Il Potere dello 0 (zero)

Lo Zero significa anche niente o nulla. Nei numeri arabi, il vuoto.

Poi, arriva quel giorno, il giorno del Compleanno. Il giorno che, nei tuoi ricordi di bambina aspettavi e che, per qualche sorta di magia, si tramutava in un desiderio, nell’attesa della festa, dei regali. Quelle candeline spente con più di un soffio.

Ora, anzi, da parecchio, le candeline vengono condensate in due candeloni, due petardi orrendi, svettanti sulla torta che vedi arrivare in lontananza, come una minaccia. E basta un soffio per spegnere quell’incendio. Basta solo un soffio per proiettarti nell’anno che è già cominciato.

E va tutto bene. Tutto bene fino a che realizzi che dopo il 9 c’é lo ZERO. E QUELLO ZERO NON È IL NULLA.

Quello zero parla di decadi passate, segna il confine. Dopo gli enta arrivano gli anta, passaggio che implicherebbe una sana analisi non tanto su quello che si è fatto, quanto su quello che si farà o meno.

Del tipo che, volente o nolente, ascoltando il tuo fisico, comincerai a cambiare l’alimentazione e, osservando il tuo fisico, riporrai nell’armadio minigonne, pantaloncini striminziti e top minuscoli. Non tutte, ovviamente. Diciamo che, essendo propensa al buon gusto, ho i miei limiti.

Quell’ovale dopo i numeri che ti hanno accompagnato per nove anni, cambia tutto. Il tuo genetliaco ti fa capire quanto sia rapido l’inevitabile avvicinarsi del geriatrico.

Ergo, soffia, soffia via quei simboli e ricordati che in informatica é lo Zero il punto d’inizio, non l’uno.

Riparti da ZERO, più le decadi di cui sopra.

Buon 4…- 5… – 6… – 7… – 8… (0) antesimo Compleanno!

Che sia lieve, come una piuma.

Foto di daniele-levis-pelusi- Unsplash

#Agli uomini dagli occhi innamorati

Caro splendido uomo,

il tuo sorriso, le tue mani, quella camminata che riconoscerei anche nella maratona di New York, eccoti.

Eccoti arrivare, col passo veloce perché sei in ritardo, e ti ho visto ancora prima di averti vicino. Ti vedo mentre parli e poi ti scusi, ti vedo mentre mi prendi la mano e mi baci. Poi, mi baci ancora e mi guardi, con le pupille enormi, scure, quasi un’eclissi di sole che mi accarezza coi suoi lapilli.

Sono per me, lo so.

Ti vedo mentre mi chiedi com’è andata la giornata, poi ti fermi e mi dici: “Sei bellissima.”

Ed è solo amore.

Siamo in macchina, potremmo essere in una vallata del Tibet o in un gelido ruscello delle Dolomiti, nell’Oceano Indiano o su una spiaggia in Normandia. Siamo noi, qui e ovunque.

Vedi una signora un po’ corpulenta che aspetta alle strisce pedonali e ti fermi. Lei, con passo deciso, ti guarda con aria di sfida e attraversa.

“Prego signora, rotoli pure.”

E rido. Rido spesso con te, ridono i miei occhi.

Ma i tuoi occhi, i tuoi occhi che sono solo per me, hanno riempito l’abitacolo, la strada, il cielo. Sono nel mio cuore, tra un battito e l’altro.

Il tempo, non esiste. Il tempo, è per gli altri.

MUSUBI (gli incontri nella vita)

Leggo. Leggo molto. Mi piace. E mi piace anche curiosare sui Social, scrollare fino a che qualcosa non cattura la mia attenzione. Et voilà! Eccola, la signora che parla della missione che hanno le persone che incontriamo: insegnarci qualcosa. Bellissimo. Mi fermo.

E lei comincia. Incontriamo PERSONE SPECCHIO, PERSONE FINESTRE, PERSONE PORTE. Ed io già mi immagino una casa, mentre osservo quali porte, che specchi scegliere, se metterli o meno, e mi vedo osservare il mondo da grandi vetrate alla francese. Ma la signora sta partendo con la spiegazione e non me la perdo.

– LE PERSONE SPECCHIO, sono quelle che non sopportiamo, che tirano fuori il peggio di noi, ma si limitano, appunto, a rispecchiare le parti su cui dobbiamo lavorare, migliorare. Loro hanno la relazione, il lavoro che vorremo avere, fanno scelte che vorremmo fare. Una volta capito, quel tipo di persona sparirà dalla nostra vita. (E meno male. Siamo sicuri?)

– LE PERSONE FINESTRA, sono quelle che ci fanno vedere, appunto, le possibilità, fuori dalla comfort zone, MA non sono destinate a rimanere a lungo; (Ti pareva)

-LE PERSONE PORTA sono invece le migliori. (Non l’avrei mai detto). Sono quelle che rimangono nella vita perché rappresentano le porte che apriamo, quindi il coraggio, il meglio di noi.

Il racconto termina riassumendo che abbiamo più bisogno di PERSONE SPECCHIO, per migliorare e capire come superare i nostri limiti, lasciando così la strada aperta all’arrivo di PERSONE FINESTRE, che ci mostreranno come potrebbe essere la vita che vogliamo e, infine, appariranno le PERSONE PORTE, dal momento che avremo lavorato su noi stessi, cercando di superare i nostri limiti, volendoci bene, al punto da avere le chiavi per aprire quelle porte.

Mi piacciono questi paragoni che danno una lettura dei bisogni degli essere umani. Come nel MUSUBI, il nodo, in giapponese, storie che si incontrano, rapporti che si spezzano e si ricongiungono, il fluire della vita. Certo, siamo su TikTok, lontani da dissertazioni filosofiche come nel Fedro di Platone, non si affrontano tematiche che distinguono ciò che è bene da ciò che procura piacere, o domande metafisiche come “Perché l’essere, piuttosto che il nulla?”. Ma a parte la sottoscritta, l’età media dei visitatori è di 13/14 anni. Direi che va bene.

Ricapitolando, siamo in un condominio affollato, ognuno barricato nel suo appartamento, a scrutarsi nello specchio, spesso velocemente, lanciando rapide occhiate alla finestra, per lo più per vedere che tempo fa, e usciamo da casa, controllando di avere le chiavi, questo sì, ma della propria porta. Sigh! Anche il mio bambino interiore ha più di 14 anni.

foto di erik-eastman-7 da unsplash

Siddharta

Sei pronta? Quasi.

Fissando lo specchio, con quell’aria da “ti sei truccata troppo”, cerchi di modificare il… troppo. E cominci a togliere, prima con un batuffolo di cotone, poi con l’acqua micellare. Risultato? Un quadro astratto, misto tra Pollock e Gorky. No, non ci siamo, prima di passare alla paglietta di ferro, decidi di struccarti e basta.

Eccoti! Ma ciao! Ciao occhiaie e rughette, zigomi arrossati e labbra secche. Calma. Maschera lenitiva e un po’ di meditazione con respirazione, sul letto.

Ti rilassi, ma pensi. NON devi pensare! Lascia andare. Ma certo, adesso ci riesco.

Ma se cambio vestito? No, forse le scarpe, e anche la borsa. Gli accessori fanno la differenza.

NON pensare! Ok. Inspiro, espiro.

Cambio vestito, ho deciso. Quella tuta pantaloni svasata mi fa sembrare un elefante indiano, arancione. Gonna? Naaa, gambe troppo bianche, allora quel completo che avevo preso l’anno scorso. Se ci entro ancora.

STAI PENSANDO!

Va bene, stop alla meditazione, devo vestirmi. Ma prima, mi trucco un po’, poco, il giusto.

E sei davanti allo specchio, mentre ad occhi chiusi, asciughi quello che è rimasto della maschera. Ora va proprio bene.

Apri gli occhi e sulla pelle diafana, luminosa, noti un punto rosso, proprio tra gli occhi, in mezzo alla fronte. Pensi ad un riflesso dello specchio, ma no.

Eccolo in tutto il suo splendore, un brufolo, gigante.

Il tuo destino è compiuto.

La vita è imprevedibile e cerchi di non focalizzati sul problema, pensando alle Quattro Nobili Verità del Buddhismo:

dolore / accettazione / cessazione del dolore/ la via che porta alla cessazione del dolore.

Ecco, la via che ti farà ignorare quella piccola piramide rosso fuoco che ti sta sfidando: cerottino tondo, cosparso di brillantini. Il terzo occhio.

La tuta pantaloni arancione sarà perfetta.

foto di noah-buscher da unsplah

Anno 2018 -potrei non andar bene-

Bene, quest’anno va così, inutile pensare alle foto di spiagge puntellate da piedi accaldati o fissare immagini di acque più o meno cristalline, meta agognata dopo un inverno da lappone.  Siamo a luglio e siamo altrove. Un altrove dall’altra parte del globo dove, oltre a otto piacevoli ore di fuso, abbiamo anche il privilegio di continuare ad indossare i piumini. I love it.

Note climatiche a parte, stiamo testando una english full immersion molto specifica e mi sento la versione femminile di Doctor House. Alterno consulti medici con fantastiche passeggiate infinite e senza meta attraverso Sydney, riempio i pochi spazi liberi di queste giornate lasciando i miei pensieri liberi di passare dalla stupida analisi dei grassi contenuti in una apricot-danish al Tutto è bene quel che finisce bene di Shakespeare.

Great. Dovrei essere serena e invece mi agito al pensiero che “potrei non andare bene”, “… “you coudn’t be suitable for a kidney donation …”

Strana la vita, mai niente di facile, se escludiamo la mia naturale attitudine a fare una pasta e fagioli da urlo, quasi tutto il resto è stato frutto di impegno e dedizione, di vera fatica, un culo così.  Eppure di fenomeni che hanno raggiunto obiettivi lodevoli senza colpo ferire,  piccoli Re Mida dal tocco fatato, ne ho incontrati, di molti leggo i traguardi.

D’accordo avere le idee chiare, passi anche avere imbroccato la scorciatoia nel momento migliore o avere avuto il mentore che ti ha supportato, ma un po’ di sana giustizia in questo mondo?

Vado. Mi aspetta l’infermiera per l’esame scintigrafico con radioisotopo ai miei reni.

Vado sapendo che “potrei non andar bene“.

 

1, nessuno, 70.000

70.000. Ogni anno, in Italia, vengono pubblicati circa 70.000 romanzi.

Una miriade, una tempesta di parole, una folla di autori felici, spesso per la prima volta. Anch’io ho provato, anni fa, l’eccitazione nel vedere che un mio racconto era stato selezionato e pubblicato, salvo poi vedere che avevano sbagliato il cognome. Deve essere il Karma.

Era un concorso, nulla di importante, fuori dai percorsi che ti rendono parte di un mondo chiuso, dell’altra dimensione, quella degli scrittori. Ma insisti, e io, ho insistito. Poi arriva il momento in cui qualcuno ti chiede: “Perché lo stai facendo?” C’é sempre chi te lo chiede. Ma come? Sbaglio? Dimmi che sto sbagliando. Dimmi soprattutto perché.

Scrivo perché mi piace.

Da qualche anno spopolano Wattpad, Writober, e altri siti di pubblicazione che propongono, indicando fandom e prompt, sfide a colpi di tastiera e racconti brevi, ottime palestre di allenamento alla scrittura e da cui è emersa Erin Doom, pseudonimo della giovane autrice di un longseller da 700.000 copie, Fabbricante di lacrime.

Proprio nel momento in cui stavo valutando il crudele mondo del marketing editoriale “Sei in lingerie su TikTok? Hai più di diecimila followers su Facebook? É fatta. Devi ESISTERE- PRIMA di pubblicare. “, arriva lei.

Una supposta.

Ti fa sentire fuori tempo massimo, come l’Orient Express, nel tuo affascinante e lento viaggio, mentre sfrecciano i Falcon HTV 2. Nulla impedisce di accettare la sfida.

Nulla?

Leggere il foglietto illustrativo prima dell’uso.

Foto di Rodion-kutsaiev da UNSPLASH

AGI = Più intelligente dell’essere umano

Intelligenza artificiale. AGI, una IA ancora più intelligente.

Stephen Hawking , il celebre astrofisico, nel 2015 parlando delle opportunità legate agli studi sull’Intelligenza Artificiale, avvertiva anche dei pericoli: la prossima evoluzione avrebbe portato a risolvere i problemi tramite ragionamento autonomo, come per l’intelligenza umana, ma in meglio. Senza empatia, senza limiti o scrupoli.

Sempre nel 2015, arrivò a firmare un documento, insieme ad un migliaio di scienziati e imprenditori, sottolineando l’importanza del problema, sebbene la mission fosse :” Garantire che l’AGI sia a vantaggio dell’umanità.” (fonte )

Come vivete tutto questo? Curiosità, paura? É l’argomento di un mio romanzo, scritto durante la pandemia e pubblicato nel 2021.

La reingegnerizzazione dei processi è già in atto, anche per chi vuole scrivere. Basta pensare che molti utilizzavano ChatGTP, ed ora anche Contents.com, Deepl Write e… tanti altri che, in pochissimo tempo, ti sfornano articoli, racconti, favole e romanzi.

I primi passi verso la lobotomizzazione di massa, o per lo meno, della capacità di creare da soli.

Pare che il loro scopo iniziale fosse quello di aiutare nella riorganizzazione , di fornire tracce, come un professore virtuale, aiutando a risparmiare tempo, MA, proponendo soluzioni facili, testi pronti in un attimo, una sorta di scriba take away, dai risultati impressionanti, il rischio di leggere in futuro romanzi creati da un algoritmo è molto reale.

Forse, forse, lo stanno già facendo e uscirà… tra poco.

immagine di Pramod Tiwari

Habit loop

L'abitudine. L'habit loop, ovvero il rituale col quale si svolge un'abitudine, sta ad indicare la sequenza di bisogni che ne spiegano il funzionamento.

Sarà per questo che c'è chi si alza dal letto appoggiando sempre lo stesso piede, e chi segue, a volte maniacalmente, una sorta di check list mentale che trova rassicurante.

Scrivo questo mentre penso invece ai gesti meccanici che ogni giorno mi sollevano e mi lasciano libera di pensare ad altro. Non è alienante, è solo “svuotare il cestino”, fare spazio. A volte la monotonia è rassicurante, a volte.

Pablo Neruda ha scritto: " ...lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine... chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita, di fuggire ai consigli sensati.... chi non trova grazia in sé stesso."

E qui, siamo decisamente in una dimensione parallela che non si può relegare alla semplice abitudine. Siamo già nel rifiuto della routine che a volte non hai scelto ma che ti permette di sopravvivere. Siamo in coda sui raccordi anulari o nei supermercati. Siamo agli aperitivi del venerdì sera o al caffè del mercoledì con le amiche.

È così sottile la differenza tra desiderio e abitudine, così crudele il dover riconoscere a sé stessi che proprio non ti va, che prenderesti la prima uscita dal raccordo per andare al mare o che molleresti il carrello per andare a vedere quel ciliegio fiorito vicino al fiume.

Lo avete mai fatto? Non un colpo di testa ma qualcosa di fuori controllo, fuori schema, forte come uno schiaffone in viso, un brivido di adrenalina.

Sfidare il certo per l’incerto.

Appartengo alla generazione che aveva ancora delle certezze lavorative, e non è poco, ma ho cambiato, ho rischiato, ho abbandonato le rotaie rassicuranti per guardare altrove. Ho sofferto, gioito, vissuto.
Ecco, posso dire che ho vissuto.

Kintsugi per l’anima

Come nel Kintsugi, l’arte giapponese del riempire le crepe con l’oro, trasformando un oggetto rotto in qualcosa di prezioso, così, dopo tre anni, ricoperta da un’armatura di dolore, ho ripreso a scrivere, per colmare quei vuoti.

La pandemia mi ha strappato la parte più preziosa, l’amore.

So di non essere l’unica ovviamente, ma questo tipo di dolore si vive in solitudine, in silenzio, nella “depressione sorridente”. Ed è tristemente, atrocemente vero, la vita va avanti. La vita che vediamo in una pianta che sta fiorendo, in un pallone dimenticato sotto una panchina da qualche bambino, nel traffico che ci circonda, incurante delle nostre personali, intime e profonde sofferenze.

Eppure, tra le crepe dell’armatura che mi porto addosso, non ho smesso di guardare e ascoltare… gli altri.

Vi leggo, vi leggo spesso, forse non ho lasciato commenti ma ho preso forza anche da molti vostri articoli. Vi chiedo scusa se sono stata egoista ma ci vuole molta forza per ricominciare a camminare, un passo dietro l’altro. Un passo dietro l’altro.


✖︎ unknown error

L’uomo è salito in cima all’Everest e sceso in fondo all’oceano, ha lanciato razzi nello spazio, spaccato l’atomo, compiuto miracoli in ogni campo dell’attività umana (cit.007) MA, non è ancora riuscito ad evitare i REFUSI.

Perché ci tocca leggere refusi un po’ ovunque? Passi se li si trova nella lista della spesa della vicina  ottuagenaria ma non li trovo davvero giustificabili in magazine mensili, il cui stuolo di redattori, segretarie e correttori bozze, si presume servano a filtrare in più step di controllo quello che può sfuggire ad uno solo. Così, ad esempio, succede che quello che doveva essere il premio per i primi tre vincitori di un concorso letterario, cioè la pubblicazione del racconto, diventa una beffa se vengono pubblicati, nella suddetta rivista, i cognomi sbagliando una lettera e storpiandoli del tutto. Sapendo già che sarà forse possibile inserire un errata corrige “diciamo tra due mesi”, allora non resta che rimpiangere gli acronimi.

Una questione a parte è poi quella dei refusi non per distrazione ma per errore di battitura da triste ignoranza, colpa anche delle odiosissime correzioni automatiche che a volte ci fanno apparire come trogloditi, incapaci di scrivere frasi di senso compiuto, e delle famigerate sigle che impoveriscono sempre più il lessico: CVED(ci vediamo dopo), 10Q(Thank you), BBL (Be Back Later), C6?( Ci sei?), MDR (Morto dal ridere), TAT (Ti Amo Tanto), XK (Perché)…

Per scrivere, bisogna averne voglia e lasciarsi ipnotizzare dalla musicalità delle parole. Nulla contro il progresso e le novità, adooooro la potenza digitale, che però sviluppa sicuramente i muscoli lombricali della mano ma, se abusata, atrofizza l’intelletto e la vista.

EVIDIENTEMIENTE, LOL.

aevĭtas

Questa faccenda del diventare vecchi non mi piace per niente. ” I vecchi, sarebbe meglio ammazzarli da piccoli” diceva la mia nonna che, a 101 anni, ancora dava consigli ai nipoti.  Quindi, corazzata da cotanta saggezza, ho affrontato i passaggi da un decennio all’altro con la leggerezza che amo intravedere anche nelle persone un po’ “lost in translation”. Accuso spesso un eccesso di curiosità e non mi importa se avverto una stanchezza anomala che mi prende dopo pranzo, come un alligatore che ha divorato un bue, anche se mi sono concessa una veloce insalata. Non sarà per caso che la devo smettere di voler avere performance sportive da trentenne?  Se poi la vogliamo dire tutta, i momenti topici si raggiungono quando si entra in qualche negozio in cui la commessa piena di iniziativa, ti propone capi adatti a quella signora anziana che incontri ogni giorno sul pianerottolo e che aiuti con le buste della spesa. Al limite della querela per diffamazione. Sono giunta alla conclusione che parlare di età sia nefasto, avventurarsi nelle pericolosissime pieghe (non ho detto rughe) della mente che “cresce”, sia sconsigliato ai deboli di vita. Cara nonna, se ancora fossi qui, andremmo insieme a mangiarci un gelato, parlando di tua sorella che faceva teatro negli anni ’20 alla scandalosa età di quarant’anni, con il rossetto e i tacchi, nostrana Coco, affascinante eccentrica signora. Ecco da chi vorrei (spero di) aver preso…

Il primo passo verso una sana maturità postuma è la consapevolezza. E cambiare negozio.

#140 volte AnnA


Era da un po’ che girovagava tra i siti in cerca di idee. Era nato come passatempo, qualcosa per non restare fuori gioco, ormai avere un blog era come avere la patente. Si guardò allo specchio, forse il trucco era da ritoccare, la pettinatura non le piaceva e neanche come si era vestita. Com’era difficile creare qualcosa di diverso. Si alzò dalla scrivania e si accese una sigaretta andando verso la finestra. Rimase un po’ a guardare le gocce di pioggia cadere sul vetro e la sua immagine che si confondeva col riflesso delle luci del ristorante cinese, dall’altra parte della strada.

Non dormiva bene da un po’ di tempo e chattare era meno costoso delle benzodiazepine di sua madre. I followers erano in aumento, se ne erano aggiunti alcuni dal nome preoccupante:micatemordo, piùfigadite, mortochecammina,,, giunse alla conclusione che chiamarsi AnnA in fondo risultava originale. Le bastava pubblicare una foto dei suoi piedi con lo smalto appena fatto per venire retwettata centinaia di volte. I like si moltiplicavano se si era tagliata un dito.  Quella faccenda del Blue Whale l’aveva stomacata, cinquanta step autolesionisti da seguire come un malvagio estremo gioco dell’oca in cui nessuno vince. Guardò i retweet del suo ultimo post, poi guardò il tabacco fumante della sigaretta, accese il video e fissò lo schermo con la sigaretta in una mano, pronta a spegnarla sul dorso dell’altra.

Twittò: – Non trovavo il portacenere –  e postò il video.

Splash

L’acqua è fresca, ancora molto pulita perché è il primo giorno di apertura delle piscine. Mentre galleggio e guardo il cielo  penso alla sveglia presto per arrivare presto. Ma ora siamo qui, in mezzo al verde delle campagne emiliane, circondati da dolci colline, a mollo  come ragazzini di dieci anni, con gli occhiali che riflettono i raggi del sole e le foglie degli alberi. Allora perché mi pare di avvertire una minaccia? Sarà che ancora non mi sono rilassata del tutto, anche se  ho preso le mie precauzioni: abbiamo prenotato in un zona appartata, dove è vietato l’accesso ai minori di 12 anni. Là in fondo, dietro quel piccolo boschetto intravedo la piscina per i bimbi, con giochi d’acqua e tanto spazio.

Qui invece, la quiete regna sovrana. Gli adulti passeggiano  a piedi nudi sul bordo di legno della piscina, giacciono pigri sui lettini all’ombra di bianche tende e grandi ombrelloni. Quasi tutti leggono, qualcuno dorme, pochi chiacchierano. Noi nuotiamo lentamente, accarezzati dai raggi del sole ascoltando il rumore dell’acqua. Pausa. Che ne dici di un caffè? Why not. Ci avventuriamo verso uno dei bar, quello vicino ad un’altra area, con specchio d’acqua a imitazione caraibi sia per forma sia per colori. Impressionante. Mancano le palme. Siamo in emilia-romagna, meglio i ciliegi. Caffettino niente male ma in bicchierino di plastica, quindi da bere velocissimi per non ingoiare anche un po’ di polietilene. Facciamo una perlustrazione dell’area abbandonando la zona simil-tropico e la moltitudine di gente che si accalca per essere pied dans l’eau. Incontriamo nell’ordine, palestrati unti come spiedini pronti per la griglia, famigliole in pieno sole, con pranzo al sacco in enormi frigo da campo posizionati all’ombra, tutta la serie di emuli di Raul Casadei  e le post Vanna Marchi. Tanti, ma tanti, ma veramente tanti ragazzi e ragazze.

Torniamo alla “base” e, mentre in cuor mio esulto per la scelta fatta, mi pare di sentire dei fischi. E’ il bagnino. Appena superato il ponticello, proprio di fronte ai nostri lettini, quella che era una “zona protetta” aveva nel frattempo subito un attacco alieno. L’acqua bolliva, agitata come in balia di un Hurricane: tuffi a bomba senza pietà. Troppa gente, la migrazione in cerca di frescura aveva riempito anche quest’ultimo angolo.

“La felicità è come un treno senza orario: ne passa uno ogni tanto. Non puoi prevederne l’arrivo, né sapere quando ripartirà.Il tuo compito è andare in stazione.” P. Crepet

E’ stato bello.

Adieu.

 

Snob

Snob.

Ti siedi al tavolino di questo famoso bar di Roma e guardandoti intorno lentamente ti accomodi. Sei così bella, lo sai e sai che ti stanno guardando. Accanto a te, signore e signori più o meno famosi, di mezza età, stanno parlando tra loro e qualcuno lancia una fugace occhiata. I camerieri ti conoscono, non passi inosservata, anzi, direi che sei fin troppo visibile, quasi esagerata. Capelli vaporosi e tacchi alti, una maglietta così attillata da sembrare un tatuaggio. Ma non sei volgare, sicuramente appariscente, eccentrica, ma non ordinaria, indossi solo capi di qualità, abbinati con gusto. Un canuto ex politico si volta e ti fissa senza vergogna mentre tu ordini una coppa di gelato, precisando bene i gusti: cioccolato amaro, crema e marron glacé. Ignori quello sguardo insistente, stai aspettando qualcuno. Ora sì che sono curiosa, ho finito il mio caffè shakerato, sono all’ombra e tira una brezza deliziosa. Ti accendi una sigaretta, più per scena che per vizio, e aspetti. Arriva qualcuno, ma tira dritto. Poi, in un attimo, siamo circondati da un gruppo vociante di ragazzini, insegnanti e camerieri che mi tolgono la visuale. Accidenti, spostatevi, vi volete togliere di torno? Cos’è questo caos improvviso? Non è tollerabile, non in questa piazzetta, non oggi. Passano lenti i minuti, un bulldog inglese si accomoda sotto al mio tavolino per il caldo e comincia a sbavare. Odio questi cani quando sbavano. Una signora di fianco a me cinguetta ” Che dolce!”. Ecco, allora lo tenga sotto il suo di tavolino. Alzo lo sguardo e…lei non c’è più! COME? Non è possibile, la mia curiosità è destinata a restare insoddisfatta, a metà, come il mozzicone di sigaretta che ha lasciato nel portacenere, come il gelato sciolto nella coppa d’acciaio che ora brilla al sole.

E il bulldog continua a sbavare.

Il tubetto di dentifricio

E siamo qui. Ancora una volta. Io, te e il tappo del tubetto di dentifricio. Tutta questa punteggiatura serve come un mantra che mi aiuta a minimizzare quel piccolo moto di stizza che mi prende ogni volta che vedo la pasta biancastra del dentifricio formare arabeschi disegni sul lavabo. L’acqua scorre e anche oggi aspetto. Attendo paziente che tu termini, abbracciandoti alla vita da dietro. Poi tu mi sorridi, mi dai un bacio dolce sulla fronte e te ne vai. E io rimango a  guardarmi allo specchio, prima di spostare il mio sguardo verso il basso, là dove già so che, con insolenza, troverò a fissarmi IL Tappo. Proprio lui, con quella coroncina da sovrano, altezzoso e fermo sull’orlo, ben distante dal SUO tubetto di dentifricio.

Il Tappo è consapevole del suo potere racchiuso in pochi centimetri di plastica, sembra sfidarmi, e io, cavaliere senza corazza  in questa lotta impari, ignorandolo ancora una volta, con fare deciso lo prendo e lo avvito al suo destino. Quante coppie sono state travolte dalla sua infida presenza? Quanti hanno perfino litigato, per colpa sua?

Lo specchio mi rimanda la mia immagine sorridente, con lo spazzolino in mano. Il tubetto di dentifricio ora è al suo posto, innocuo e un po’ emaciato si mostra per quello che è. Buona giornata.

Al posto giusto

Sono al posto giusto, come un cucchiaio nella Nutella.  Deve essere per questo che oggi nessuno regge il mio sguardo o forse sono semplicemente “un tantino fuori”. Sarà che ho pianto molto e ora mi guardo con benevolenza, saggiamente consapevole che non è ancora finita, che altre prove mi attendono proprio là, dietro quell’angolo, camuffate da opportunità e non da scelte obbligate.

Che nessuno oggi mi ripeta slogan faciloni sulla positività, sui colori della vita e la beatitudine del nirvana. Oggi mi sento al posto giusto, la mia mente è in vacanza e rifugge eventi straordinari. Fisso la vetrina di una gelateria e il mio sguardo trapassa la mia immagine riflessa, fino ad arrivare alla ragazza che sta componendo un complicatissimo cono con topping colorati. La mia attenzione è attirata non tanto dalla torre di babele di gelato quanto dalla divisa della ragazza: reggiseno a punta stile Madonna anni ’80.

Puro marketing al gusto variegato amarena.

Già.

Un gelato, è quello che ci vuole per rompere il circolo dei pensieri ruminanti. Forse, se lo mangio in fretta, il freddo congelerà un attimo la mia mente che parla, parla, e non smette. Sono intasata dai pensieri ma non importa, in fondo ai miei pensieri c’è l’entrata alla caverna di Alì Baba, ma non sono sicura che basti dire “apriti sesamo”, non in questo periodo.

” Ok, vorrei  Vipera e Curry”. L’ho detto già che oggi sono al posto giusto?

Dejà vu.

…………

Anche oggi parcheggio al solito posto. Un po’ per scaramanzia, un po’ per che culo! [lat. cūlus], la giornata mi appare subito migliore. Raggiungo la mia squadra e intavoliamo la solita kermesse pre-impegni quotidiani con la bonaria irrisione delle scarpe dei passanti.

Oggi siamo invitati a partecipare al Life Coaching  Un viaggio di esplorazione e di buchiscoperta, lavorando sul cambiamento.  Siamo HiPo (High Potential). Eccola, la vedo in lontananza, arriva Lei, la Coach Professionista.

Maria Laura: “Ma quanti anni ha?” – Paolo:” Carinaaaaa…” – Manuel:” Dovrebbero organizzarli più spesso questi incontri” – IO: non pervenuta.

Siamo seduti da 30 minuti. La mia attenzione sta scemando, forse perché è un dejà vu, forse perché “la professionista che facilita i processi di cambiamento dell’individuo“, sta parlando, parlando, parlando, senza arrivare da nessuna parte. Un po’ come remare in canotto controcorrente. Mi fa quasi tenerezza se non fosse che AVREI DA FARE.

Sfida. Ora parla di Sfida: “…il coach propone metodi, strategie e strumenti, assegna compiti, azioni e cambiamenti per raggiungere lo scopo prefissato…”

Eccoci. Forse ci siamo. A chi tocca fare questo? A chi tocca fare quello? E quell’altro?

“I “vorrei” si trasformeranno in “voglio”! Abbattete le Resistenze personali!”           …………………………………………………………………………………………………….

La mia autostima vuole un caffè. CAFFE’! Il mio Regno per un Caffè, LUNGO! Che ne dici? Non voglio una risposta immediata, ti invito a riflettere.

F.to  HiPo Bibidi Bobidi Bu

Cannato, sballato, scimmiato

Rumore di vetri rotti. Una bottiglia lanciata contro la fontana va in pezzi, un suono acuto che si confonde negli schizzi d’acqua. E’ notte fonda, sono quasi le tre e le voci dei ragazzi sono come versi di animali agitati, persi. Alcuni gridano, altri cantano e ridono, sicuramente qualcuno sta vomitando.

Scosto un po’ la persiana e vedo le loro teste nelle ombre lunghe dei lampioni, una coppia  sta litigando e gli altri sono appoggiati al muro. Hanno bevuto, tanto. Non c’è gioia nelle risate, i discorsi si fanno pesanti e concitati, qualcuno si agita. Una ragazza si sente male, non respira o forse è solo svenuta. Si forma un cerchio intorno a lei, ora è distesa a terra e qualcuno grida aiuto, spaventato.

Luci che si accendono, come tanti occhi che si spalancano nel buio e altre persiane si scostano. Qualcuno ha già avvisato la Polizia perché arriva subito una volante e dopo poco un’ambulanza. Caricano la ragazza e partono. Restano due poliziotti e il gruppo di ragazzi che cominciano a svuotare le tasche, qualcuno piange, uno sta telefonando. I poliziotti prendono i documenti, fanno domande, guardano le bottiglie a terra.

Sul muro di fronte il lampeggiante proietta figure aliene che si muovono tra i gerani appesi ai  balconi, incorniciate dall’edera e dalle crepe. Un film, muto.

 

Ti insulto, ma con garbo

” Non sta recitando, no? Lei è davvero così sgradevole? ”  Anche oggi purtroppo ho incrociato un modello base di essere umano, dotato solo di un corpo in movimento, senza grazia e sensibilità.

Sono certa di non essere la sola a incappare in esemplari maleducati, spesso corredati da ogni tipo di gadget anche se li vedrei bene solo con una clava. Sarà un Virus? Una forma infettante che, come un programma pirata, altera i comportamenti degli umani? Siamo sotto attacco del parassita arrogante?

Altrimenti non si spiega perché entri in certi negozi sorridente, salutando, e vieni accolta dalla mummia Ötzi, un po’ seccata, che biascicante ti chiede “lapossoaiutare?”  Mi verrebbe da rispondere NO, per favore LEI NO.

Quando poi ignorano o offendono gli anziani, allora il CAPITAN HARLOCK che è in me splende di luce propria, disposto a memorabili duelli dialettici per arginare gli alieni ignoranti.

Difficile difendersi, impossibile ignorare,quindi mi rendo conto di poter apparire snob, ma ACCANTO (a me) è un posto per pochi.

Scrivendo sul WEB…

C’è FAME di lavoro. Mi è capitato di leggere questo annuncio:

Cerchiamo articolisti e blogger per stesura articoli su prodotti moda da pubblicare sul blog di un e-commerce. Cerchiamo amanti della scrittura e della moda, che scrivano da casa e inviino i loro articoli per la pubblicazione. Non è prevista retribuzione. Contattateci se interessati.”

Mi ha riportato agli anni ’90, quando a Roma, agli inizi, scrivevo GRATIS per una agenzia di stampa con succursale a New York. Stavo facendo praticantato, volevo prepararmi all’esame da pubblicista ed ero grata, felice direi, di questa opportunità.

Ricordo ore in fila per accedere a conferenze stampa ed eventi. Sì, ricordo bene le scarpe piene di piedi per il troppo camminare, lo stomaco aggrovigliato per la sete e gli assalti ai buffet da parte dei mostri sacri accreditati, gli unici a rientrare alla base con i gadget, i libri e gli inviti alle serate. Alcuni, già famosi scribacchini, erano davvero un pessimo esempio di etica professionale, ma avevano la coscienza pulita. Mai usata.

Prima di riuscire a pubblicare un articoletto di costume retribuito  e firmato col mio acronimo, è passato davvero molto tempo e molte nottate in tipografia a correggere le bozze. Rientravo a casa alle tre di notte, seguita dagli sguardi di disapprovazione del tassista di turno.

Tornando all’annuncio…

…se qualcuno vuole diventare giornalista pubblicista scrivendo sul WEB, lo invito a informarsi BENE prima.@–@

Il modo migliore di imporre un’idea a qualcuno, è fargli credere che sia sua (A.Daudet)