Fare il niente che voglio (it/en)

Ho preso tutto.

Rapido sguardo sulla scrivania per controllare se ha spento il computer e rimesso un po’ in ordine.

Detesto lasciare le penne fuori posto, le pratiche non impilate. Pazienza per la carta che deborda dal cestino, sembra quasi un’Ikebana multicolore. Via , via, devo uscire da qui, ho mille cose da fare!

Cammina veloce, a piccoli passi nervosi, seguendo il rumore dei tacchi sul marmo lucido. Il percorso è sempre lo stesso, come binari che la portano proprio davanti agli ascensori. Arrivano altre persone, chiacchierando, ciondolando, perdendo tempo. Si sta formando una piccola folla e l’ansia sale. Guarda l’ora sul telefonino e vede un messaggio.

  • Io vado. Ti aspetto là.

L’ascensore è arrivato e, come sempre, è già quasi al limite della capienza, ma lei entra di corsa.

C’ero io prima di voi. Ma cosa fate? Ma guarda se quell’idiota doveva entrare per forza!

Le porte dell’ascensore non riescono a chiudersi.

Siamo in troppi!

Il grumo di persone si sposta all’interno, si stringe al massimo. Un cubo di Rubik che si muove senza soluzione. E l’ultimo entrato alla fine rinuncia ed esce, accompagnato da evidenti sospiri di sollievo.

Quando hai fretta, tutto rallenta.

Ed è fuori, finalmente. Un passo dietro l’altro nella hall, schivando persone, borse, zainetti e gomiti. Poi, un altro imbuto, una clessidra di corpi che scivola piano verso la luce. Sente l’aria fresca arrivarle sul viso e il caos del traffico, colonna sonora di ogni sua giornata d’ufficio. Un passo dietro l’altro, ora è diretta alla metro, in una coda disordinata che si sposta, aprendosi e chiudendosi. Lei, è là dentro, un passo dietro l’altro, seguendo il ritmo degli altri, con la testa bassa e un braccio avvinghiato alla borsa.

Inciampa.

Improvvisamente, si trova a terra, sul marciapiedi, con l’anaconda di corpi che le scivola a fianco. Si rialza piano, guardandosi le mani e massaggiandosi i palmi. É immobile e la schivano tutti. C’è un giardinetto proprio là, a destra, con delle signore sedute e dei bambini che stanno giocando. Un’ambulanza sfreccia, la sirena urla urgenza, mentre una coppia litiga in macchina, aspettando che scatti il verde.

E si alza il vento. Una folata che sposta le fronde verdi dei platani.

Lei è immobile e si sente vuota. Avverte la bellezza del vuoto.

Per un momento, si accorge che non c’è veramente nulla che deve fare.

Che meraviglia, il niente.

Arriva un altro messaggio.

Ora ti rispondo. Tra un attimo.


EMBRACING NOTHINGNESS


I’ve got everything.

A quick glance at the desk to check if the computer’s turned off and if things are somewhat tidied up.

I hate leaving pens out of place, files unstacked. Never mind the paper spilling out of the bin, it almost looks like a multicolored Ikebana. I have to get out of here, I’ve got a thousand things to do!

She walks quickly, in small, nervous steps, following the sound of her heels on the polished marble. The path is always the same, like tracks leading her straight to the elevators. Other people arrive, chatting, dawdling, wasting time. A small crowd is forming and her anxiety rises. She checks the time on her phone and sees a message.

  • I’m going. I’ll wait for you there.

The elevator arrives and, as usual, it’s already nearly full, but she rushes in.

I was here before you. What are you doing? Seriously, did that idiot really have to squeeze in?

The elevator doors won’t close.

There are too many of us!

The clump of people shifts inside, squeezing in as tightly as possible. A Rubik’s cube shifting with no solution. And the last one in finally gets out, met with obvious sighs of relief.

When you’re in a hurry, everything slows down.

And she’s out, at last. One step after another through the lobby, dodging people, bags, backpacks and elbows. Then, another bottleneck, an hourglass of bodies slowly slipping toward the light. She feels the cool air hitting her face, along with the chaos of traffic, the soundtrack of every office day. One step after another, now heading toward the metro, in a messy line that shifts, opening and closing. She’s in it, one step after another, following the rhythm of the others, head down, one arm clinging to her bag.

She trips.

Suddenly, she’s on the ground, on the sidewalk, while the anaconda of bodies slides past her. She slowly gets up, looking at her hands, rubbing her palms. She stands still, and everyone dodges her. There’s a little park just to the right, with ladies sitting and kids playing. An ambulance speeds by, siren screaming urgency, while a couple argues in a car, waiting for the light to turn green.

And the wind picks up. A gust that rustles the green branches of the plane trees.

She stands still, and she feels empty.

The beauty of emptiness.

For a moment, she realizes there’s truly nothing she has to do.

What a wonder, this nothingness.

Another message comes in.

I’ll answer you. In a moment.

La spirale del tuono

Il temporale era passato. Oltre i vetri, osservava il tramonto, un fiume purpureo che si allungava lentamente avvolgendo la terra in un abbraccio morbido e viscoso. La luce, mescolandosi con l’aria, sembrava un fluido denso che non riusciva a scegliere se penetrare nel cuore della terra o dissolversi nella vastità dell’infinito. Il cielo, ora era un calderone di colori sfumati e impossibili da definire, pareva fondersi in un unico respiro che non apparteneva né al giorno né alla notte.

Un tuono lontano. Cancro. La parola riecheggiò nella sua mente. Un rumore sordo, un’onda che inghiotte la sabbia. Era malata. Solo ieri, la sua vita sembrava scorrere tranquilla, anonima, una pagina vuota che non aspettava altro che essere riempita. Da oggi, invece, avrebbe dovuto affrontare una realtà sconosciuta che pulsava come una ferita aperta.

Osservò le gocce di pioggia sui vetri, piccole capsule di tempo cristallizzato. Ogni goccia immobile racchiudeva in sé un istante che non sarebbe mai tornato, un attimo di vita rubato riflettendo il mondo fuori come attraverso uno specchio che si incrina e si ricompone in continuazione.

Rimise play sul film che aveva scelto, così lontano dalla sua storia di vita. Le scene del film tentavano di imitare la realtà, ma non ci riuscivano. La storia d’amore era un inganno che non faceva altro che acutizzare la sua solitudine. Le scene di disperazione erano troppo perfette, costruite con tale artificio che ogni singolo gesto, ogni sguardo, la irritava. La sofferenza in quel film non sembrava vera, era frutto di una scenografia ben studiata.

Quale film sarebbe stato la sua vita? Forse un film noioso, banale, un film troppo lungo, con un nastro che ora si era inceppato. O un film di cassetta, uno di quelli che ormai non hanno più né colore né vita. Le tornarono alla mente certi vecchi film che avevano perso la loro freschezza ed erano diventati un ricordo sbiadito, troppo familiare, troppo visto.

Eppure, oggi c’era qualcosa di diverso. Era arrivato senza preavviso, come un parente invadente che entra in casa senza bussare, che si siede alla tua tavola e pretende di restare. Accettare. Doveva accettare la situazione e affrontarla, ma come si può accettare qualcosa che non si capisce? Come può una controfigura ergersi a protagonista di una storia che non conosce? La paura di dover affrontare l’ignoto, l’imprevedibile, la faceva sentire piccola, fragile, e il corpo non pareva più in grado di sostenere l’anima che vi abitava.

Si sedette di nuovo sul divano, intorpidita dal freddo che si stava infiltrando sotto pelle. Il suono dei messaggi che arrivavano sul suo telefono era lontano. “Coraggio”, “ti sono vicina”, “abbracci”, parole che fluttuavano come piccole bolle di sapone, destinate a dissolversi prima che potessero raggiungerle il cuore.

Il mondo fuori era un’illusione, una visione speculare di ciò che avrebbe dovuto essere, una spirale che si allontanava da lei senza mai sfiorarla davvero.

Ritornò alla finestra a guardare il peso di un cielo che stava per crollare.


PLPL – Roma Convention Center La Nuvola – 4/8 dicembre 2024

PLPL – ROMA – LA NUVOLA – 4/8 dicembre 2024

Rientrata! Stanca (molto stanca) ma felice!

È sempre bello partecipare alle Fiere dei Libri e questa al Roma Convention Center La Nuvola, è stata una full immersion!

Cara Gattapazza, ti ho aspettato… e Marisa Salabelle, potevi dirmelo prima che eri presente, ti avrei sicuramente cercata!!!

Ho portato a casa incontri, sorprese, chiacchierate e interviste e… un bel raffreddore!

Non vi ho dimenticato,,, è che dovevo anche dormire( almeno un po’😜).

Marcella


Bilico

Io non mi conosco. Non vedo perché dovrei per forza ascoltare.

Uscendo di casa, con la testa che continuava a raccontare la solita storia, aveva preso la direzione verso il centro. Una folla che camminava, in disordine, osservando le vetrine già addobbate per il Natale. Tante luci dai fari delle macchine, riflessi che le ferivano gli occhi e quel sottofondo rumoroso, quel chiacchiericcio molesto che la infastidiva. Avrebbe dovuto già pensare agli acquisti, ai regali, ma proprio non ce la faceva. Avrebbe dovuto essere, se non allegra, almeno consapevole della fortuna che aveva. C’erano problemi? No.

Alla fine, tutti hanno problemi, anzi, preoccupazioni. I problemi sono altri.

Niente da fare. Il cervello ruminava, inquietava, chiedeva la pace. Poi, di colpo, un tonfo sordo e violento. Una frenata che sembra non finire mai.

Gente che urla e corre.

Qualcuno è stato investito?

Giaceva a terra, sull’asfalto, ferma e sanguinante. Era buio e le voci non le sentiva più. Ascoltava quel silenzio, quel vuoto. Ma non era pace, era terrore. Le sembrava di vedere piedi, tante scarpe. Rimase a fissare degli stivaletti bicolore, nero e marrone e pensò a quanto erano brutti. Poi, si sentì sollevare, mani che la posizionavano su qualcosa di rigido, piccolo, perché le braccia le cadevano penzoloni.

Sirene e sballottamenti. Voci. Poi, più nulla.

Ascoltava quel buio silenzioso. Era diventata quel silenzio, quel vuoto, senza intervenire.

Non intervengo. Non interviene il mio io. É questa la pace? Sono sconosciuta a me stessa, ho smesso di raccontarmi.

Codice rosso.

Perché non mi hai amato?

Appena scesa dal treno, aveva cominciato a camminare velocemente, come se fosse in ritardo, schivando altri passeggeri che le ingombravano il passaggio. Riemersa dall’ennesima scala e diretta verso l’uscita invece rallentò, con la luce che, dall’alto finestrone della facciata della stazione, le inondava il viso, ferendole gli occhi. Abbassò lo sguardo sul pavimento in marmo corroso da tanti piedi diretti chissà dove, continuando a camminare assorta. La mente cominciò a vacillare e insinuare dubbi e domande. Aveva fatto bene ad imbarcarsi in quella ricerca? Nei giorni precedenti si era immaginata quell’incontro tante volte e, tutte, in maniera diversa, ma accomunate da una fortissima emozione. Sarebbe stato così? Quello che stava provando non era ansia ma, paura.

Quando, tempo addietro, si era decisa a ricercare i suoi genitori biologici, ne aveva parlato con la mamma. Una sera, senza il papà, perché aveva pensato che fosse più giusto parlarne prima con lei. Ecco perché continuava a vedere lo sguardo di sua madre, che la fissava mentre cercava di trovare le parole più adatte, mentre farfugliava nel tentativo di comunicare qualcosa di doloroso. Sapeva che sarebbe stato in qualche modo doloroso. E quello sguardo, invece, era stato un urlo silenzioso di infinito amore, accompagnato da un abbraccio finale, come quelli che le dava da bambina. Devi farlo se ne hai bisogno. Tutto qui.

Sua madre quella mattina, l’aveva salutata come sempre, ma c’era anche suo padre e, questo particolare, le aveva dato la sensazione di un addio. Non volava ferirli, non avrebbe mai voluto, ma forse lo aveva fatto, ormai, l’aveva fatto.

Dopo lunghe ricerche era riuscita a trovare un numero di telefono, quello del figlio. Sua madre biologica aveva avuto un figlio, forse più di uno. La telefonata successiva, alla donna che non l’aveva voluta, che l’aveva lasciata sola, fu abbastanza difficile, tra silenzi e dammi del tu, fino alla decisione di incontrarsi, su proposta di quella donna.

Guardò l’orologio e si accodò alla fila dei taxi. Quando hai fretta il tempo sfugge e corri il rischio di arrivare troppo presto o troppo tardi. Puntuale. Avrebbe solo voluto essere puntuale, al massimo, un po’ in anticipo. Chissà come sarà? Mi assomiglierà? Sarà contenta o in imbarazzo?

Eccolo il bar, elegante, in centro. Scese quasi in trance, come se all’appuntamento fosse andato il suo avatar. Scrutò tra i tavoli in cerca di una signora da sola e la vide. Esile, giovane e dal viso dolce. Aveva il suo stesso neo sulla guancia.

Salve. Sono Beatrice.

La signora la guardò perplessa chiedendole chi fosse. Non era lei. Si scusò e allontanandosi cercò ancora con lo sguardo senza successo. Decise di accomodarsi e aspettare.

Aspettò. Invano.

Un messaggio. < Scusami, ci ho ripensato. Mi dispiace ma non posso rimediare in alcun modo. Ho una famiglia che non sa e che non voglio far soffrire. So che capirai, sei un’adulta. Al telefono sembravi serena. Ti prego di lasciare le cose come stanno e ti auguro il meglio, visto che io non ne sono stata in grado.>

Un saporaccio, quasi ferroso, le riempì le mucose della lingua, la salivazione sembrava azzerata e il respiro si fece affannoso. Mamma, dove sei mamma? Pensando a quegli occhi senza fondo che l’aspettavano a casa, pagò il suo caffè e si avviò verso i taxi.

Alice: “Per quanto tempo è per sempre?”Bianconiglio: “A volte, solo un secondo”.

Impulso di scrittura giornaliero
La tua vita senza computer: che aspetto ha?

Sono curiosa di leggere le risposte della generazione che è nata già “programmata”, già misteriosamente predisposta all’utilizzo delle nuove tecnologie. Per chi invece, come me, ha vissuto anche senza, ma ha dovuto (nel mio caso, voluto) fronteggiare l’arrivo di internet e di tutto ciò che è arrivato al seguito, si tratta semplicemente di ricordare. E vi assicuro che sono ricordi bellissimi: macchine fotografiche, anche complicate, telefoni a gettoni, cassette di musica da condividere con gli amici e, soprattutto, la necessità di incontrarsi di persona, sui muretti che hanno visto tante storie: amori, progetti, sogni. Forse, oggi, che è tutto più semplice e si tende a dare poco valore a quello che si posta, siano frasi o foto, ci si dimentica delle grandi opportunità che ci offre la tecnologia. Ma dobbiamo conoscerla e “dominarla”, perché ha una forza travolgente e pericolosa, tende per sua natura ad isolare e crea dipendenza. So come sarebbe la mia vita senza computer, ovviamente non potrebbe più essere come nel passato, semplicemente mi ritroverei in un’altra dimensione, distante, forse anche il tempo si dilaterebbe. E, ogni tanto, ne sento la necessità, perché il tempo è prezioso.

Stalking e Amore. Il mio nuovo romanzo

Ecco, giusto un assaggio. Una sbirciatina tra le pagine del mio ultimo romanzo < TI SCRIVO PERCHÉ NON SO AMARE/STALKING >. Come guardare dal buco della serratura…


pag:22

Il mio pezzo è passato! Uscirà domani, pagina Cultura, con acronimo. Dai che va bene. Intanto continuo a correggere gli articoli degli altri e, continuo a pensare che, in fondo, non è che siano poi così interessanti. È vero, io esagero col dare sempre un taglio personale, cercando di renderli, a mio parere, meno banali, ma si tratta di stile. Il mio, stile.

Ci metto poco a correggere, ormai conosco i punti deboli di tutti quelli che collaborano con la Redazione, li riconoscerei anche senza leggere i nomi. A parte due, che sembrano fotocopie e credo lavorino insieme. Comunque, non c’è verso, continuano a fare gli stessi errori, evidentemente non rileggono la mia stesura, non sono interessati. Basta essere pubblicati.

Nelle mail continuano ad arrivare spam e messaggi da Anonymousmail, questa volta hanno oggetti diversi: È per te; Una poesia; Ti penso.

Dovrò chiamare un tecnico per vedere se riesce a bloccarle.

Bene, ora devo proprio andare a controllare se il mio post di ieri continua a ricevere commenti. I bagni sono deserti, manca ancora un po’ alla fatidica pausa caffè. C’è silenzio, freddino. Mi specchio e ho il viso rilassato, il sesso, anche se fatto male, aiuta. Chiudo la porta dell’ultimo bagno, quello vicino alla finestra semi- aperta.

Apro il mio profilo e ci sono 186 commenti al mio ultimo post, cinquanta in più rispetto a stamattina. Scrollo e leggo, metto cuori e like.

La foto che avevo fatto era venuta bene, slip su scarpe rigorosamente in fila, col riflesso della luna sulla parete. #Inizio o fine?

R: nottataccia eh?

Ancora questo? Lascio correre. Non ho tempo per occuparmi di te. Devo pensare a un seguito.

R: ti ho pensato.

E fai male. Allora, insistere sul sesso potrebbe andare bene, se non diventa una calamita per pervertiti.  Posterò una poesia, almeno una parte. Devo decidere quale. “L’amore quando si rivela” di Pessoa?

L’amore, quando si rivela,
Non si sa rivelare.
Sa bene guardare lei,
Ma non le sa parlare.
#Agli uomini dagli occhi innamorati

E ci vuole una foto. Questa della mia mano sulla sua schiena? Vai.

R: Perché non rispondi alle mie mail? Neanche le apri… Mi stai ferendo.

Ma chi sei? Cosa vuoi? Le tue mail? Non rispondo. Si stancherà. O Lo bloccherò.


Ovviamente, R. non si stancherà.

Questa è l’essenza dello STALKING che, lentamente, avvelena la vita della sua vittima.


Si acquista in libreria o qui o qui

e, dal 4 all’ 8 dicembre 2024, alla

Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria

PIÙ LIBRI PIÙ LIBERI- La Nuvola- a Roma

(stand ECHOS EDIZIONI)

Se qualcuno di voi, in quei giorni, graviterà su Roma, sarà davvero un piacere conoscervi, di persona…😜

Marcella


Energia “sostenibile”: ricarica Mente e Spirito

Impulso di scrittura giornaliero
Cosa ti dona energia?

Ok. Partiamo dall’idea di avere le “pile scariche”, di attraversare uno di quei momenti in cui ogni piccolo contrattempo si somma ad una pila già alta. Credo capiti a tutti. In questi momenti, io vorrei avere una propaggine in grado di collegarmi a qualche dispositivo, come le auto elettriche. (anche se ormai sappiamo che non sono la soluzione ottimale). E rimanere in attesa. Ma, voglio addentrarmi tra i quattro tipi di energia: fisica, mentale, emotiva e spirituale. A me, arriva una scarica meravigliosa quando il cervello è come dopato da un nuovo progetto (mentale), ma soprattutto, quando SENTO di essere amata (emotiva). Un connubio strano? Mente ed emozioni? Sono connesse e connettono anche le energie fisiche e spirituali. Quando capita, sono leggera come una piuma e, quasi luminosa. (energia sostenibile 😜)

STALKING. Sapresti difenderti?

STALKING. Sapresti difenderti?

TI SCRIVO PERCHÉ NON SO AMRARE

Echos edizioni – echosprime.it

Ti scrivo perché non so amare

Quella sera, il mio destino stava cambiando.
Carlotta mi mostrò un disegno, un uomo di spalle che stava fotografando una donna, me. Poi, mi diede una busta bianca, chiusa.
 < E questa? Cos’è?>
L’aveva trovata sul mio zerbino.
L’apro e all’interno c’è un foglio con un disegno a forma di goccia, sembra una lacrima, e poche righe che si leggono male.”

Questa è l’essenza dello STALKING che, lentamente, avvelena la vita della vittima.

Questo è il mio ultimo romanzo.

TI SCRIVO PERCHÉ NON SO AMARE – STALKING (Echos edizioni)

echosprime.it

Questo romanzo racconta la storia di una ragazza qualunque, una ragazza normale, la cui vita verrà stravolta lentamente, subdolamente, da uno stalker. La narrazione coinvolge come in un noir, quasi un giallo, viste le dinamiche, i colpi di scena e gli intrecci che, inevitabilmente, interessano non solo la protagonista, ma tutti i suoi contatti. L’epilogo del romanzo è sconcertante, perché volevo che fosse così. Imprevedibile, come la vita.

Qual è la differenza tra ansia e paura?


Lo STALKING, é un argomento che ci riguarda soltanto perché ne sentiamo parlare, ma in realtà interessa sempre più persone, non solo donne.

Prima di scrivere, ne ho approfondito ogni aspetto, letto Valutazioni psichiatriche/forensi di esperti e professionisti, ho voluto capire di più sull’evoluzione di un fenomeno che, con l’avvento del cyber spazio, è aumentato esponenzialmente, offrendo occasioni e strumenti a chi intende disturbare, molestare o aggredire qualcuno, restando nell’anonimato. Addentrandomi nel problema, ho scoperto che le vittime non sono solo le destinatarie dirette ma che, ulteriori vittime, descritte come secondarie, sono anche la famiglia, i figli, partner, coinquilini, amici, colleghi e addirittura gli animali domestici della vittima.

Lo stalker, non si limita al disturbo ossessivo ma tenta di distruggere qualsiasi legame nella vita del proprio oggetto del desiderio, in un’ottica di controllo ed espressione di potere.

Difficile capire chi è questa persona e, per la vittima, è impossibile uscire dalla ragnatela sempre più fitta che il suo aguzzino le costruirà intorno.


RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento speciale va al poeta contemporaneo Marcello Comitini, che mi ha permesso di inserire nel romanzo, cinque delle sue poesie, tratte dal Quaderno di poesie “L’altrove della luna”. La sua lirica, anche in questa mia opera, sa cogliere nel profondo verità difficili da negare, percezioni che parlano d’istinto, con una ricchezza sentimentale che sorprende col suo carico di significati.

Marcella Donagemma

Arrivare.

Questa volta, andare al lavoro non avrebbe avuto il solito saporaccio amaro, stomachevole. Non avrebbe dovuto, come sempre fino ad allora, ingoiare spinose battute, vomitare grasse risate di circostanza, staccare con pazienza filamenti di false lusinghe. No, quel giorno se lo aspettava lieve, senza nessuna afflizione, e che scivolasse come un’ostrica in gola.

Contemplò il nuovo ufficio, la targhetta all’esterno col suo nome. Il SUO nome. Il cuore pulsava una marcia trionfale, le sembrava anche di essere più alta.

<Congratulazioni!>

Vibrazioni negative, dietro di lei. Ma, voltandosi, dalla sua nuova altezza, le parve di vedere quella che un tempo era stata una collega. Le pareva più brutta, e anche un po’ sciatta.

Ringraziò sorridendo e, sentendosi come Alice che aveva appena bevuto dalla bottiglietta, le sembrò di diventare enorme, rimanendo a fissare quella figura che velocemente rimpiccioliva sotto di lei.

Strani scherzi della mente. Mania di grandezza? Narcisismo esplosivo? Fece una spaventosa frenata col cuore.

Entrando nel SUO ufficio fu colta da una sorta di senso di colpa, accompagnato da una gelida solitudine. “La solitudine del leader “, sussurrò.

Tutto, là dentro, dalla scrivania al tavolo tondo con quattro sedie, parlava di nuove responsabilità, di risultati attesi. Ma non doveva sentirsi raggiante?

Non sapeva ancora come giudicare le sue reazioni.

Prima male, poi bene, poi accese il computer.

Vuoto

Mi piacerebbe che qualcuno mi insegnasse a stare da sola. Non dovrei rincorrere sempre la mediocrità, riempire i vuoti, accontentarmi di un surrogato dell’amore. Non è vero che il tempo mette ognuno al suo posto. Forse un giorno mi perdonerò del male che mi sono fatta e mi stringerò così forte da non lasciarmi più.

Ma non oggi. Oggi era là, seduta a fissare quei cinque piani di altezza sotto di lei, quel vuoto che terminava su delle aiuole circondate dal cemento.

Si accomodò meglio. Parlava da sola, come sempre.

Mi hanno detto che ho un grande dono, che la mia sensibilità ha una capacità di vibrare, un’agilità che risuona. E allora? Mi ricordo quando ero piccola e la maestra aveva detto a mia madre che la mia intelligenza disturbava, che riempiva e non lasciava spazio agli altri. Non vedevo gli altri bambini. Già allora, non riuscivo a vedere gli altri, ma sentivo la necessità di un rapporto vero. Vorrei capire.Vorrei capirmi.

DBP. Voleva dire tutto e niente. Ipersensibile. La avevano etichettata così.

Sono rabbiosa, anzi, furiosa, mi hanno tradito ancora e quello che pensavo di aver condiviso è svanito. Come polvere al vento. Vorrei distruggere tutto, tutto di me.

Fissò il cielo che stava imbrunendo, quella prima stella che bucava col suo sfolgorio. Finto. Le sembrò che anche quello spettacolo incomprensibile fosse finto.

Poi si guardò i piedi che ciondolavano nel vuoto. Non vedeva altro, non sentiva la necessità di un appoggio, non aveva paura. I colori là sotto erano mischiati, come in una tela astratta, pastosi e amalgamati.

Si sdraiò per guardare meglio l’infinito. L’infinito. Si poteva impazzire pensando all’infinito, il cervello non ne era capace, lei, non ne era capace.

“Ah, se potessi volare, partirei come un razzo. E magari, esploderei.”

E mise le mani a conchiglia intorno agli occhi per poter isolare i pensieri, per poter viaggiare in quei ritagli di cielo, lasciando tutto fuori. Aspettava di sentire se qualcuno la chiamava, se qualcuno si era accorto che non era in casa.

Il cielo si scurì, gli uccelli sparirono, le stelle apparvero una ad una, una ad una, una ad una.

Goccia a goccia

Due volte a settimana andava al raduno Alcolisti anonimi.

In questo posto esistevano regole, gesti e parole che si ripetevano ogni volta. Era confortante non pensare e la gente sembrava normale. Si chiacchierava del più e del meno, ci si salutava prendendo un caffè al distributore e oggi, qualcuno aveva portato dei biscotti.

Ti invitavano ad essere onesto, a toglierti qualunque maschera, aprirti e combattere. Oggi, toccava a lei, presentarsi e parlare un po’.

Parte un applauso e il ringraziamento da parte dello psicologo che la invita ad accomodarsi, dopo averle consegnato il suo primo gagliardetto. Tre mesi senza bere.

< Ciao a tutti Sono Carla.>

< Ciao Carla!>

< Tre mesi. Cerco di vederlo come un traguardo, ma quanto è difficile. Ora so che lo diventerà ancora di più. Siamo forti? Cerchiamo di essere forti perché ci vogliono forti. Perché? Quelli come noi hanno fallito e spaventano. La verità é che tutti abbiamo bisogno degli altri. L’indipendenza è una utopia. Ma vi dirò una cosa, non mi piace quello che vedo, non mi piace più. Ci siamo dimenticati il primo bacio, di quando status symbol non significava nulla, le vacanze duravano mesi e le emozioni erano semplici. Il sole scottava la pelle, il benessere era, stare bene.>

Lo psicologo la interrompe, ora toccherà ad un altro. Poi, parleranno in cerchio, come ogni volta.

Quando arriverà il punto di saturazione. Quando non riuscirò più a insistere e il mio cuore, già colmo di amarezza, non sopporterà più? Tenerezza e dolcezza sono parole, solo parole, da tanto tempo. L’Universo é crudele, va a caso e quando trovi qualcosa che ti da gioia, lo devi prendere al volo, perché il dolore ti adesca. Più tardi, sarà troppo tardi. La vita ha bisogno di bellezza, anche attraverso il dolore. Prima pensavo di meritarmelo, ora so a chi dare la colpa. E non sono io. Non a me.

È finita. Sono andati via tutti. Va alla finestra e vede in lontananza la spiaggia e il mare. Apre un po’ e sente arrivare voci, insieme al vento. Vede le docce, spruzzi, gocce lanciate ovunque, che lasciano macchie sui muri e, sui cuori.

Si asciugheranno, almeno sui muri.


Foto da unsplash

Inizia il conto alla rovescia

Impulso di scrittura giornaliero
Cosa pensi che migliori con l’età?

Ti accorgi di crescere (invecchiare non ci piace) quando cominci a fare il conto alla rovescia. Certo che si guarda a tutto quello che si è fatto ma anche a tutto quello che ancora si vorrebbe fare, o peggio, rifare, con l’esperienza acquisita. Ma non sarebbe più la stessa cosa. Forse questa consapevolezza del lasciar andare, il guardarsi volendosi bene, perdonandosi gli errori, forse quando si libera per sempre il bambino interiore, lasciandolo. Allora non si pensa più a quanto tempo rimane ma a cosa farne. E s’impara a sorridere più spesso, anche di se stessi.

Così vicini, così lontani.

Dopo il mio post F,G o C, che affronta in maniera leggera il tema della medianità, vi propongo la testimonianza di chi (La Custode della Luna) invece ne è la protagonista, avendo questo dono fin dall’infanzia.

Un mistero affascinante, che incute timore e suscita grande curiosità.

Hipster mum

Aveva indossato gli stessi pantaloni e la stessa camicia per una settimana. Non se n’era neanche accorta. Andava in automatico, prima LUI, poi, tutto il resto. Compreso mangiare.

Sua madre passava come un fantasma, da una stanza all’altra, sempre con la sigaretta in bocca, e questa cosa non le piaceva affatto.

LUI, era piccolo in tutto quel fumo, lo vedeva annebbiato, a volte in silenzio, come assorto. Chissà a cosa pensava? Quando lo prendeva in braccio faceva una smorfia strana, quasi a dirle <No. Non mi devi prendere così! Proprio non sei capace…> Poi, scoppiava in un pianto disperato che la stordiva. Lo rimetteva nella culla, dopo vari tentativi con paroline dolci e balletti ondivaghi che le lasciavano un certo malessere. E come per magia, si calmava, almeno per un po’. Rimaneva a guardarlo, cercando qualcosa che le assomigliasse, tipo gli occhi, la bocca, almeno le orecchie. Niente.

Le sembrava che fosse arrivato da lontano. Non aveva provato niente quando glielo avevano messo in braccio dopo il parto. Forse perché aveva sofferto davvero tanto. Dolori insopportabili da toglierle il respiro. Liberarsi da quel dolore, smettere di urlare, era la sola cosa che voleva, liberarsi.

Poi, era tornata a casa con quel fagotto, silenzioso, tutto morbido e profumato, che spariva dentro il porte enfant. Avrebbe voluto dormire, riposare tranquilla e invece, era cominciato il delirio. Urla di notte, di giorno, mentre faceva la doccia, per non parlare di quando cercava di rispondere ai messaggi delle sue amiche. Sembrava che quel nanerottolo dal sorriso sdentato fosse stato programmato per farle i dispetti. Poi, aveva scoperto il rumore bianco! Googlando in cerca di soluzioni per far addormentare i neonati, aveva provato con il rumore del phon. E funzionava!

Stava proprio diventando brava. Non come sua madre, lei sarebbe stata migliore.

LUI reclamava il latte, ancora. O forse aveva le coliche. Via, nel lettone insieme, con il biberon e il phon.

E si guarda intorno, nel silenzio, appoggiata ai cuscini. LUI la sta fissando mentre succhia senza fretta.

< Oggi mi cambierò, dopo averti fatto il bagnetto, farò anch’io “il bagnetto” e così saremo tutti e due belli e profumati. E faremo dei selfie.>

Stanno arrivando messaggi ma lei affonda il naso in quel minuscolo miracolo. Non c’è droga che tenga.

Profumi di magia, profumi… di me.

Il corpo è un museo.

Il corpo è un museo e io non ho il biglietto per entrare. Non ho neanche vent’anni e ho già vissuto, tanto. Da quando sono nato ho sentito sempre e solo domande.

Perché volete iscriverlo al liceo?

Perché sorride così?

Perché non può stare fermo?

Diagnosi: Tetraparesi spastica distonica. Non sapevo cosa fosse.

Terapie. Non sapevo cosa fossero.

Fatica, solitudine, dolore. Tre ore al giorno di fisioterapia per imparare a camminare normalmente. Camici bianchi in ospedale. Un lungo viaggio, anche se, il solo posto in cui potevo andare, erano i miei pensieri.

É svogliato.

No, è malato.

I miei genitori, la mia nonna erano le mie uova di Pasqua, la loro anima era la sorpresa più grande.

Sono difettoso, rotto, manca qualche pezzo.

Troppo handicappato per fare il liceo scientifico, ti dicono i prof, in prima superiore, mentre sorella morte continua a bussare all’anima. Io contro tutti, mi diplomo.

Poi arriva Beatrice, inferno e paradiso. Esiste amore senza dolore, esiste dolore senza amore? Voglio vivere e amare. Stare bene. Vorrei un talismano a cui aggrapparmi di tanto in tanto, per non perdermi.

La vita è troppo bella per continuare a viverla così?

Cerco di vivere il presente, non dimentico il passato ma non distolgo lo sguardo dal futuro.

Sorella morte, bussa, bussa quanto vuoi. Il museo, per ora, è chiuso.


Foto da usplash di viktor-forgacs

racconto tratto da una testimonianza su Tik Tok

Un pomeriggio buttato

Camminava verso la macchina, fumando come se stesse respirando a pieni polmoni, inalava e sbuffava fumo. Il rumore dei tacchi sul marciapiedi bagnato, ritmato, interrotto solo quando schivava le piccole pozzanghere che si erano formate dopo il temporale. Aveva smesso di piovere, l’aria non si era rinfrescata, dava più la sensazione di afa tropicale e i raggi di un sole stanco, bucavano le pesanti nuvole scure, minacciose.

La aspettava un traffico delirante, di mezzi impazziti, accalcati, nervosi come uno sciame di api minacciato da qualche pericolo. Rimase seduta in macchina per un po’, proprio non ce la faceva a partire subito. Era scarica, spossata.

Un pomeriggio buttato.

Le erano rimaste in testa le risate di Laura, quel suo continuo parlare, agitarsi, le attenzioni mielose da padrona di casa, tutte quelle effusioni a fior di pelle e gli sguardi. Più che altro gli sguardi. Ti rimanevano addosso come i filamenti di una gomma da masticare su cui ti eri seduta incautamente.

Un pomeriggio buttato.

Laura aveva davvero una bella casa, un marito perfetto e due figli perfetti. Conosceva solo di vista le altre invitate. Di cosa si era parlato? Mah. Doveva essere un aperitivo di compleanno, ma il buffet, il personale di servizio, le mises delle ospiti, l’avevano frastornata. Conosceva Laura, sapeva che amava esagerare, ma oggi, era stato davvero troppo. Troppo”Ciao tesoro!”, troppo”Sei un incanto!”, troppo “Che piacere rivederti!”.

Il suo mazzo di fiori, peonie, gerbere, lillà e bocche di leone, buttato su un tavolo insieme ai regali, che presto ne avevano martoriato i petali, tutte quelle persone che non stavano ferme un attimo, con un bicchiere in una mano e un piattino nell’altra. Solo lei, aveva preso un fiore di zucca con un tovagliolino e lo aveva mangiato. Si era sentita fuori posto. La barca di suo marito era troppo piccola, sua figlia non era abbastanza bionda, suo nipote ancora non parlava e lei, non poteva sfoggiare un, seppur piccolo, successo patinato.

Aveva sorriso e ascoltato, osservato e invidiato. La perfezione dell’arredo, l’equilibrio dei colori, le piante sulla terrazza, rigogliose e fiorite. Poi, il temporale. Tutte in casa! Le finestre accostate, i tuoni e la torta, portata su un carrello, dalla colf più triste del mondo, tra applausi e baci.

Un pomeriggio buttato.

Mise in moto la macchina, pensando alla torta che, in fondo, non era stata granché.


Foto da Unsplash

Non torno più

Quel giorno Anna si aspettava il solito, la sequenza di impegni che da quattro anni cadenzavano la sua vita.

Il secondo figlio era arrivato, col suo profumo di buono, con quel carico di fatica che già conosceva e che svaniva appena lui accennava un sorriso. Erano figli che aveva voluto, che aveva imparato ad amare anche razionalmente, perché l’istinto a volte non era sufficiente. Aveva dovuto ammettere a se stessa che il pragmatismo, l’accettazione dell’imperfezione, dei vestiti che avevano ricominciato ad emanare effluvi di rigurgiti, delle occhiaie impermeabili a qualsiasi trucco, facevano parte del pacchetto. Un pacchetto unico, misterioso, visceralmente connesso ad ogni sua decisione.

Sparite le sere placide sul divano, dissolti lentamente gli incontri con il gruppo storico di amici.

La famiglia, una forza devastante. Ma non per sempre.

Basta saper attendere. Basta essere adulti.

Quel giorno Anna si aspettava il solito.

Dopo aver chiuso la conversazione al telefono con suo marito, era rimasta in piedi, davanti alla finestra, fissando i pini marittimi svettare nel cielo statico, come una cartolina:“Baci da Roma”.

Guardava fuori, il più piccolo stava piangendo e il suo cuore era placidamente altrove.

  • Non torno più.

Il vento muoveva leggermente le pesanti chiome degli alberi, si notava appena.

  • Non torno più. Rimango qui, ho bisogno di allontanarmi. Non è la vita che volevoNon ci riesco.

Si voltò per prendere in braccio il suo ultimo cucciolo, aveva bisogno di lei. Bastava poco, bastava che sentisse il suo abbraccio o una bella dose di biberon.

Lui che come ogni giorno era uscito di casa, come se nulla fosse, come sempre.

  • Non torno più.

Lui che non era venuto in sala parto, lui che nelle prime foto fatte insieme al piccolo, sembrava un vecchietto, grigio, spento, assente, come se tenesse in braccio la borsa della spesa. Lui che si era lentamente, progressivamente appannato, che stava svanendo.

Lei si era accorta dei segnali, aveva osservato quel vuoto diventare voragine. Ma non aveva fatto niente. Cosa avrebbe potuto fare? Aveva due figli, non tre.

  • Non torno più.

Ma non c’eri già più.

Ora, no.

“Vuoi che venga da te? Salto in macchina e arrivo!”

Dall’altro capo del telefono, da circa venti minuti, la sua amica stava piangendo, singhiozzando, biascicando di tradimenti. Aveva scoperto dei messaggi inequivocabili, sul telefono di suo marito.

“Senti, non trarre conclusioni affrettate…” (Guardò l’ora)

Pessima risposta. Un fiume in piena di improperi e certezze, riempì l’auricolare. (Lo stomaco brontolò)

“Sono qui, ti sto ascoltando.”(Aprì il pensile: riso, no, pennette)

Così venne a conoscenza di dettagli intimi non richiesti, di debolezze e mancanze difficili da tollerare. (Prese le pentole)

“Scusami, se sei sicura, se mi stai dicendo che hai le prove, allora aspetta, calmati e, quando arriva, gli chiedi spiegazioni. Se ne ha. Ne deve avere.”

Altra valanga di insulti. A lui. ( Aggiunse al pomodoro, le olive verdi, quelle taggiasche, poco sale e pepe)

“Perché non vieni tu qui da me? Così ti sposti da quell’appartamento, ti rilassi e valuti con più freddezza come comportarti. O se preferisci, piangi finché ne hai voglia. Sono qui. Ci sei?” (I capperi, si era dimenticata i capperi)

Sente una voce, quella del marito sicuramente. Era tornato. (L’acqua bolle) I toni stanno cambiando, le voci si fanno concitate, qualche urlo. (Butta il sale nell’acqua) Rimane ferma davanti alla pentola, col sugo che borbotta, il vapore che riempie la cucina, le orecchie che stanno cercando di decifrare una conversazione lontana, confusa, interrotta. E cade la linea.

Guarda il telefono, butta la pasta e mescola. Aspetta.

(Il sugo si sta attaccando) Lo schermo del telefono diventa nero, mentre sta immaginandosi cosa sta succedendo. Non può farci niente. (Mescola il sugo) Si versa un bicchiere di vino, sa che prima o poi lei la richiamerà.

Spengo il telefono? Almeno finché ho finito di mangiare. (Versa la pasta condita nel piatto)

Maledetto senso di colpa.

Un piatto fumante, appetitoso, un film che l’aspetta. (Telefono. Spegne)


FOTO da UNSPLASH