hanno messo dei cerottini per allungare la forma degli occhi. Sembro una giapponese incazzata ma, loro, i giapponesi, non lo danno mai a vedere. Nella prova vestiti hanno fatto fatica a chiudermi la cerniera.

Mi sento gonfia.

Sono tre giorni che mangio solo un pezzetto di formaggio e bevo anche poco. Questa mattina ho pesato le mie feci, come sempre: 65 gr. È il diuretico di ieri sera che non ha fatto molto effetto.

Mi sento gonfia.

“Via, via! Sbrigati!”

E mi metto in fila, coperta da una vestaglietta col logo. Siamo tutte con un vestaglietta col logo. Tutte alte uguali, ma io, sono la più gonfia. Sento le sarte davanti alla fila, stanno urlando, chiedono delle spille da balia. Come in una catena di montaggio, chi è pronta, scivola di lato e passa il controllo finale.

Lu, è là. Lo stilista, posseduto da un’energia che opprime tutto il backstage.

Ogni volta è così.

Ogni volta prendo dei calmanti, ma non troppi, se no rischio di non reggermi in piedi. E ho i piedi gelati. Tocca già a me? Qualcuno mi toglie la vestaglia, due mani mi girano e sollevano le mie braccia.

“Trucco!”

Passano della cipria, forse del talco, sotto le mie ascelle.

Ogni volta è così.

Mi infilano un cappuccio macchiato che odora di creme, serve a proteggere la pettinatura e il trucco. L’abito mi cola addosso, si uniforma al mio corpo come una seconda pelle. E ancora mani. Che stringono il tessuto, che lo lisciano, e la cerniera sale. Per un attimo sento la pelle bruciare, come se fosse stata pizzicata o graffiata da un uncino. Via il cappuccio. Mi girano intorno come api impazzite, uno mi ha colpito il ginocchio destro. È arrabbiato, si vede. Il ginocchio mi fa male ma devono ritoccarmi il trucco.

Di colpo, le voci si abbassano, i visi si allargano in sorrisi.

Lei, sta passando.

Gli occhi anelano un suo sguardo, un saluto anche solo accennato. Lei è famosa, famosissima. Lei, non è più una ragazzina, ma è una dea. Ha il suo spazio, quasi un camerino, i suoi professionisti, la sua acqua e i suoi fiori. Li chiamano carisma, quella lunga falcata che non deve chiedere permesso e quel profilo in cui si stenta a riconoscere un naso, ritoccato così tante volte da sembrare trasparente. Non sarò mai come lei.

Tocca a noi. Come ballerine di fila, una vicina all’altra, perfette e anonime.

Un braccio che si alza, un “VAI”, e sono dentro alla luce, affogo nella musica, procedo con i miei piedi freddi, in scarpe troppo grandi, senza vedere veramente nessuno. Lo sguardo fisso davanti a me, sulla schiena di chi mi precede. Il sangue pulsa piano, la testa è leggera, tanti flash e tanti passi.

Ogni volta è così.

Quando sono triste guardo il cielo

Sono sdraiata da più di mezz’ora. Forse meno. Non respiro bene, mi sento rintronata, ho la bocca secca e un saporaccio che mi fa venire conati di vomito in continuazione.

La mia macchina è là, di traverso e un po’ rialzata. Sembra tentare di scavalcare il guard-rail ma senza riuscirci, e perde ancora del liquido, forse dell’olio, anche se i vigili del fuoco la hanno inondata di schiuma. C’é tanto caos ma ora l’aria è più chiara, spostata dalle eliche di un elicottero atterrato lontano, in mezzo al campo. Mi arriva l’odore dell’erba, mischiato a quello del cherosene e del sangue. Proprio sotto la coltre di fumo si vede l’asfalto bagnato, intriso, lucido, e tanti scarponi lambiti da tute fosforescenti che sembrano senza un corpo.

Appena dopo l’impatto, che ricordo come uno spintone violento e rumoroso, devo aver perso i sensi. Non so chi mi ha estratto dalla macchina e mi ha deposto qui, sul ciglio della strada, nella corsia di emergenza. Non sono sola, ci sono altre tre persone stese a terra.

I rumori sono ovattati, non sento, vedo solo delle sagome che corrono e, al di là della cortina grigia, appare e scompare una lunga carovana di macchine, i fari accesi, ombre in piedi che guardano da questa parte.

Non riesco a girare il collo, mi devo muovere piano, dovrei girare anche il busto per guardare dall’altra parte.

In quell’inferno schizzano lapilli, piccoli fuochi d’artificio tra le luci rosse, e le figure che appaiono, per un attimo, sono maschere coperte di fuliggine, con la bocca che si apre e si chiude in un urlo.

Il cielo, il cielo è ancora là, in alto.

Arriva un po’ d’aria e si sentono, in lontananza, le sirene delle ambulanze che cercano di farsi spazio nel traffico immobile, dall’altra parte dell’autostrada.

Dovrei telefonare. Sì, devo avvisare. Ora chiedo.

Sposto lo sguardo perché hanno smesso di tagliare lamiere, non ci sono più lapilli. Dall’alone grigio sta emergendo una carcassa enorme e lunga, un pachiderma ferito e sdraiato su un fianco dipinto di viola e giallo, piegato in due, una enorme V che ha abbracciato una macchina, ma l’ha stretta troppo, davvero troppo.

C’è silenzio.

Di colpo, due mani mi prendono il viso, qualcuno mi parla, è un medico. Non sento. Mi spara una luce nelle pupille e ho un momento di terrore, come un attimo prima dello schianto. Si allontana.

Dove vai? Cosa faccio? Devo telefonare.

Passa una barella, poi un’altra, un’altra ancora. Sono corpi, feriti coperti di sangue che si mischia ai capelli e a quello che rimane di abiti bruciati, incollati alla carne carbonizzata. Ad uno manca una scarpa. Sembrano vivi, si muovono, si contorcono. Sembrano vivi.

C’è una barella grande, enorme, con un cucciolo d’uomo. Non ha più capelli, è un bambolotto bruciato a metà. Non si lamenta, guarda fisso in alto, guarda il cielo. Dentro di me sento le sue lacrime e mi sembra di affogare.

Devo telefonare.

Passa. Tutto passa.

Non so perché eri sparito, dicono che succede. Ma perché a me? Avevi smesso di rispondermi e mi hai fatto preoccupare. Bastava scriverlo, dirlo.

Ora mi scrivi di nuovo, come se nulla fosse, dopo quasi più di sei mesi.

Mi alzo dal divano, infagottata nella tuta di pile. Non ho mangiato e lo stomaco gorgoglia.

“Beh? Rispondigli, no? Qual è il problema?”

E mia madre incomincia a dispensare consigli non richiesti. Quanto vorrei avere le sue certezze, ma non ne sono in grado. Mi mangio le unghie, mi arrabbio e le urlo spesso contro. Lei mi dice che la mia rabbia è solo debolezza travestita da forza. La fisso e, mentre sta vestendosi per uscire, longilinea e splendida come sempre, me la immagino seduta, tranquilla, trangugiare uno di quei panini che esplodono maionese e foglie di rucola da tutti i lati. Si riempie la bocca di cibo e certezze, come un blocco unico, cementato al terreno, uno Stonehenge che mastica chiunque si avvicini.

Lei sa cosa fare. Lo ha sempre saputo. Io, no. Lei è un facocero che si nutre delle debolezze altrui. Delle mie. E non ingrassa.

Mi allontano dalla sua stanza, il più lontano possibile. Sento il freddo del marmo attraverso i calzettoni rosa, finché arrivo sul tappeto che mi frena. La finestra, vado alla finestra.

Rileggo il messaggio che ho ricevuto: “Ciao, come stai? Passeggiata in centro?”

Mi ha sventrato e non se ne rende conto.

Nel frattempo, sono tornata nell’ingresso e non me ne sono accorta. Mi guardo nello specchio sul cassettone e vorrei vederlo vuoto, invece, sono là, dentro quella figura corpulenta, in quella salsiccia che mi ricopre.

Mi ero affidata a te, mi riflettevo nel tuo volto e ho cambiato forma per compiacerti, ho dimenticato pezzi di me pensando che fossero superflui. Ho nascosto i miei sogni, desideri, dolori, per non sbagliare, ora mi sento un’ombra che non appartiene a nessuno. Quando sei sparito mi sono persa e ho cominciato a mangiare, tanto, cercavo un motivo, qualcosa a cui dare la colpa, qualcosa che non fossi io.

Il tuo negarsi è stato come un sasso caduto nel cuore.

Stavo cominciando a dimenticarti, stavo tentando veramente, mi sentivo un po’ meglio, anche il mio stomaco stava meglio. Ignoravo anche le continue domande di mia madre sul perché non ci vedevamo più, schivavo i suoi sguardi compassionevoli ma accusatori, quel suo indugiare sui miei fianchi. Insomma, ora cosa faccio?

Le mie dita stanno rispondendo. Ma chi vi ha dato il permesso?

“Ciao. Va bene. A che ora?”

E aspetto. Ancora.

Intanto sceglierò cosa mettermi. In camera mia, sul letto, c’è un vestito, largo e lungo. Non lo metto da tanto, mi fa sentire una balena. Di fianco, un biglietto, di mia madre.

“Metti questo. E non mangiare gelati.”

Un crampo lungo e forte, un conato di vomito che mi fa correre in bagno. Lo scroscio dell’acqua fa da sottofondo al mio respiro che soffoca i singhiozzi.

Il tempo passa.

Il telefono è rimasto sul letto. Non arrivano risposte.

Vado in cucina e apro il frigo. Afferro qualunque cosa davanti a me e la trascino in bocca, coscia di pollo, cetriolini, ah! amo i cetriolini, del formaggio e una fetta di crostata.

Non arrivano risposte.

Apro il congelatore e prendo un barattolo di gelato. Ce ne sono cinque.

Non arrivano risposte.

Mi sono macchiata la tuta col gelato, sembra un disegno, ci vedo un occhio che mi fissa.

Passa. Tutto passa.

Divinus incensum profanus

Una nebbia sottile cominciava ad avvolgere tutto in un lieve manto simile all’incenso bruciato nei turibuli. Guardava i tronchi dei grandi alberi, giganti silenziosi, che affondavano le loro radici nel terreno umido come mani dalle lunghe dita. Stava rientrando a casa, camminando lungo la strada, persa tra il buio e il silenzio.  Solo le foglie, al passaggio del vento, emettevano un suono delicato, quasi un sussurro.

Il cielo divenne opaco e denso come se il tempo stesso fosse sospeso, privo di movimento. Sentì in lontananza lo scroscio dell’acqua del fiume che scivolava su sassi levigati e la nebbia pesante cominciò a salire, lenta e avvolgente. Un abbraccio gelido da cui non era possibile sfuggire. Quel chiarore quasi irreale confondeva, facendole perdere ogni riferimento. Si fermò, allungando le braccia in cerca di un tronco, una staccionata, un appoggio qualsiasi.

Da qualche parte, più lontano, udì il verso di un animale, un lamento sommesso, un richiamo alla solitudine che si perdeva in quel buio. Eppure, in quel nulla fatto di freddo grigiore, non si sentiva sola. Ogni tanto, le sembrava di vedere delle ombre sfuggenti, figure indistinte, vaghe, quasi avessero una vita propria. Non erano spettri, né apparizioni di fantasmi.  Erano forse i ricordi di un passato che non aveva mai vissuto?  O sogni di un futuro che non aveva il coraggio di immaginare?  

Se ne stava immobile, respirando profondamente l’aria umida e fresca, nel profumo di muschio e di terra bagnata. Il suo respiro e la nebbia, un unico soffio in un’atmosfera irreale. C’era qualcosa di divino. Seguì il mormorio dell’acqua, forse il cammino non aveva davvero una meta, né un inizio. Ad un tratto la nebbia si aprì, e le sembrò di vedere un’ombra incredibilmente familiare che si dissolse subito nell’aria.  Era tutto un continuo fluire di passato e futuro e ogni passo che faceva era una danza invisibile tra ciò che era stato e ciò che doveva ancora accadere.

Le apparve la discesa, sgombra, sicura. S’incamminò verso casa.

La spirale del tuono

Il temporale era passato. Oltre i vetri, osservava il tramonto, un fiume purpureo che si allungava lentamente avvolgendo la terra in un abbraccio morbido e viscoso. La luce, mescolandosi con l’aria, sembrava un fluido denso che non riusciva a scegliere se penetrare nel cuore della terra o dissolversi nella vastità dell’infinito. Il cielo, ora era un calderone di colori sfumati e impossibili da definire, pareva fondersi in un unico respiro che non apparteneva né al giorno né alla notte.

Un tuono lontano. Cancro. La parola riecheggiò nella sua mente. Un rumore sordo, un’onda che inghiotte la sabbia. Era malata. Solo ieri, la sua vita sembrava scorrere tranquilla, anonima, una pagina vuota che non aspettava altro che essere riempita. Da oggi, invece, avrebbe dovuto affrontare una realtà sconosciuta che pulsava come una ferita aperta.

Osservò le gocce di pioggia sui vetri, piccole capsule di tempo cristallizzato. Ogni goccia immobile racchiudeva in sé un istante che non sarebbe mai tornato, un attimo di vita rubato riflettendo il mondo fuori come attraverso uno specchio che si incrina e si ricompone in continuazione.

Rimise play sul film che aveva scelto, così lontano dalla sua storia di vita. Le scene del film tentavano di imitare la realtà, ma non ci riuscivano. La storia d’amore era un inganno che non faceva altro che acutizzare la sua solitudine. Le scene di disperazione erano troppo perfette, costruite con tale artificio che ogni singolo gesto, ogni sguardo, la irritava. La sofferenza in quel film non sembrava vera, era frutto di una scenografia ben studiata.

Quale film sarebbe stato la sua vita? Forse un film noioso, banale, un film troppo lungo, con un nastro che ora si era inceppato. O un film di cassetta, uno di quelli che ormai non hanno più né colore né vita. Le tornarono alla mente certi vecchi film che avevano perso la loro freschezza ed erano diventati un ricordo sbiadito, troppo familiare, troppo visto.

Eppure, oggi c’era qualcosa di diverso. Era arrivato senza preavviso, come un parente invadente che entra in casa senza bussare, che si siede alla tua tavola e pretende di restare. Accettare. Doveva accettare la situazione e affrontarla, ma come si può accettare qualcosa che non si capisce? Come può una controfigura ergersi a protagonista di una storia che non conosce? La paura di dover affrontare l’ignoto, l’imprevedibile, la faceva sentire piccola, fragile, e il corpo non pareva più in grado di sostenere l’anima che vi abitava.

Si sedette di nuovo sul divano, intorpidita dal freddo che si stava infiltrando sotto pelle. Il suono dei messaggi che arrivavano sul suo telefono era lontano. “Coraggio”, “ti sono vicina”, “abbracci”, parole che fluttuavano come piccole bolle di sapone, destinate a dissolversi prima che potessero raggiungerle il cuore.

Il mondo fuori era un’illusione, una visione speculare di ciò che avrebbe dovuto essere, una spirale che si allontanava da lei senza mai sfiorarla davvero.

Ritornò alla finestra a guardare il peso di un cielo che stava per crollare.


Io, lo straccio e il lago

Mi dispiace, ma passa, vedrai che passa. Fai una passeggiata, respira, abbraccia un albero.

– A Roma?

Va beh, vai in un parco…

– Ma è domenica, una folla di famiglie, coppie, cani, urla…

Perché non fai un po’ di meditazione? A casa, tranquilla, in penombra e da sola.

– No, ti prego no. Ci ho provato e continuo a pensare. È dura.

Facciamo così, ora andiamo fuori, cerchiamo un ristorantino piacevole, poi andiamo a fare una bella passeggiata vicino a un lago.

– Grazie, davvero, ma mi sento uno straccio.

Scese a prendere l’auto e partì, guidando a zig zag tra il traffico, mesto e un po’ ubriaco, della domenica sul lungotevere. I marciapiedi erano fiumi di persone, turisti di ogni nazionalità, rigorosamente divisi in gruppi monocolore, in file rumorose, che migravano verso S.Pietro. Un’anaconda che si srotolava tra i ponti e le vie, sbucando ovunque senza che si potesse immaginare dove iniziasse, chi fosse a capo di quest’esodo.

Chi avrà incominciato tutto questo oggi? Chi sarà alla testa dell’anaconda?

Le sembrava di vederla dall’alto, come un lunghissimo e flessibile copertone, imprevedibile e aggressiva, pronta a soffocare la sua preda stringendola fra le sue spire fino a soffocarla.

Girò a destra per parcheggiare in una strada secondaria, vicino alla fermata Lepanto della metro. Parchimetro, tagliando. Nonostante il sole, la giornata era insolitamente fredda e i bar erano affollati di gente che aspettava in piedi davanti ai banconi, calpestando briciole di cornetti e fazzoletti di carta non raccolti. Un’immagine triste vista da fuori, come certe stalle non perfettamente organizzate, dove i bovini si accalcano, spingendosi e ansimandosi addosso. Niente caffè.

Sono qui.

– Ma ti avevo detto di lasciar perdere…

Partì lo sblocco elettrico del portone che lentamente, molto lentamente, iniziò ad aprirsi. Stava guardando verso il lungotevere quando venne travolta da un bambino che, uscendo, le calpestò l’alluce sinistro. E arrivò subito dopo la mamma. Capello biondo vaporoso, cappottino stretto in vita da una mini cintura, simile alle fascette ferma cavo, chiamava suo figlio con una voce squillante che cozzava con la pettinatura alla Marilyn. Papà non c’è? No.

Adorava Roma, con quei “siparietti” d’incontri lampo, come scene un po’ trash di film caserecci. Ci si poteva scrivere davvero una storia dietro l’altra.

– Perché sei venuta? Mi vedi? Non sono in condizione di uscire. Non mi sono neanche vestita.

Mi offri un caffè?

Veronica, un giunco di un metro e ottanta, di madre prussiana e padre siciliano, alla soglia degli anta. Un’opera d’arte incompiuta. Uno straccio, ma di lino, tessuto a mano.

Mentre il caffè usciva con un sommesso borbottio, Veronica passava dalla sua camera alla cucina, parlando, chiedendo se faceva freddo, mostrandole la giacca che voleva indossare, per poi sparire di nuovo in bagno. Dalla finestra entrava una fetta di luce, quel lembo che era riuscito a passare tra i tetti e i palazzi di fronte, fermandosi sul muro come una meridiana brillante.

Saranno già le 11.00.

– Pronta! Ma davvero vuoi andare al lago? Quale? Albano, Bracciano… É domenica… ci sarà un traffico pazzesco. E se rimaniamo qui?

Fissò l’amica con un sorriso che non prevedeva cambi di programma.

Hai bisogno d’acqua. I giunchi necessitano d’idratazione per essere in salute, sempreverdi. Ed io, ho bisogno di specchiarmi nell’immobilità del lago, perdermi tra i riflessi del verde e del sole.

– Quiete. Abbiamo bisogno di quiete. Andiamo.

Ombra senza sole

Dovevi proprio andartene così? E adesso? Ora che i miei pensieri rimbalzano tra le pareti, ora che avverto come un senso di vertigine per il vuoto, cosa faccio? Da dove comincio?

Non si fa così.

Non è stato corretto da parte tua, in nessun modo. Anzi, avresti potuto trovare migliaia di parole, gesti, avresti dovuto.

Me lo dovevi.

Com’é potuto succedere? Mi viene da pensare ai suicidi, a quelli che decidono per un atto estremo, senza ritorno. Ecco. Hai suicidato il nostro amore. Era il nostro e io non mi sono accorta che era malato. Non si dice così anche per i suicidi? Era normale, sembrava stare bene.

Sembrava stare bene.

Ah, lo so dove mi vuoi portare! A pensare che è colpa mia, vuoi che sia la sola a provare dolore per questo lutto. Hai riempito solo una valigia, le tue camicie penzolano stirate nell’armadio. Il tuo odore é ovunque, vorrei urlare, ma non ci sei.

Ora entro nell’armadio e urlo.

Mi guardo allo specchio e non vedo più nulla, é vuoto. Ho cambiato forma così tante volte per te che ho dimenticato com’ero. Ho dimenticato pezzi di me, nascosto sogni, dolori e desideri, per non sbagliare.

Ora vedo solo un’ombra grigia.

Farò una doccia. Voglio lasciare scorrere l’acqua addosso, voglio lavare via quell’odore, voglio che questa crisalide si apra ma è impermeabile, è una fitta trama che blocca anche il respiro.

Vorrei inseguirti.

Ma non so il perché.

Guardare l’abisso

Un rigagnolo d’acqua scivolava via, esattamente come un gorgo d’acqua nel lavandino. Un vortice che, anche se piccolo, portava via inesorabilmente, e quasi dolcemente, tutto. E per tutto, intendeva quella che era stata la sua vita fino a quel momento.

“Siamo spiacenti, non vorremmo fare a meno della sua figura professionale ma, la situazione contingente prevede una riorganizzazione aziendale.”

Pur essendo consapevole della crisi, pur constatando, giorno dopo giorno, un crescendo di tensione tra i colleghi che le apparivano sempre più scialbi, affranti, pallidi fino a diventare quasi evanescenti, non si era resa conto di essere a rischio, esattamente come gli altri. Ma quanta sicurezza! Quanta stupida certezza aveva maturato, semplicemente per aver lavorato in quell’azienda per oltre vent’anni. Riorganizzazione.

Fissava il suo caffè sul tavolino del bar dove andava spesso, e osservava le persone intorno, ignare del suo problema, di lei e della sua vita miseramente crollata. Poteva pensare a un fallimento o le era concesso di aggrapparsi alle colpe altrui? Da quando si era svegliata, la sua testa era una bolla grigia, come una pozza di fango bollente. Il mondo non era come lo aveva immaginato fino a quella fatidica comunicazione. La sua tracotanza ora cercava conferme che nessuno mai le avrebbe dato. Le sembrava di tremare, non riusciva a piangere, sicuramente non lì, mai lo avrebbe fatto. Il quadro della sua vita stava perdendo i contorni, liquefacendosi in un disegno astratto ma senza significato.

Passò una mamma con due bambini, diretta ad un altro tavolino. Rimase a fissare la scena, mentre arrivava il papà. E lei invece? Lei che aveva investito così tanto in sé stessa, lei che aveva creduto di far parte di qualcosa, ora si sentiva come un vecchio attrezzo, gettato via, rimpiazzato. Il quadro della sua vita, ora, era un ammasso di colori mischiati, come senape andata a male.

Il mondo va veloce, troppo. Non aveva avuto il tempo di pensare, ecco la verità. D’altra parte, pensare di cambiare dopo tutti quegli sforzi, quell’energia spesa, sarebbe stato, come minimo, un passo azzardato. Perché cambiare quando sai che, alla fine, qualcuno risolverà? Ne era certa.

Non esistono più certezze. I suoi genitori avevano cominciato e finito la loro carriera lavorativa sempre nella stessa azienda. Solo suo padre, a un certo punto, aveva inseguito una promozione ma, c’erano dei rischi, avrebbe dovuto cambiare città e quindi, alla fine, erano rimasti dov’erano. In fondo stavano bene, cosa mancava?

A cosa mi aggrappo adesso? Sono stanca. Ricominciare ora è come chiedermi di scalare l’Everest senza ossigeno. Mi manca l’aria.

Nella sua mente, il quadro della sua vita era ormai una tavola uniforme e vuota. Il rigagnolo continuava a scivolare tra le crepe dell’asfalto, veloce, diretto allo scarico, senza fare alcun rumore.

Non ci sono i gabbiani

Osservo dall’alto di una collina. Siamo dovuti scappare, non respiravamo più. Siamo stati svegliati da un rumore forte, sembravano colpi di frusta impazziti. Quando ho spostato le tende e ho visto i fili elettrici che si dimenavano nell’aria, colpendo l’asfalto e spruzzando lapilli, sono rimasto fermo, pensando a come fosse successo. Il tempo di raggiungere la porta d’ingresso e già l’aria nel corridoio era grigia, irrespirabile, cattiva. Non so come siamo arrivati fin quassù. Mi ricordo le urla dei vicini, io, in pigiama che, sulla soglia di casa, resto pietrificato a guardare l’orizzonte, in fuoco.

Un cielo così non l’avevo mai visto, da fine del mondo. Devo averlo anche pensato. Poi, le corse da una stanza all’altra, mia moglie che prende i bambini, i soldi, i pochi gioielli e, mentre si veste, mi urla di prendere un borsone e metterci i vestiti per tutti. L’ho fatto. Ora sono in pigiama, qui, sulla collina, con addosso una coperta.

Là in fondo c’era la nostra casa, non si vede, è stata ingoiata da un’onda gialla e rossa di altissime lingue di fuoco dalla punta blu. Un’orda mefistofelica che sta divorando con gioia, che avanza senza fretta e lascia un’ombra nera, una immensa nuvola statica sui resti del banchetto. Sento i lamenti intorno a me, di chi sta osservando i morsi del fuoco che sbranano le mura, i giardini. Si sentono in lontananza i versi degli animali che stanno fuggendo, forse non riescono a vedere, hanno paura, non respirano. Come si fa a non avere paura? Ora che siamo qui, sani e salvi, come tizzoni spenti che esalano umori acri, ci guardiamo intorno. Continuano ad arrivare macchine, tra poco saremo bloccati. Il panico non ti fa ragionare. Quel mostro là sotto non si fermerà, si sta ingozzando con sempre più ingordigia, sono i nostri ricordi a fare da carburante, le nostre foto, i mobili, le palizzate dipinte, le altalene. Siamo attorniati da tanti cani che abbaiano, i gatti invece sono in braccio, col muso nascosto dentro le maglie, in cerca di un filtro per respirare meglio. Anche noi abbiamo dei fazzoletti sulla bocca e sul naso, gli occhi pizzicano. Dobbiamo allontanarci, dobbiamo muoverci. La nuvola nera si è alzata e arriverà, come un mantello pesante, una coltre di morte.

Via! Andiamo via! Urlo. Ma pochi se ne vanno, la maggior parte rimane a fissare quello che ha costruito in una vita, bruciare come un mucchio di paglia, sparire dietro le loro lacrime. C’è chi sta filmando. Seriously? Forse vuole documentare, forse è in diretta su qualche Social. Io vorrei essere altrove. Saliamo in macchina e, lentamente, ci allontaniamo seguendo un tragico corteo, non profughi né esiliati, ma sfollati. Si starà già parlando di calamità e, per un po’, non saremo soli.

Là in fondo, dalla parte opposta alle fiamme, il mare si muove lento come una lastra d’acciaio, la luce della luna filtra nell’aria densa di fuliggine. Non ci sono i gabbiani e i leoni marini saranno già al largo. Seguo le altre macchine, una scia di fari, come lunghe vene iridescenti che si muovono pulsando.

“Tenete chiusi i finestrini! State tranquilli, stiamo andando via.”

Dietro di noi, mi sembra di sentire un verso disumano, è il brutale boato del fuoco che avanza.

Leader

La rabbia è un dolore travestito da forza. Quella rabbia che le stava facendo male, che le triturava le viscere e che non sapeva come sfogare. Pensava a come era arrivata a quel punto, dove aveva sbagliato, non c’era spazio per altro nella mente.

Questo è il mio momento, ci sono io qui. A questo ho puntato lavorando tanto, esponendomi, uscendo dall’ufficio per ultima. Come ho potuto lavorare con il nemico senza accorgermene? E adesso, che dovrò parlare davanti a tutti, di un progetto che non è il mio, raccontare una storia che non mi appartiene, rischio di fare una figura pessima.

La sala era gremita, la convention annuale era un punto di arrivo, i dirigenti erano là, impegnati in pubbliche relazioni e sorrisi, scambi di business card. Lei era tesa, vibrava come un violino con le corde di un calibro sbagliato e, quelle corde, sapeva benissimo chi gliele aveva cambiate. Proprio quell’esserino apparentemente innocuo che se ne stava seduto in prima fila, che sfuggiva il suo sguardo ma che sembrava aspettare. Pensava di essere l’unica via di salvezza, lui che aveva cambiato le carte in tavola, lui che aveva sostituito il progetto all’ultimo momento con la sua versione. Ed era in una chiavetta usb, pronta, scaricata e sparita.

Il Direttore era all’oscuro, guai a far esplodere questo bubbone. Non hai il controllo sulla squadra, non sei stata pragmatica, non sei una leader.

A quanto pare no, a quanto pare sono una che si fida, non so se abbia un valore oggi, forse no. Ma col cavolo che rinuncio alla presentazione. Non potrà discostarsi poi tanto dall’originale. Vado a braccio, lo so fare.

Tocca a me. Faccia da poker. Poi penserò a te che adesso non mi sembri più neanche così pericoloso. Guardami, sto entrando in scena. Guardami e impara.

🐬

Corro da te

Impulso di scrittura giornaliero
Qual è il regalo più grande che qualcuno potrebbe farti?

Capita. Capita a tutti, credo, di attraversare quei momenti così difficili da essere convinti di non farcela. Io sono stata talmente tanto nel baratro da pensare di arredarlo.

Eppure, sono ancora qui, col mio dolore ben conficcato nel cuore, ma so di non essere l’unica. Non mi consola, non consola nessuno, ma aiuta a guardarsi allo specchio dritto negli occhi e smettere di autocommiserarsi.

Proprio in uno dei momenti più dolorosi della mia vita, un’amica mi ha chiamato al telefono. Non mi ha fatto neanche finire di parlare, forse stavo biascicando, straparlando, o forse ha semplicemente avvertito che non avevo bisogno di parole ma di un abbraccio.

” Corro da te.”

Corro da te. Questo è stato uno dei regali più grandi.

PLPL – Roma Convention Center La Nuvola – 4/8 dicembre 2024

PLPL – ROMA – LA NUVOLA – 4/8 dicembre 2024

Rientrata! Stanca (molto stanca) ma felice!

È sempre bello partecipare alle Fiere dei Libri e questa al Roma Convention Center La Nuvola, è stata una full immersion!

Cara Gattapazza, ti ho aspettato… e Marisa Salabelle, potevi dirmelo prima che eri presente, ti avrei sicuramente cercata!!!

Ho portato a casa incontri, sorprese, chiacchierate e interviste e… un bel raffreddore!

Non vi ho dimenticato,,, è che dovevo anche dormire( almeno un po’😜).

Marcella


Bilico

Io non mi conosco. Non vedo perché dovrei per forza ascoltare.

Uscendo di casa, con la testa che continuava a raccontare la solita storia, aveva preso la direzione verso il centro. Una folla che camminava, in disordine, osservando le vetrine già addobbate per il Natale. Tante luci dai fari delle macchine, riflessi che le ferivano gli occhi e quel sottofondo rumoroso, quel chiacchiericcio molesto che la infastidiva. Avrebbe dovuto già pensare agli acquisti, ai regali, ma proprio non ce la faceva. Avrebbe dovuto essere, se non allegra, almeno consapevole della fortuna che aveva. C’erano problemi? No.

Alla fine, tutti hanno problemi, anzi, preoccupazioni. I problemi sono altri.

Niente da fare. Il cervello ruminava, inquietava, chiedeva la pace. Poi, di colpo, un tonfo sordo e violento. Una frenata che sembra non finire mai.

Gente che urla e corre.

Qualcuno è stato investito?

Giaceva a terra, sull’asfalto, ferma e sanguinante. Era buio e le voci non le sentiva più. Ascoltava quel silenzio, quel vuoto. Ma non era pace, era terrore. Le sembrava di vedere piedi, tante scarpe. Rimase a fissare degli stivaletti bicolore, nero e marrone e pensò a quanto erano brutti. Poi, si sentì sollevare, mani che la posizionavano su qualcosa di rigido, piccolo, perché le braccia le cadevano penzoloni.

Sirene e sballottamenti. Voci. Poi, più nulla.

Ascoltava quel buio silenzioso. Era diventata quel silenzio, quel vuoto, senza intervenire.

Non intervengo. Non interviene il mio io. É questa la pace? Sono sconosciuta a me stessa, ho smesso di raccontarmi.

Codice rosso.

Boccascena e il mantello d’Arlecchino

Persa. Non provava altra sensazione. Pensandoci meglio, si sentiva anche oppressa, claustrofobica, come rinchiusa in un bunker grigio, con le fredde luci dei neon. Era davanti allo specchio, chiudendo un occhio alla volta, fissando l’iride. Le sembrava che una fosse più chiara dell’altra. Immaginazione. Forse un po’ di strabismo di Venere. Sensuale. Si perse tra le pagliuzze ocra che, diventando immense, la ingoiavano e la risputavano inevitabilmente sul freddo vetro. Persa.

Era invidia. La sua, aveva qualche screziatura gialla. Persa.

Quanto avrebbe voluto provare invidia buona, semplice ammirazione, ma non esiste l’invidia buona. E rise amaramente, pensando a chi si barrica dietro alle parole e cerca uno scudo per proteggersi dalla verità. Bruciava, eccome, avere perso. Una bella colata di acido proprio nello stomaco, lenta e crudele.

L’invidia è la carie delle ossa, ne puoi sentire l’odore, immaginare il colore imputridito, sapendo che è lì, insolente. É uno dei sette vizi capitali, mica fuffa, una dichiarazione di inferiorità, comprovata dal fallimento personale. Ed io, ho fallito.

Persa.

Che altro avrebbe potuto fare? Raccomandazioni, cena e annessi con uno dei giurati, si era perfino fatta la mastoplastica riduttiva e ritocchini vari su indicazioni del suo agente. Ma non era bastato.

Che altro volete? Ditemelo? Il talento c’è, lo so che c’è, quindi? Cosa mi manca? Perché non io?

Un conato di vomito la piegò sulla tazza del WC, spruzzando aceto e bile ovunque. La pelle si stava squamando, bastava toccarla e perdeva piccole scaglie luminescenti.

Più magra di così? Lo posso fare. Certo che posso.

Si asciugò la bocca e andò in cucina scrollando i video sul cellulare. Prese un bicchiere e lo riempì d’aceto, bevendolo tutto d’un fiato. Quasi non sentiva le budella contorcersi mentre osservava le altre, quelle che erano state prese.

Lacrime acide, collose e minuscole, le scesero sul viso e lì, rimasero.

Incontrare i ricordi

Oggi, pulizia soffitta. Niente di più terrificante e eccitante allo stesso tempo. Così si era decisa, pantaloni comodi e camicia a maniche lunghe, sneakers, capelli raccolti con un elastico, prima di fasciarsi la testa, coprendoli con una cuffia di plastica, di quelle per la doccia. Passò davanti allo specchio e, visto come si era conciata, si guardò con tenerezza, sperando che nessuno venisse a trovarla proprio in quella giornata.

Pronta. Aprì la piccola porta della soffitta buia tastando poi sul muro alla ricerca del pulsante della luce. E funzionava. Fantastico, prima incognita superata. Davanti a lei, in un disordine accumulatosi negli anni, pile di scatoloni, valigie accatastate, sacchi neri dal contenuto dubbio, una piantana vecchia, rossa con arabeschi dorati, due sedie anni ’60, bianche, in formica e metallo cromato. Dietro, nell’ombra, chissà cos’altro avrebbe trovato.

Aveva preso con sé una torcia che si rivelò molto utile mentre avanzava nella polvere. Bastava spostare qualcosa e si sollevava, rivelando ragnatele che univano oggetti e scatole, o che penzolavano dal soffitto. Aveva dimenticato i guanti, e un fazzoletto per coprirsi la bocca. Ma la curiosità prese il sopravvento. Con prudenza, cercò di spostare le scatole verso il muro, aprendosi un varco, avanzando piano perché nel frattempo aveva sentito un rumore simile ad uno squittio. Ti prego, topi, NO.

La luce della torcia illuminava altri scatoloni e, proprio a destra, un baule, verde scuro, con i bordi in ottone, seminascosto da buste e pile di giornali. Spostò piano le buste di plastica, che contenevano abiti e maglie, e buttò un occhio ai giornali, evidentemente raccolti e conservati perché riportavano fatti importanti. Li sollevò cercando un posto dove appoggiarli. Altre due sedie! Identiche a quelle che aveva trovato all’entrata della soffitta. Poi le guardo meglio. L’ottone del baule era annerito e i due fermagli di chiusura sembravano bloccati. Riuscì ad aprirne uno ma, per l’altro, dovette armarsi di un cacciavite trovato appeso al muro. Il coperchio non era pesante e, appena sollevato, un forte odore di naftalina le pizzicò le narici. All’interno, scatole ordinate, qualcuna avvolta in carta velina, altre chiuse da un nastro di raso, qualcuna piccola, in pelle rossa o blu, altre, tipiche scatole da scarpe, impilate ai lati.

Prese una sedia e si avvicinò, cercando un appoggio per la torcia. Aprì una scatola bianca con un disegno rosa molto delicato e, tra la velina, apparve un velo da sposa, in pizzo, ingiallito, che terminava con un pettinino in osso chiaro. Era morbido e setoso, sembrava fatto a mano. Sicuramente quello della nonna. Tutto quello che trovò in quel baule, doveva essere appartenuto alla nonna. Un vestito da sposa, minuscolo, semplice, cucito a mano, un nécessaire in cui erano rimaste delle forbicine dorate e un portacipria con ancora il piumino, piatto e ingrigito, delle lenzuola matrimoniali in cotone, ricamate forse dalla bisnonna, dei cappellini in feltro, una custodia in broccato che conteneva un binocolo in ottone, da teatro, due specchietti in peltro lavorato, una sveglia déco, in ottone e bachelite nera. Apriva le scatole come una bambina a Natale apre i regali. Fino ad una scatola da scarpe. All’interno, raccolte da un nastro rosa, tante lettere, lettere d’amore, lettere del nonno. Forse parlavano della guerra, forse le aveva scritto dal fronte e poi, una volta rientrato, da dove si stava nascondendo, aspettando di rincontrarla. C’erano anche telegrammi, di quelli che si vedono solo nei film. Un tesoro. Qualcosa da leggere con amore, un pezzo di vita dei suoi nonni che ripose nella scatola, con cautela. C’erano altre scatole da aprire, e lo fece cercando altre lettere o un diario. Ma trovò un paio di orecchini, quelli che aveva visto indosso a sua nonna, dono della bisnonna, in oro e acquamarina. Li aveva cercati per tanto tempo, pensava che fossero andati perduti. Quel baule era pieno di vita, di storie. Prese le lettere, chiuse il coperchio e, con la torcia, si diresse verso la porta, scavalcando ciarpame e libri impolverati.

Per oggi, va bene così. Questa sera, sarò con i nonni.

Perfect pain

Picasso- Marie Thérèse inclinata- 1939

Il dolore perfetto è come un buco che non si rimargina, non sparirà mai. Ogni giorno distinto dall’altro, ma uguale all’altro. Il tempo scandito da gesti diventati routine, fare qualcosa di diverso solo perché é necessario, per prolungare la lista di cose da fare, riempire il vuoto, segnare qualcosa sul calendario. Razionalizzare.

Check.

Quando la lista sarà terminata? Vuoi che termini? Sai che poi verrai inghiottita, lo sai. Sai anche che nessuno ti abbraccerà più con l’anima, non avrai neanche quel poco tempo di pace. Non succederà. Gli abbracci sono veloci, i baci sfiorati, gli sguardi indagatori. Vogliono sapere, capire. Non c’é niente da capire, niente da spiegare.

É solo morto.

Lo cerchi nei sogni, dove nessun altro può trovarvi, dove le parole non servono, quando hai bisogno di pensarlo, di ricordarti il suo odore e quel portale infinito che erano i suoi occhi.

Nella folla, come un pesce pelagico, nuoti a fatica, senza una meta precisa. Sogni le sue piccole imperfezioni, le debolezze che solo tu conoscevi, perché era entrato nel tuo mondo, era perfetto per te come tu per lui. Due imperfetti, perfetti l’uno per l’altra. Insieme avevate scoperto la bellezza dove nessuno si aspettava di trovarla.

Ed ora?

Nuoti in quel buco, in cui ogni tanto si riflette un raggio di sole o di luna, e insegui la simmetria dei disegni delle stelle. Una tra quelle ha il suo nome.


LA DOULEUR PARFAITE

à mon Jean-René

La douleur parfaite est comme un gouffre qui ne guérit pas, elle ne disparaîtra jamais. Chaque jour est différent de l’autre, mais pareil à l’autre. Un temps marqué par des gestes devenus routiniers, faire quelque chose de différent juste parce que c’est nécessaire, allonger la liste des choses à faire, combler le vide, marquer quelque chose sur le calendrier. Rationaliser.

Vérifier.

Quand la liste sera-t-elle terminée ? Est-ce que tu veux que ça se termine ? Tu sais qu’alors tu seras englouti, tu le sais. Tu sais aussi que personne ne t’embrassera plus avec son âme, tu n’auras même pas ce petit moment de paix. Cela n’arrivera pas. Les câlins sont rapides, les baisers touchés, les regards inquisiteurs. Ils veulent savoir, comprendre. Il n’y a rien à comprendre, rien à expliquer.

Il est simplement mort.

Tu le cherches dans les rêves, où personne d’autre ne peut vous trouver, où les mots sont inutiles, quand tu as besoin de penser à lui, de te souvenir de son odeur et de ce portail infini qu’étaient ses yeux.

Dans la foule, tel un poisson pélagique, tu nages difficilement, sans destination précise. Tu rêves de ses petites imperfections, des faiblesses que toi seule savais, car il était entré dans ton monde, il était parfait pour toi comme tu l’étais pour lui. Deux imparfaits, parfaits l’un pour l’autre. Ensemble, vous aviez découvert la beauté là, où personne ne s’attendait à la trouver.

Et maintenant ?

Tu nage dans ce trou, dans lequel se reflète, de temps en temps, un rayon de soleil ou de lune, et tu observes la symétrie des motifs des étoiles. L’un d’eux porte son nom.


PERFECT PAIN

The perfect pain is like a hole that doesn’t heal, it will never disappear. Every day is different but the same at the end. Time marked by gestures that have become routine, doing something different just because it’s necessary, to extend the list of things to do, fill the void, write something on the calendar. Rationalize.

Check.

When will the list be finished? Do you want it to end? You know that then you will be swallowed up, you know it. You also know that no one will hug you with their soul anymore, you won’t even have that little bit of time of peace. It won’t happen. The hugs are quick, the kisses are grazed, the glances are inquisitive. They want to know, to understand. There is nothing to understand, nothing to explain.

He’s just dead.

You are looking for him in dreams, where no one else can find you, where words are useless, when you need to think of him, to remember his smell and that infinite portal that were his eyes.

In the crowd, like a pelagic fish, you swim with difficulty, without a precise destination. You dream of his little imperfections, the weaknesses that only you knew, because he had entered your world, he was perfect for you as you were for him. Two imperfect people, perfect for each other. Together you had discovered beauty where no one expected to find it.

And now?

You swim in that hole in which, every now and then, a ray of sun or moon is reflected, and you chase the symmetry of the designs of the stars. One of those has its name.