Il silenzio dopo il mare (3)

E grazie a Paolo newwhitebear, vi tocca la parte 3! 🤓

Il silenzio dopo il mare”

A.A.A

Laura aveva finalmente staccato e, dopo un pomeriggio estenuante, stava pedalando sul marciapiedi del lungomare, ancora percorribile a quell’ora. Il baccano del mondo le era insopportabile e cercava di sentire il mare, quella litania di onde morbide e lunghe che parevano sforzarsi di raggiungerla. Il tragitto fu breve, più del solito. Voleva farsi una lunga doccia fresca e guardare con calma i giornali, custoditi gelosamente nella sua borsa, scoprire cosa aveva acceso la curiosità del Professore, al punto da ritagliare addirittura un annuncio.

Stava rientrando a casa, come ogni giorno, salutando i soliti negozianti e la vicina che stazionava sul terrazzo, muta vedetta pettegola, come una vecchia murena.

Ah, la bellezza del rumore secco del portone di casa che la chiude dentro, al sicuro come un pesce rosso nella sua boccia. Il suo territorio, in cui poteva essere imprevedibile, misteriosa, intoccabile, in un silenzio che non era vuoto ma tempo. Il suo tempo.

Il corpo tace sotto la doccia, si lascia accarezzare. I gesti solo lenti, sta ascoltando il sussurro della sua anima. Si asciuga e indossa un caftano di impalpabile cotone azzurro polvere. Ora è pronta.

Cammina a piedi scalzi sulle maioliche fresche fino al terrazzo, spalanca la porta finestra e fissa la lunga linea blu che separa l’acqua dal cielo. Appoggia i giornali sul tavolo e li apre entrambi, alla stessa pagina. AAA.

Il quadrato mancante: AAA non ho bisogno di essere scelta. Sono un portale, un incontro radicale con te stesso. Solo sera, dalle h 20.00

Laura si appoggia allo schienale della sedia. Forse il Professore ha provato nostalgia, senza un nome. Come una chiamata, Il bisogno di colmare un vuoto, un incontro con l’ombra.

Mancava un’ora alle h 20.00.

Prende il telefono, cerca l’indirizzo su google map. E telefona.

  • Salve, vorrei un appuntamento, per stasera.

Dall’altro capo del telefono, una voce calda, tranquilla, le chiede se sa l’indirizzo e le conferma per le h 21.30. Anna, si chiama Anna.

Laura sa cosa fare. Lei è un pesce abissale, sa adattarsi, è abituata a sopravvivere in ambienti difficili. Vivere in profondità rende forti.

Si alza, chiude la porta finestra, si veste. Il rumore secco del portone di casa è l’ultimo suono che sente.

Bilico

Io non mi conosco. Non vedo perché dovrei per forza ascoltare.

Uscendo di casa, con la testa che continuava a raccontare la solita storia, aveva preso la direzione verso il centro. Una folla che camminava, in disordine, osservando le vetrine già addobbate per il Natale. Tante luci dai fari delle macchine, riflessi che le ferivano gli occhi e quel sottofondo rumoroso, quel chiacchiericcio molesto che la infastidiva. Avrebbe dovuto già pensare agli acquisti, ai regali, ma proprio non ce la faceva. Avrebbe dovuto essere, se non allegra, almeno consapevole della fortuna che aveva. C’erano problemi? No.

Alla fine, tutti hanno problemi, anzi, preoccupazioni. I problemi sono altri.

Niente da fare. Il cervello ruminava, inquietava, chiedeva la pace. Poi, di colpo, un tonfo sordo e violento. Una frenata che sembra non finire mai.

Gente che urla e corre.

Qualcuno è stato investito?

Giaceva a terra, sull’asfalto, ferma e sanguinante. Era buio e le voci non le sentiva più. Ascoltava quel silenzio, quel vuoto. Ma non era pace, era terrore. Le sembrava di vedere piedi, tante scarpe. Rimase a fissare degli stivaletti bicolore, nero e marrone e pensò a quanto erano brutti. Poi, si sentì sollevare, mani che la posizionavano su qualcosa di rigido, piccolo, perché le braccia le cadevano penzoloni.

Sirene e sballottamenti. Voci. Poi, più nulla.

Ascoltava quel buio silenzioso. Era diventata quel silenzio, quel vuoto, senza intervenire.

Non intervengo. Non interviene il mio io. É questa la pace? Sono sconosciuta a me stessa, ho smesso di raccontarmi.

Codice rosso.

Perfect pain

Picasso- Marie Thérèse inclinata- 1939

Il dolore perfetto è come un buco che non si rimargina, non sparirà mai. Ogni giorno distinto dall’altro, ma uguale all’altro. Il tempo scandito da gesti diventati routine, fare qualcosa di diverso solo perché é necessario, per prolungare la lista di cose da fare, riempire il vuoto, segnare qualcosa sul calendario. Razionalizzare.

Check.

Quando la lista sarà terminata? Vuoi che termini? Sai che poi verrai inghiottita, lo sai. Sai anche che nessuno ti abbraccerà più con l’anima, non avrai neanche quel poco tempo di pace. Non succederà. Gli abbracci sono veloci, i baci sfiorati, gli sguardi indagatori. Vogliono sapere, capire. Non c’é niente da capire, niente da spiegare.

É solo morto.

Lo cerchi nei sogni, dove nessun altro può trovarvi, dove le parole non servono, quando hai bisogno di pensarlo, di ricordarti il suo odore e quel portale infinito che erano i suoi occhi.

Nella folla, come un pesce pelagico, nuoti a fatica, senza una meta precisa. Sogni le sue piccole imperfezioni, le debolezze che solo tu conoscevi, perché era entrato nel tuo mondo, era perfetto per te come tu per lui. Due imperfetti, perfetti l’uno per l’altra. Insieme avevate scoperto la bellezza dove nessuno si aspettava di trovarla.

Ed ora?

Nuoti in quel buco, in cui ogni tanto si riflette un raggio di sole o di luna, e insegui la simmetria dei disegni delle stelle. Una tra quelle ha il suo nome.


LA DOULEUR PARFAITE

à mon Jean-René

La douleur parfaite est comme un gouffre qui ne guérit pas, elle ne disparaîtra jamais. Chaque jour est différent de l’autre, mais pareil à l’autre. Un temps marqué par des gestes devenus routiniers, faire quelque chose de différent juste parce que c’est nécessaire, allonger la liste des choses à faire, combler le vide, marquer quelque chose sur le calendrier. Rationaliser.

Vérifier.

Quand la liste sera-t-elle terminée ? Est-ce que tu veux que ça se termine ? Tu sais qu’alors tu seras englouti, tu le sais. Tu sais aussi que personne ne t’embrassera plus avec son âme, tu n’auras même pas ce petit moment de paix. Cela n’arrivera pas. Les câlins sont rapides, les baisers touchés, les regards inquisiteurs. Ils veulent savoir, comprendre. Il n’y a rien à comprendre, rien à expliquer.

Il est simplement mort.

Tu le cherches dans les rêves, où personne d’autre ne peut vous trouver, où les mots sont inutiles, quand tu as besoin de penser à lui, de te souvenir de son odeur et de ce portail infini qu’étaient ses yeux.

Dans la foule, tel un poisson pélagique, tu nages difficilement, sans destination précise. Tu rêves de ses petites imperfections, des faiblesses que toi seule savais, car il était entré dans ton monde, il était parfait pour toi comme tu l’étais pour lui. Deux imparfaits, parfaits l’un pour l’autre. Ensemble, vous aviez découvert la beauté là, où personne ne s’attendait à la trouver.

Et maintenant ?

Tu nage dans ce trou, dans lequel se reflète, de temps en temps, un rayon de soleil ou de lune, et tu observes la symétrie des motifs des étoiles. L’un d’eux porte son nom.


PERFECT PAIN

The perfect pain is like a hole that doesn’t heal, it will never disappear. Every day is different but the same at the end. Time marked by gestures that have become routine, doing something different just because it’s necessary, to extend the list of things to do, fill the void, write something on the calendar. Rationalize.

Check.

When will the list be finished? Do you want it to end? You know that then you will be swallowed up, you know it. You also know that no one will hug you with their soul anymore, you won’t even have that little bit of time of peace. It won’t happen. The hugs are quick, the kisses are grazed, the glances are inquisitive. They want to know, to understand. There is nothing to understand, nothing to explain.

He’s just dead.

You are looking for him in dreams, where no one else can find you, where words are useless, when you need to think of him, to remember his smell and that infinite portal that were his eyes.

In the crowd, like a pelagic fish, you swim with difficulty, without a precise destination. You dream of his little imperfections, the weaknesses that only you knew, because he had entered your world, he was perfect for you as you were for him. Two imperfect people, perfect for each other. Together you had discovered beauty where no one expected to find it.

And now?

You swim in that hole in which, every now and then, a ray of sun or moon is reflected, and you chase the symmetry of the designs of the stars. One of those has its name.


STALKING. Sapresti difenderti?

STALKING. Sapresti difenderti?

TI SCRIVO PERCHÉ NON SO AMRARE

Echos edizioni – echosprime.it

Vuoto

Mi piacerebbe che qualcuno mi insegnasse a stare da sola. Non dovrei rincorrere sempre la mediocrità, riempire i vuoti, accontentarmi di un surrogato dell’amore. Non è vero che il tempo mette ognuno al suo posto. Forse un giorno mi perdonerò del male che mi sono fatta e mi stringerò così forte da non lasciarmi più.

Ma non oggi. Oggi era là, seduta a fissare quei cinque piani di altezza sotto di lei, quel vuoto che terminava su delle aiuole circondate dal cemento.

Si accomodò meglio. Parlava da sola, come sempre.

Mi hanno detto che ho un grande dono, che la mia sensibilità ha una capacità di vibrare, un’agilità che risuona. E allora? Mi ricordo quando ero piccola e la maestra aveva detto a mia madre che la mia intelligenza disturbava, che riempiva e non lasciava spazio agli altri. Non vedevo gli altri bambini. Già allora, non riuscivo a vedere gli altri, ma sentivo la necessità di un rapporto vero. Vorrei capire.Vorrei capirmi.

DBP. Voleva dire tutto e niente. Ipersensibile. La avevano etichettata così.

Sono rabbiosa, anzi, furiosa, mi hanno tradito ancora e quello che pensavo di aver condiviso è svanito. Come polvere al vento. Vorrei distruggere tutto, tutto di me.

Fissò il cielo che stava imbrunendo, quella prima stella che bucava col suo sfolgorio. Finto. Le sembrò che anche quello spettacolo incomprensibile fosse finto.

Poi si guardò i piedi che ciondolavano nel vuoto. Non vedeva altro, non sentiva la necessità di un appoggio, non aveva paura. I colori là sotto erano mischiati, come in una tela astratta, pastosi e amalgamati.

Si sdraiò per guardare meglio l’infinito. L’infinito. Si poteva impazzire pensando all’infinito, il cervello non ne era capace, lei, non ne era capace.

“Ah, se potessi volare, partirei come un razzo. E magari, esploderei.”

E mise le mani a conchiglia intorno agli occhi per poter isolare i pensieri, per poter viaggiare in quei ritagli di cielo, lasciando tutto fuori. Aspettava di sentire se qualcuno la chiamava, se qualcuno si era accorto che non era in casa.

Il cielo si scurì, gli uccelli sparirono, le stelle apparvero una ad una, una ad una, una ad una.

Essere, qualcuno.

“Sei sicura di voler ballare con lui?” E lei, alza gli occhioni da terra, fissa la telecamera e annuisce. Parte la musica. Deve essere davvero alta, non si sente niente, ma è un momento dedicato proprio a quella coppia, devono dirsi tante cose, più cose possibili, con la bocca attaccata alle orecchie dell’altro, i nasi che si scontrano perché non hanno finito la frase. Ma la musica svanisce, e tutti, tornano al proprio posto.

Si agitano le labbra ingombranti di una dei conduttori della trasmissione, non c’è tempo da perdere, deve dire la sua. Ed è davvero complicato cercare di interpretare la sequela di frasi, interrotte da sguardi eloquenti, risate sardoniche, minacce di abbandonare lo studio. La regia sta facendo un lavoro sull’orlo di una crisi di nervi, passa da una inquadratura ad un altra. Un uomo di mezza età si sta osservando le scarpe, massaggiandosi una caviglia e l’immagine successiva è già litigio.

Due ragazze non troppo giovani o donne non troppo anziane, che stanno ad un pelo dal prendersi letteralmente per i capelli ma, il pensiero del lavoro certosino di trucco e parrucco, sicuramente le blocca. Ma non blocca le voci, come aquile inferocite che stanno difendendo il nido, anche se qui, di così prezioso, non si vede nulla, non si percepisce nulla.

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Giusto il tempo di ritoccare il trucco, immagino, o dare uno sguardo alla scaletta, e si è di nuovo online. Scende dalle scale una ragazza mora, dai capelli lucidi e una minigonna che sembra più una cintura, portata molto bassa. Cammina con finta sicurezza, sa di essere considerata un’altra minaccia. Le occhiate al vetriolo si sprecano. Baci di benvenuto e si accomoda. La gente del pubblico applaude. Ma chi è? Ma chi sono?

Riparte la diatriba sul perché non vuoi uscire con me.

Abbiamo appena ballato insieme.

Mi hai detto che ti piaccio molto.

Non sei vero.

Non sei mai stato vero.

Io sono vera.

Io sono sempre stata me stessa.

La Fiera delle Vanità, verrebbe da dire, se non sentissi che stona il paragone. Eppure pare funzionare, se non ci si sofferma ad osservare gli sguardi vuoti o impauriti o desiderosi di essere inquadrati, dei tanti partecipanti. Fanno quasi tenerezza. E inquadratela un attimo! In fondo si è messa alla gogna, è lì, inguainata in un vestito di due taglie più piccolo, con dei tacchi che hanno sicuramente necessitato ore di prove. In fondo, cosa vi costa? Perché lei no?

Perché sono lì? Il loro cuore è davvero sobbalzato vedendo quella persona inquadrata, mentre parlava del nulla, al punto di voler partecipare a casting estenuanti ed esporsi alla berlina mediatica?

La fama. Essere qualcuno, esistere e, soprattutto, resistere.

Ma il talento? Il valore che, probabilmente c’è, se non in tutti, almeno in alcuni? Come falene, attratte dalle luci dello studio, svolazzano, urtandosi, offendendosi, odiandosi, vaneggiando.

É un reality, cito: “spettacolo che mira a trasformare la realtà, o presunta tale, in una forma di intrattenimento leggero, senza uno scopo prettamente educativo”.

Intrattenimento leggero. Non per loro.


Foto da unsplash