E.

Era seduta ad un tavolino del suo vecchio bar, all’interno, aspettando un caffè. Osservava le altre persone sedute, quasi tutte in coppia, a parte una anziana signora che stava mangiando un piatto di pasta, sicuramente precotto, con davanti un bicchiere di soda, un panino e un giornale piegato. Le si avvicinò qualcuno per prendere il giornale e lei alzò a malapena la testa.

Era tornata, dopo tanto tempo, nella città in cui aveva vissuto molti anni prima, e cercava di riconoscere qualcuno tra i vari clienti che entravano e uscivano, si scambiavano battute con la sicurezza di chi è nel suo territorio. Lei, non lo era più, avvertiva una strana sensazione, l’impaccio dei ricordi che non trovavano una collocazione in quello spazio. Sicuramente erano cambiati tutti, cresciuti, sposati, ingrassati, mentre lei, credeva non tanto di essere immutata ma riconoscibile. A quanto pare, no.

Arrivò il caffè, portato da un ragazzo sorridente, il figlio della proprietaria, Sofia. Avevano scambiato qualche parola, lei e Sofia, perché appena entrata si era presentata, le aveva chiesto se si ricordava di quando andavano a giocare a pallacanestro insieme. In quel momento il bar era deserto e aveva potuto fare domande, quella sorta di impacciato dialogo che cerca di riconnettere due anime scollegate. Pochi minuti di reciproche confessioni sui sogni e le speranze da ragazze, aneddoti esplosi dal nulla che riallacciavano flashback nella memoria. Poi, era scivolata di nuovo nel presente e, mentre entravano i clienti, si era accomodata ad un tavolino vicino alla vetrata. Non era più parte di quell’ambiente che trasudava memorie a lei sconosciute, come le foto appese alla parete di lato, tra premi per il miglior cocktail e ritagli di giornale con le foto di Sofia, sua madre e suo figlio. Sul bancone c’era una statuina del Cappellaio Matto di Alice nel Paese delle Meraviglia.

Si voltò verso la strada e vide passare un uomo di mezz’età, stempiato e con un po’ di pancia. Portava un borsello a tracolla e andava veloce, da solo. Si fermò di colpo e, tra vari movimenti senza senso, si aggiustò i capelli. Quel gesto, quel gesto la riportò indietro di trent’anni e l’immagine di Edoardo, un ragazzo insicuro, solitario e considerato geniale, si sovrappose all’uomo. Lo seguì con lo sguardo mentre spariva dietro ad una curva. Deglutì con amarezza, sentì quasi dolore. Era lui, ne era certa. Quando se ne era andata, quel ragazzo era appena entrato in depressione. La madre rimasta vedova che si era completamente appoggiata a lui, la ragazza che lo aveva lasciato e lo studio che lo assorbiva completamente, lo avevano sicuramente sbriciolato in un esaurimento molto forte. A quanto pare, le aspettative enormi che avevano riposto in lui e il suo brillante cervello, si erano annientate nella solitudine. La sua bussola interiore si era spenta.

Quella sera avrebbe rivisto i suoi compagni di liceo, aveva ceduto alla curiosità anche se inizialmente l’idea non le era piaciuta molto. Guardò il Cappellaio Matto, sul bancone del bar, e pensò che avrebbe detto: “Il segreto, miei cari, è di circondarsi di persone che ti facciano ridere il cuore.”

Rimase a fissare la tazzina, i fondi del caffè che creavano disegni sui lati e le sembrò di vedere una E.

Dolcezza

La giornata stava per terminare quando entrò nel supermercato. Non cercava nulla di particolare, giusto un po’ di prosciutto da mettere sotto i denti.

Si aggirava tra le corsie con una leggerezza che solo i single dal cuore spezzato possono avere. Si fermò davanti al banco del salumiere, attirato dal profumo penetrante del prosciutto crudo che si mescolava con quello del formaggio stagionato.

Incredibile come certi aromi si mescolino in un’armonia spontanea.

Si fermò ad osservare la distesa di cibi pronti, le vaschette ripiene di intingoli, qualcuna dai colori poco invitanti, ma tutto era sistemato come in un dipinto, quasi in prospettiva. C’era stata sicuramente una ricerca alla base, niente era dato al caso. Distolse lo sguardo per non essere rapito da quell’ammasso di cibo e gli occhi si fermarono sul vetro del banco. E lì, su quel vetro brillante, sotto il neon del negozio, vide riflessa una ragazza. Le mani. Le sue mani.

Le dita lunghe e sottili come strumenti d’arte, e le unghie lunghe e levigate che somigliavano a conchiglie appena sbiancate dal mare. Una combinazione di grazia e forza che lo colpì, una poesia di carni delicate e vellutate. Non riusciva a staccare gli occhi dalle sue mani. Era convinto che, se avesse avuto il coraggio di guardarle abbastanza a lungo, avrebbe scoperto un intero universo tra quelle dita.

E gli apparve l’immagine di una lunga spiaggia assolata. Il sole caldo, ma non troppo, il vento che le scompigliava i capelli, quelle mani che accarezzavano le onde, le lunghe dita che sfioravano la sabbia sulla riva, mentre lui si sentiva più in forma che mai, come se i venti marini avessero magicamente aperto la sua mente. Quelle mani gli stavano carezzando l’anima.

“Mi scusi,” le chiese con una voce che suonava più come una preghiera, “ha mai pensato che, un giorno, quelle mani potrebbero raccogliere un cuore impazzito per loro?”

Lei lo guardò imbarazzata, prese il suo pacchettino e si allontanò.

Era tornato alla realtà, al freddo chiarore delle luci, in mezzo ad altre persone che non potevano lontanamente comprendere il suo viaggio immaginario in una storia d’amore completa di spiagge, onde e conchiglie. Venne scosso da un brivido, come un feticista deluso.

In fondo, quelle mani erano state solo una scusa per sognare un po’ di dolcezza, nel suo mondo.

“Dica dottò!”

Assolo e outro

Sei proprio bella. Non riesco a pensare ad altro. Il cameriere si avvicina con i primi piatti, sta parlando ma sono frastornato. Mia moglie sta sorridendo, ha appena detto che le piace il servizio, sembra felice. Io sorrido e affondo la forchetta nei tagliolini, li attorciglio, li attorciglio, li attorciglio. Poi mi fermo perché, in effetti, sto creando una palla compatta, come lo zucchero filato su un bastoncino. Colpetto di tosse e un goccio di vino. Cerco di scambiare qualche parola con mia moglie, le chiedo se vuole assaggiare quello che ho ordinato. Ma il mio sguardo, tutto di me, ti sta fissando. Sei proprio una visione. I tuoi capelli si muovono scivolando sulla schiena, li sposti con la mano delicata, dalle dita lunghe, dietro l’orecchio. Mi sembra di sentire il tuo profumo arrivare fino a me, come un sortilegio. Sono certo di averti già vista, sicuramente immaginata. Non sento la tua voce, vorrei sentirti parlare, ma siamo lontani. Il tuo compagno ( è tuo marito?), sta guardando il telefonino. Ma come si fa? Come può staccare gli occhi da te? Io non ci riesco. E bevo. Verso del vino a mia moglie che sta parlando di ferie, suoceri, nostro figlio che ancora non ha deciso cosa fare della sua vita. E se adesso venissi da te? Se ti prendessi per mano e ti portassi via? Mi hai guardato! I tuoi occhi sono rimasti nei miei per un attimo. Ci provo, io ci provo. Quella cosa delle telepatia mi ha sempre affascinato e ora, ci provo. Mi concentro. Cameriere e nuovi piatti. “Non li toccate perché sono caldissimi.” Sentisse le mie mani! Sono in fiamme, ho lo stomaco chiuso, no, chiuso no, infatti sto mangiando. Mastico, più che altro. Sarà un colpo di fulmine? Mai successo prima. Mia moglie sta chiedendo se sto bene, perché sono tutto rosso. “Andropausa?” “Ma cosa ti viene in mente. Sarà stato il vino.” Prendo la bottiglia e gliela mostro, 13 gradi e mezzo. “Visto?” Mi giro e non ci sei più. Al tuo tavolo, tuo marito sta aspettando, digitando sul telefono. Sei andata in bagno? “Scusami cara, vado un attimo in bagno.” Mi risponde, mia moglie mi risponde ma non sento, anzi, sento solo il mio cuore che sta martellando battiti. Cammino quasi al suo ritmo, veloce, cercando con lo sguardo i bagni. “Sono là dietro a destra”. Là dietro, a destra. Schivo i tavoli, attraverso una palude di parole che si accavallano in un mostruoso sottofondo, giro a destra e mi fermo. Dietro la paratia che nasconde la sala, davanti alle porte con le sagome di una signora e un signore, aspetto. Cosa farò quando uscirai? E la porta delle signore si apre. Sei tu. Sei tu? Una ragazza un pò in carne, non troppo alta, dai seni formosi che riflettono la luce dei faretti. Mi guardi ma non mi vedi. “Mi scusi.” E mi aggiri. Quel mi scusi mi ha gelato. Ma che razza di voce hai? Dura, grave, e in sintonia con i polpacci da terzino. Perfino le tue mani mi sembrano diverse, lunghe ma per niente delicate, con le unghie lunghe e affilate. Sono deluso, sì, sono amaramente deluso, mi sento fraudato. Dov’é il mio sogno? Dov’è? Spingo la porta del bagno dei signori e mi fermo davanti allo specchio. Ma guardati! Sei un sognatore, sei un romantico sognatore! Esce un uomo da una toilette e mi sembra il caso di affrettarmi ad uscire. Non si va in toilette se ci sono gli orinatoi a muro, a meno di avere qualche emergenza che non voglio nemmeno soffermarmi a pensare. Mi sorpassa, senza neanche lavarsi le mani ed esce. Ma che schifo, che schifo di mondo. Che schifo di serata.

Boccascena e il mantello d’Arlecchino

Persa. Non provava altra sensazione. Pensandoci meglio, si sentiva anche oppressa, claustrofobica, come rinchiusa in un bunker grigio, con le fredde luci dei neon. Era davanti allo specchio, chiudendo un occhio alla volta, fissando l’iride. Le sembrava che una fosse più chiara dell’altra. Immaginazione. Forse un po’ di strabismo di Venere. Sensuale. Si perse tra le pagliuzze ocra che, diventando immense, la ingoiavano e la risputavano inevitabilmente sul freddo vetro. Persa.

Era invidia. La sua, aveva qualche screziatura gialla. Persa.

Quanto avrebbe voluto provare invidia buona, semplice ammirazione, ma non esiste l’invidia buona. E rise amaramente, pensando a chi si barrica dietro alle parole e cerca uno scudo per proteggersi dalla verità. Bruciava, eccome, avere perso. Una bella colata di acido proprio nello stomaco, lenta e crudele.

L’invidia è la carie delle ossa, ne puoi sentire l’odore, immaginare il colore imputridito, sapendo che è lì, insolente. É uno dei sette vizi capitali, mica fuffa, una dichiarazione di inferiorità, comprovata dal fallimento personale. Ed io, ho fallito.

Persa.

Che altro avrebbe potuto fare? Raccomandazioni, cena e annessi con uno dei giurati, si era perfino fatta la mastoplastica riduttiva e ritocchini vari su indicazioni del suo agente. Ma non era bastato.

Che altro volete? Ditemelo? Il talento c’è, lo so che c’è, quindi? Cosa mi manca? Perché non io?

Un conato di vomito la piegò sulla tazza del WC, spruzzando aceto e bile ovunque. La pelle si stava squamando, bastava toccarla e perdeva piccole scaglie luminescenti.

Più magra di così? Lo posso fare. Certo che posso.

Si asciugò la bocca e andò in cucina scrollando i video sul cellulare. Prese un bicchiere e lo riempì d’aceto, bevendolo tutto d’un fiato. Quasi non sentiva le budella contorcersi mentre osservava le altre, quelle che erano state prese.

Lacrime acide, collose e minuscole, le scesero sul viso e lì, rimasero.

Arrivare.

Questa volta, andare al lavoro non avrebbe avuto il solito saporaccio amaro, stomachevole. Non avrebbe dovuto, come sempre fino ad allora, ingoiare spinose battute, vomitare grasse risate di circostanza, staccare con pazienza filamenti di false lusinghe. No, quel giorno se lo aspettava lieve, senza nessuna afflizione, e che scivolasse come un’ostrica in gola.

Contemplò il nuovo ufficio, la targhetta all’esterno col suo nome. Il SUO nome. Il cuore pulsava una marcia trionfale, le sembrava anche di essere più alta.

<Congratulazioni!>

Vibrazioni negative, dietro di lei. Ma, voltandosi, dalla sua nuova altezza, le parve di vedere quella che un tempo era stata una collega. Le pareva più brutta, e anche un po’ sciatta.

Ringraziò sorridendo e, sentendosi come Alice che aveva appena bevuto dalla bottiglietta, le sembrò di diventare enorme, rimanendo a fissare quella figura che velocemente rimpiccioliva sotto di lei.

Strani scherzi della mente. Mania di grandezza? Narcisismo esplosivo? Fece una spaventosa frenata col cuore.

Entrando nel SUO ufficio fu colta da una sorta di senso di colpa, accompagnato da una gelida solitudine. “La solitudine del leader “, sussurrò.

Tutto, là dentro, dalla scrivania al tavolo tondo con quattro sedie, parlava di nuove responsabilità, di risultati attesi. Ma non doveva sentirsi raggiante?

Non sapeva ancora come giudicare le sue reazioni.

Prima male, poi bene, poi accese il computer.

Domani.

Piovigginava, ma non importava. Anche oggi sapeva che l’avrebbe vista.

E infatti, sotto la pensilina gremita, quasi nell’angolo, la vide. Lei, emanava bellezza.

Era amore. Era amore? Di sicuro lui era rimasto incantato la prima volta, come un ragazzino rapito, inebetito. Aveva incrociato i suoi occhi ed era rimasto impietrito. Saranno stati i suoi capelli che, mossi da un vento fastidioso, si muovevano in una danza che non poteva essere di questo mondo?

Una Medusa caduta da qualche cielo, una visione che pensava sarebbe sparita da un momento all’altro. Anche oggi proprio non riusciva a distogliere lo sguardo da quella grazia che si cibava di luce, non emanava, assorbiva.

Parlarle? Quanto avrebbe voluto, ma temeva che le parole avrebbero rovinato tutto. Le parole rovinano sempre tante cose e appaiono anche le menzogne. Niente da fare. Gli bastava guardare quella figura che, se non fosse stato per quella luce di cui era impregnata, sarebbe stata inghiottita dalle persone intorno.

Non era sesso, era estasi. La delicatezza del collo che scivolava tra le scapole e i suoi movimenti, una grazia fluente. Esisteva? Per lui?

L’autobus era arrivato riempendo l’aria di rumori e vociare. Lei salì come ogni giorno, divorata da quel grosso, sporco e immenso ammasso di ferro e carne, che ripartì con un ruggito stonato, faticando.

Lo vide allontanarsi tra il traffico, ricolmo e stanco, come un coccodrillo che ha appena ingurgitato le prede. Ma lei domani sarà ancora qui, lei non la puoi inghiottire. Lei è pura luce, forse amore, e diventerà una storia. La mia storia.

A domani.


foto da unsplash

OLODUMARE

Lei sembrava lontana, era solo andata sul balcone ma era altrove. La sottoveste sul corpo esile, il vento leggero che la muoveva appena, come poggiata su una scultura in radica, la spallina un pò scesa sulla spalla tornita, la luce dell’alba. Era giovane, quanto era giovane.

Lui, guardandosi allo specchio, si vide vecchio, per la prima volta.

Chiuse gli occhi cercando di ricordare i colori, gli odori, i suoni, tutte le sensazioni lasciate là, lontano, non appena l’isola era scomparsa dalla vista dell’oblò dell’aereo. Ed era con lei, seduta vicino, col suo vestitino leggero, un sorriso immenso e le lunghe dita della mano che si attorcigliavano alle sue.

Continuò ad osservare l’immagine del profilo di lei, così perfetto, quelle labbra dolci e quegli occhi che avevano perso la profondità. Illusione. Un malessere si stava insinuando come una mala erba, che cresce giorno dopo giorno, infesta e soffoca. Aveva cercato nel nero dei suoi occhi, ora vischioso e impenetrabile, lo scintillio in cui si era riflesso quando si erano incontrati, in quel locale che mai avrebbe trovato da solo.

I suoi due amici lo avevano condotto in un luogo che forse non esisteva, un salto nel passato, come se fosse entrato nel set di un film anni ’50. Pareti rosa antico scolorate e un pò scrostate, fili di luci appese qua e là, tavolini tondi, sovrastati dal fumo di sigari e sigarette forti che lasciavano intravedere le camicie a righe, con le maniche arrotolate, scarpe eleganti consunte, gambe affusolate e lucenti che si muovevano piano, dondolando al ritmo della musica. Due figure erano appoggiate al davanzale di una finestra, tra tende leggere e troppo lunghe, altri, erano seduti sugli scalini antichi di quella che doveva essere l’entrata di un salone, diventato ora palcoscenico. E la musica, un pianoforte sotto le dita impazzite di un musicista sudato e assorto, dai denti bianchi come i tasti, la voce di lei che era ovunque, catturava, stregava.

Il suo cuore aveva cominciato a battere come i tamburi dei santeros, il sangue palpitava fino alle tempie, arrivò a pensare che gli avessero messo un pò di peiote nel drink. Perché non era da lui perdere così il controllo, rimanere folgorato alla vista di una ragazza, balbettare ed essere imbarazzato. Eppure era successo, nessun appiglio alla ragione, nessun consiglio o avvertimento lo avevano distolto da quel periodo vissuto con lei, fatto di momenti, visceralmente desiderato, carnalmente avido eppure limpido. Le stesse mani che strappavano chele di aragosta sulla spiaggia, ancora bollenti, lasciando colare umori, e che bagnate dall’acqua di mare, scivolavano come meduse cercando di accarezzarla tutta, di afferrarla senza poterlo fare. Una magia, un sortilegio, Olodumare lo aveva imprigionato, incatenato, lui, schiavo senza colpa.

Lei si girò, il sole stava sorgendo proprio dietro e, camminando piano, cominciò a cantare, lieve come un fantasma, poggiando i piedi scalzi sulle maioliche.

Vanagloria

P: “Vanagloria. Cosa significa?” Chiese il professore.

P: ” Cercate di non darmi definizioni scontate, cercate di usare le vostre esperienze, l’immaginazione.”

Vanità, autocompiacimento, presunzione, fatuo orgoglio, superbia, megalomania, esibizionismo…

Fioccarono le risposte, prima piano, poi come una valanga improvvisa e incontrollabile. Li lasciò sfogarsi, nella ricerca della definizione più appropriata o originale, tra i ricordi di quanto letto, studiato o ascoltato in qualche video.

P: “L’ambizione, può essere vanagloria? Chi è diventato famoso, rientra in questa categoria?”

Occhi fissi, telefonini sotto i libri, bocche che, semiaperte, hanno tanto da dire ma proprio non riescono ad articolare una risposta semplice.

P: “Pensate ai vostri idoli, ai personaggi che ammirate… Peccano di vanagloria?”

S: ” Beh… no. Sono arrivati perché hanno avuto l’intelligenza, il fiuto, la prontezza e anche la furbizia di fare la cosa giusta al momento giusto…”

P: “E la preparazione? L’impegno? La cultura?”

S: “Certo, servono, ma non sempre.”

P: ” Non sempre. Perché?”

S: “Perché oggi devi esistere, devono già conoscerti, poi, il resto arriva.”

Finita la lezione, si cambia classe.

P: “O Capitano, mio Capitano!”.

Il professore pensò a Whitman e al film, l’Attimo fuggente, che spronava i ragazzi a vivere per sé stessi, ad inseguire i propri sogni, e che, alla fine, esistere, significava essere.

Prima di uscire, osservò i ragazzi, teste basse sugli schermi, scrollavano le immagini velocemente. Tutto e subito, non importa se è vanagloria.


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Rave party

Hai aperto gli occhi, almeno uno. La guancia ti fa male e hai la bocca impastata. La tua testa, appoggiata sulla pancia della tua amica, per terra, su quello che resta di un prato ormai secco. La luce ti ferisce, l’odore che permea l’aria è un misto tra copertoni bruciati e sporco. Ti siedi a fatica e guardi intorno a te, spostando qualche bottiglia di birra vuota. Ti senti intontita, le orecchie ovattate, tiri su col naso e cerchi di respirare.

Che ore saranno?

Guardi la tua amica che intanto si è spostata su un fianco.

Acqua, vorresti dell’acqua.

C’è un po’ di gente intorno, qualcuno seduto, altri in piedi che parlano. Eppure ieri sera è stato bello. Ti sembra. Ti alzi a fatica e lentamente cammini verso il capannone, non te lo ricordavi così lontano. Dovrà pure esserci dell’acqua. Appoggiati qua e là, gruppetti di ragazzi, ancora biascicano e ridono. All’interno del capannone, solo disordine, vecchi divani ormai distrutti, ti sembra di vedere le molle che ballano, sbucando dal tessuto rosa, come se volessero andare via.

Il rave è finito, l’aria è ancora carica di odori, elettricità.

La luce filtra da qualche fessura delle lamiere e disegna coni polverosi fino a terra, illuminando tondi sul terreno, cosparso di detriti, carta, brillantini. Illuminano anche una felpa, abbandonata su una sedia, come fosse in attesa del proprietario, da un momento all’altro. Vernice mista a ruggine decora l’interno, ora la vedi bene, nella notte non era così. Nella notte, era solo un magma di energia, musica, urla, figure che saltavano, luci che rimbalzavano ovunque.

Nella notte, era, altrove.

Quando eravate nel mezzo, quando anche voi due saltavate e sentivate il cuore andare a ritmo, i bassi tuonarvi nelle vene, inutile cercare di parlare, non eravate là per quello. Le urla che uscivano e non sentivate, quella sensazione strana di non avere voce. Lasciarsi andare, diventare musica, energia.

Urti qualcosa e ti accorgi che è una persona, un ragazzo. Dorme? Lo scuoti un po’ e si lamenta, arriva una ragazza e ti spinge via.

Calma, stai calma! Voi due non state bene.

Intanto, di acqua, nemmeno l’idea. Forse là in fondo, sembra un lavandino. L’odore è davvero tremendo, vomito e feci umane un po’ ovunque, squallore vero, ma hai bisogno di bere. E ci arrivi al lavandino, che poi è più una vasca in metallo, sporca e piena di pezzi di specchio. Hanno rotto anche quello. Il tuo viso riflesso da quei frammenti si moltiplica, mentre cerchi di aprire quel maledetto rubinetto. E scende un rivolo d’acqua, denso come sangue, come una ferita aperta.

E vomiti.


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