Domani.

Piovigginava, ma non importava. Anche oggi sapeva che l’avrebbe vista.

E infatti, sotto la pensilina gremita, quasi nell’angolo, la vide. Lei, emanava bellezza.

Era amore. Era amore? Di sicuro lui era rimasto incantato la prima volta, come un ragazzino rapito, inebetito. Aveva incrociato i suoi occhi ed era rimasto impietrito. Saranno stati i suoi capelli che, mossi da un vento fastidioso, si muovevano in una danza che non poteva essere di questo mondo?

Una Medusa caduta da qualche cielo, una visione che pensava sarebbe sparita da un momento all’altro. Anche oggi proprio non riusciva a distogliere lo sguardo da quella grazia che si cibava di luce, non emanava, assorbiva.

Parlarle? Quanto avrebbe voluto, ma temeva che le parole avrebbero rovinato tutto. Le parole rovinano sempre tante cose e appaiono anche le menzogne. Niente da fare. Gli bastava guardare quella figura che, se non fosse stato per quella luce di cui era impregnata, sarebbe stata inghiottita dalle persone intorno.

Non era sesso, era estasi. La delicatezza del collo che scivolava tra le scapole e i suoi movimenti, una grazia fluente. Esisteva? Per lui?

L’autobus era arrivato riempendo l’aria di rumori e vociare. Lei salì come ogni giorno, divorata da quel grosso, sporco e immenso ammasso di ferro e carne, che ripartì con un ruggito stonato, faticando.

Lo vide allontanarsi tra il traffico, ricolmo e stanco, come un coccodrillo che ha appena ingurgitato le prede. Ma lei domani sarà ancora qui, lei non la puoi inghiottire. Lei è pura luce, forse amore, e diventerà una storia. La mia storia.

A domani.


foto da unsplash

OLODUMARE

Lei sembrava lontana, era solo andata sul balcone ma era altrove. La sottoveste sul corpo esile, il vento leggero che la muoveva appena, come poggiata su una scultura in radica, la spallina un pò scesa sulla spalla tornita, la luce dell’alba. Era giovane, quanto era giovane.

Lui, guardandosi allo specchio, si vide vecchio, per la prima volta.

Chiuse gli occhi cercando di ricordare i colori, gli odori, i suoni, tutte le sensazioni lasciate là, lontano, non appena l’isola era scomparsa dalla vista dell’oblò dell’aereo. Ed era con lei, seduta vicino, col suo vestitino leggero, un sorriso immenso e le lunghe dita della mano che si attorcigliavano alle sue.

Continuò ad osservare l’immagine del profilo di lei, così perfetto, quelle labbra dolci e quegli occhi che avevano perso la profondità. Illusione. Un malessere si stava insinuando come una mala erba, che cresce giorno dopo giorno, infesta e soffoca. Aveva cercato nel nero dei suoi occhi, ora vischioso e impenetrabile, lo scintillio in cui si era riflesso quando si erano incontrati, in quel locale che mai avrebbe trovato da solo.

I suoi due amici lo avevano condotto in un luogo che forse non esisteva, un salto nel passato, come se fosse entrato nel set di un film anni ’50. Pareti rosa antico scolorate e un pò scrostate, fili di luci appese qua e là, tavolini tondi, sovrastati dal fumo di sigari e sigarette forti che lasciavano intravedere le camicie a righe, con le maniche arrotolate, scarpe eleganti consunte, gambe affusolate e lucenti che si muovevano piano, dondolando al ritmo della musica. Due figure erano appoggiate al davanzale di una finestra, tra tende leggere e troppo lunghe, altri, erano seduti sugli scalini antichi di quella che doveva essere l’entrata di un salone, diventato ora palcoscenico. E la musica, un pianoforte sotto le dita impazzite di un musicista sudato e assorto, dai denti bianchi come i tasti, la voce di lei che era ovunque, catturava, stregava.

Il suo cuore aveva cominciato a battere come i tamburi dei santeros, il sangue palpitava fino alle tempie, arrivò a pensare che gli avessero messo un pò di peiote nel drink. Perché non era da lui perdere così il controllo, rimanere folgorato alla vista di una ragazza, balbettare ed essere imbarazzato. Eppure era successo, nessun appiglio alla ragione, nessun consiglio o avvertimento lo avevano distolto da quel periodo vissuto con lei, fatto di momenti, visceralmente desiderato, carnalmente avido eppure limpido. Le stesse mani che strappavano chele di aragosta sulla spiaggia, ancora bollenti, lasciando colare umori, e che bagnate dall’acqua di mare, scivolavano come meduse cercando di accarezzarla tutta, di afferrarla senza poterlo fare. Una magia, un sortilegio, Olodumare lo aveva imprigionato, incatenato, lui, schiavo senza colpa.

Lei si girò, il sole stava sorgendo proprio dietro e, camminando piano, cominciò a cantare, lieve come un fantasma, poggiando i piedi scalzi sulle maioliche.

Vanagloria

P: “Vanagloria. Cosa significa?” Chiese il professore.

P: ” Cercate di non darmi definizioni scontate, cercate di usare le vostre esperienze, l’immaginazione.”

Vanità, autocompiacimento, presunzione, fatuo orgoglio, superbia, megalomania, esibizionismo…

Fioccarono le risposte, prima piano, poi come una valanga improvvisa e incontrollabile. Li lasciò sfogarsi, nella ricerca della definizione più appropriata o originale, tra i ricordi di quanto letto, studiato o ascoltato in qualche video.

P: “L’ambizione, può essere vanagloria? Chi è diventato famoso, rientra in questa categoria?”

Occhi fissi, telefonini sotto i libri, bocche che, semiaperte, hanno tanto da dire ma proprio non riescono ad articolare una risposta semplice.

P: “Pensate ai vostri idoli, ai personaggi che ammirate… Peccano di vanagloria?”

S: ” Beh… no. Sono arrivati perché hanno avuto l’intelligenza, il fiuto, la prontezza e anche la furbizia di fare la cosa giusta al momento giusto…”

P: “E la preparazione? L’impegno? La cultura?”

S: “Certo, servono, ma non sempre.”

P: ” Non sempre. Perché?”

S: “Perché oggi devi esistere, devono già conoscerti, poi, il resto arriva.”

Finita la lezione, si cambia classe.

P: “O Capitano, mio Capitano!”.

Il professore pensò a Whitman e al film, l’Attimo fuggente, che spronava i ragazzi a vivere per sé stessi, ad inseguire i propri sogni, e che, alla fine, esistere, significava essere.

Prima di uscire, osservò i ragazzi, teste basse sugli schermi, scrollavano le immagini velocemente. Tutto e subito, non importa se è vanagloria.


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Rave party

Hai aperto gli occhi, almeno uno. La guancia ti fa male e hai la bocca impastata. La tua testa, appoggiata sulla pancia della tua amica, per terra, su quello che resta di un prato ormai secco. La luce ti ferisce, l’odore che permea l’aria è un misto tra copertoni bruciati e sporco. Ti siedi a fatica e guardi intorno a te, spostando qualche bottiglia di birra vuota. Ti senti intontita, le orecchie ovattate, tiri su col naso e cerchi di respirare.

Che ore saranno?

Guardi la tua amica che intanto si è spostata su un fianco.

Acqua, vorresti dell’acqua.

C’è un po’ di gente intorno, qualcuno seduto, altri in piedi che parlano. Eppure ieri sera è stato bello. Ti sembra. Ti alzi a fatica e lentamente cammini verso il capannone, non te lo ricordavi così lontano. Dovrà pure esserci dell’acqua. Appoggiati qua e là, gruppetti di ragazzi, ancora biascicano e ridono. All’interno del capannone, solo disordine, vecchi divani ormai distrutti, ti sembra di vedere le molle che ballano, sbucando dal tessuto rosa, come se volessero andare via.

Il rave è finito, l’aria è ancora carica di odori, elettricità.

La luce filtra da qualche fessura delle lamiere e disegna coni polverosi fino a terra, illuminando tondi sul terreno, cosparso di detriti, carta, brillantini. Illuminano anche una felpa, abbandonata su una sedia, come fosse in attesa del proprietario, da un momento all’altro. Vernice mista a ruggine decora l’interno, ora la vedi bene, nella notte non era così. Nella notte, era solo un magma di energia, musica, urla, figure che saltavano, luci che rimbalzavano ovunque.

Nella notte, era, altrove.

Quando eravate nel mezzo, quando anche voi due saltavate e sentivate il cuore andare a ritmo, i bassi tuonarvi nelle vene, inutile cercare di parlare, non eravate là per quello. Le urla che uscivano e non sentivate, quella sensazione strana di non avere voce. Lasciarsi andare, diventare musica, energia.

Urti qualcosa e ti accorgi che è una persona, un ragazzo. Dorme? Lo scuoti un po’ e si lamenta, arriva una ragazza e ti spinge via.

Calma, stai calma! Voi due non state bene.

Intanto, di acqua, nemmeno l’idea. Forse là in fondo, sembra un lavandino. L’odore è davvero tremendo, vomito e feci umane un po’ ovunque, squallore vero, ma hai bisogno di bere. E ci arrivi al lavandino, che poi è più una vasca in metallo, sporca e piena di pezzi di specchio. Hanno rotto anche quello. Il tuo viso riflesso da quei frammenti si moltiplica, mentre cerchi di aprire quel maledetto rubinetto. E scende un rivolo d’acqua, denso come sangue, come una ferita aperta.

E vomiti.


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