Domani.

Piovigginava, ma non importava. Anche oggi sapeva che l’avrebbe vista.

E infatti, sotto la pensilina gremita, quasi nell’angolo, la vide. Lei, emanava bellezza.

Era amore. Era amore? Di sicuro lui era rimasto incantato la prima volta, come un ragazzino rapito, inebetito. Aveva incrociato i suoi occhi ed era rimasto impietrito. Saranno stati i suoi capelli che, mossi da un vento fastidioso, si muovevano in una danza che non poteva essere di questo mondo?

Una Medusa caduta da qualche cielo, una visione che pensava sarebbe sparita da un momento all’altro. Anche oggi proprio non riusciva a distogliere lo sguardo da quella grazia che si cibava di luce, non emanava, assorbiva.

Parlarle? Quanto avrebbe voluto, ma temeva che le parole avrebbero rovinato tutto. Le parole rovinano sempre tante cose e appaiono anche le menzogne. Niente da fare. Gli bastava guardare quella figura che, se non fosse stato per quella luce di cui era impregnata, sarebbe stata inghiottita dalle persone intorno.

Non era sesso, era estasi. La delicatezza del collo che scivolava tra le scapole e i suoi movimenti, una grazia fluente. Esisteva? Per lui?

L’autobus era arrivato riempendo l’aria di rumori e vociare. Lei salì come ogni giorno, divorata da quel grosso, sporco e immenso ammasso di ferro e carne, che ripartì con un ruggito stonato, faticando.

Lo vide allontanarsi tra il traffico, ricolmo e stanco, come un coccodrillo che ha appena ingurgitato le prede. Ma lei domani sarà ancora qui, lei non la puoi inghiottire. Lei è pura luce, forse amore, e diventerà una storia. La mia storia.

A domani.


foto da unsplash

Buchi nell’animo

Ennesimo litigio. Apre le ante dell’armadio e sistema nervosamente le camicie appena stirate.

La colpa è mia, sempre mia. Ma è davvero mia? In fondo si litiga in due. Eppure quella sensazione di disagio che sto provando, me lo conferma. Non è successo niente di drammatico.

Sposta gli appendiabiti, apre un cassetto. Sbaglia cassetto e lo richiude. Si gira a fissare le pile di indumenti da sistemare e si siede sul letto, crolla con le mani sulle gambe.

Lui è uscito con gli amici e si è scordato che doveva accompagnarmi al vivaio. Ti pare che non sia drammatico? Siamo una coppia. Ma ti puoi scordare sempre, va beh, non sempre, diciamo spesso, dei miei bisogni?

Guarda i mucchi di vestiti alla sua destra, il suo è decisamente più piccolo. Odia quella montagnola di roba, appena stirata, che troneggia sicura come un picco montuoso, la odia.

Non dico che debba sempre essere perfetto ma, almeno farmi sentire importante ogni tanto, che so, qualche attenzione, chiedo troppo?

Sente aprirsi la porta di casa, sono arrivati i gemelli, tornano dalla partita a calcetto. E l’aria improvvisamente si riempie, può sentire distintamente il leggero afrore di tute sudate, e l’odore dei suoi figli, così diversi anche se identici.

Stanno andando in cucina, sanno che troveranno già pronta, nel forno, la pasta speciale della mamma. Rumori di piatti, posate, il frigo che si apre e si chiude, le sedie che si spostano. Poi, silenzio. Stanno mangiando.

Finisce di sistemare in fretta, senza pensare, deve andare in cucina. Chiude l’armadio e nota che gli specchi delle ante sono da pulire. La sua immagine è riflessa ma vede solo le impronte, la polvere.

Lo farò, più tardi.

Esce dalla stanza, qualche passo nel breve corridoio e la luce della cucina che la abbaglia. Le voci dei suoi figli sono alte, le sembra che ogni rumore sia amplificato.

< Com’è andata? Divertiti? La pasta era buona?>

Ma sono già in piedi, stanno per andare a fare una doccia, lasciandosi dietro un “tutto bene mà“. I piatti sono rimasti sul tavolo, insieme alla teglia, ai bicchieri, la bottiglia d’acqua e i tovaglioli.

L’aria è tornata normale, immobile. L’amore può essere mancanza d’amore, una pena? La sua amica saggia le aveva detto che la sofferenza va attraversata, non puoi saltarla. Il dolore è necessario e va processato. Accettare le frustrazioni.

Pila di abiti, cucina sporca, specchio da pulire, bagno che tra poco sarà un disastro, vasi tristemente vuoti alla finestra. Fuori sembra una bella giornata.

Torna in camera, si cambia, si pettina e si trucca un pò. Borsa, chiavi di casa e telefonino. Qualche passo nel breve corridoio, apre la porta di casa e sente il rumore della chiusura dietro di sé.

Non potete riempire tutti i buchi che ho nell’animo. In qualcuno, metterò dei fiori.


Foto da unsplash

L’odio è faticoso

Anche oggi è arrivata alla porta dell’ ufficio. Varca la soglia della monotonia e piaggeria, saluta chi già sta sistemandosi alla sua scrivania. La sua è là in fondo, quasi attaccata al muro, con dietro pesanti armadi in ferro, ciclopi muti che sovrastano, minacciano, sanno tutto. Al loro interno c’era anche lei, la sua storia lavorativa, le sue scarse performance e i suoi punteggi. Quasi le sembra di sentirli rispondere, a voce bassa, ai quesiti degli altri file, alle loro battute, ammutolendola di fronte ai migliori. É stressante.

Eppure, la sua scrivania é come una cuccia, se non fosse per quella pila di articoli che doveva finire di correggere. Oggi, riunione del lunedì. Le colleghe sono in tiro, energiche, tutte carine, anche quelle passabili. Lei non era proprio male, ma c’era sempre qualcosa che non andava, o i capelli, o il colore dei pantaloni, o le occhiaie. Eleonora, quarta di reggiseno, gambe infinite, glielo faceva notare sempre.

La riunione si svolge, come sempre, nella sala col tavolo ovale in vetro, di quelli che una volta terminato il briefing, rimangono cosparsi di impronte e aloni lasciati dai bicchieri riempiti d’acqua. Oggi, oltre ai soliti, hanno parlato anche altri due colleghi. Si sono fatti forza, avevano preparato una presentazione che tutti hanno fatto finto di ascoltare, buttando distrattamente un occhio al Capo redattore, per vederne la reazione. Terminata. A lei, non toccherà altro che correggere bozze. Ancora.

Sulla sua scrivania, una rosa, rossa.

Sulla sua scrivania. I colleghi che fanno battutine, le colleghe che fanno finta di niente, tranne Eleonora, che arriva insieme alla chioma bionda e vaporosa, chiedendole chi gliela manda.

< Non so Eleonora, non c’è neanche un biglietto.>

< Allora forse si sono sbagliati. Magari non è per te.>

Crepa, Eleonora. Ti odierei, se non fossi tanto stanca.


foto da unsplash

Il corpo è un museo.

Il corpo è un museo e io non ho il biglietto per entrare. Non ho neanche vent’anni e ho già vissuto, tanto. Da quando sono nato ho sentito sempre e solo domande.

Perché volete iscriverlo al liceo?

Perché sorride così?

Perché non può stare fermo?

Diagnosi: Tetraparesi spastica distonica. Non sapevo cosa fosse.

Terapie. Non sapevo cosa fossero.

Fatica, solitudine, dolore. Tre ore al giorno di fisioterapia per imparare a camminare normalmente. Camici bianchi in ospedale. Un lungo viaggio, anche se, il solo posto in cui potevo andare, erano i miei pensieri.

É svogliato.

No, è malato.

I miei genitori, la mia nonna erano le mie uova di Pasqua, la loro anima era la sorpresa più grande.

Sono difettoso, rotto, manca qualche pezzo.

Troppo handicappato per fare il liceo scientifico, ti dicono i prof, in prima superiore, mentre sorella morte continua a bussare all’anima. Io contro tutti, mi diplomo.

Poi arriva Beatrice, inferno e paradiso. Esiste amore senza dolore, esiste dolore senza amore? Voglio vivere e amare. Stare bene. Vorrei un talismano a cui aggrapparmi di tanto in tanto, per non perdermi.

La vita è troppo bella per continuare a viverla così?

Cerco di vivere il presente, non dimentico il passato ma non distolgo lo sguardo dal futuro.

Sorella morte, bussa, bussa quanto vuoi. Il museo, per ora, è chiuso.


Foto da usplash di viktor-forgacs

racconto tratto da una testimonianza su Tik Tok

L’astronave degli esposti

Aveva dimenticato i guanti, ancora. Forse gli sarebbe convenuto mettere un avviso sul cellulare, per ricordarselo. Camminava veloce con le mani in tasca, ma il marciapiedi era stretto da un’impalcatura, che sorreggeva una larga crepa nel muro del palazzo di fianco.

Tocca deviare, passare sulla strada, proprio vicino ai cassonetti maleodoranti. Non c’era verso, caldo o freddo, quei ricettacoli di germi, quelle astronavi debordanti immondizia, annunciavano la loro presenza con olezzi immondi, portati dall’aria. Passano le macchine in fila, stringono, e la vicinanza ai bidoni si fa pericolosa. Mentre cerca di trovare un suo spazio, un equilibrio, sente un miagolio, proprio dietro. Sembra, dietro.

Si volta e tutto tace per un attimo, poi ricomincia, più forte, e viene da dentro l’astronave, proprio là dentro. Sta per andarsene, vedendo arrivare un camion per la raccolta. Fa qualche passo, poi torna indietro. Avranno buttato una cucciolata? Mostri. Non ce la fa, deve controllare.

Buste chiuse, aperte, puzza di urina e marciume. Là, là sotto c’è una busta che si muove, saranno là. E affonda le mani nell’immondizia, non ci arriva, si appoggia al cassonetto e si sporge all’interno, il giaccone macchiato da chissà cosa, pezzi di carta che si appiccicano e la busta gli scivola.

Il camion per la raccolta è arrivato e lo hanno preso per un barbone. Lui parla, con il busto inclinato dentro l’inferno, quasi gli manca il respiro, ma è riuscito a prendere un lembo della busta. Chiede aiuto inutilmente, tra i visi seccati, tira su la busta, lentamente, per non perderla, come se fosse un premio, uno di quelli delle macchinette alle fiere, dove non riesci mai a sollevare con la piccola gru, il pupazzetto che hai scelto.

Strappa un lembo della busta e vede un braccino.

< É un neonato!>

Lo toglie dalla busta, sta mugolando a occhi chiusi, è quasi blu, come il lungo cordone ombelicale ancora attaccato, che scivola dentro al marciume. Lo afferra al volo, si toglie il giaccone e avvolge quel minuscolo essere umano, uscito dall’astronave, sopravvissuto a quel viaggio. Stanno chiamando il 113 e il 118, il traffico è bloccato, tra i clacson qualcuno scende urlando dalla macchina, qualcun altro arriva a fare foto. Ma lui, stava scaldando il corpicino, lo massaggiava proprio nell’attimo in cui aveva aperto un po’ gli occhi e sembrava sorridere.

Ora non si muove più, non mugola più. Continua ad accarezzarlo piano fino a che arriva un dottore e glielo prende dalle braccia, lo carica su un’ autoambulanza. Rimane immobile, lo vede partire su un’altra astronave. La polizia gli sta facendo delle domande ma è attonito, coperto di immondizia. Domande di routine perché ritrovare cuccioli d’uomo buttati via, è diventata quasi routine.

Quei cassonetti ora gli sembrano immensi, quasi il lerciume fosse ovunque, non solo addosso a lui.

< Si è tagliato, dovrebbe andare a farsi controllare in ospedale, con tutti i topi che ci sono, ha messo le mani là dentro, senza neanche i guanti.>


Foto di patrick-hendry da Unsplash

La passeggiata

Ogni mattina, indossava le scarpe comode perché doveva affrontare una stradina di ciottoli antichi, di quelli tondeggianti, a volte puntuti. Gli occhi fissi a terra per non incorrere in storte e per schivare pericoli. Le mura medievali tutte intorno, fresche, l’accompagnavano fino al basso paese, un percorso che avrebbe potuto fare ad occhi chiusi, dopo tanti anni. Conosceva ogni anfratto, ogni vicolo, perfino quelle piantine selvatiche che fiorivano in primavera, azzurre, e che i ragazzi strappavano senza alcuna cura. In fondo alla strada non c’era nessuno, era presto. Meglio muoversi presto. Era arrivata sull’asfalto, la camminata ora era sciolta, tutt’altra sensazione. Ed ogni volta, pensava ai tempi in cui carrozze e cavalli, risalivano quei viottoli, doveva essere un inferno, tra fango e povera gente buttata a terra, brutto periodo il Medioevo. Una macchina le passò vicino sfrecciando.

Corri, corri, che dopo la curva rischi di bucare se non stai attento.

La piazzetta del paese era circondata da piante alte e cespugli appena tagliati, c’era profumo d’erba. La scuola era chiusa per le vacanze estive e i bar aspettavano, con le porte aperte e il profumo di caffè e brioches. C’era qualche persona seduta fuori, con il cane a terra, già ansimante per il caldo.

Sarà una giornata afosa.

Girò l’angolo per andare in drogheria, che era vicino al fruttivendolo, alla merceria, ad un altro bar e al giornalaio.

Spostò le tende in plastica, sempre le stesse da quando era arrivata, troppi anni fa. Il suo buongiorno risuonò nel locale dove c’erano già due signore davanti al bancone, intente a chiacchierare mentre ordinavano. Si riempì le narici col profumo del pane ancora tiepido e della focaccia, gonfia e succulenta. Stava per chiederne un pezzetto quando entrò una folata di energia e risate. Una famiglia con due ragazzini, gli zaini e il profumo di pulito, invase lo spazio. Salutarono e cominciarono a guardarsi intorno, passando tra gli scaffali a muro, con una elettricità che pareva smuovere le confezioni di pasta e tintinnare i vetri delle conserve. La mamma aveva già adocchiato quello che avrebbero comprato. La droghiera si staccò un attimo dalle signore per servire questo ingombro. In fondo sapeva che avrebbero preso panini imbottiti e bibite, forse qualche fetta di torta. Infatti.

Entrati e usciti. Come quando lasci la finestra aperta e fa corrente.

Turisti. Non sono di qua.

E nel negozio, l’aria era tornata stantia, le signore parlavano, guardando con la coda dell’occhio chi entrava, abbassando il tono della voce se c’era qualche pettegolezzo piccante. Di fianco alla cassa c’era un raccoglitore di caramelle, di quelli in metallo, di una volta, con la pubblicità punzonata sul bordo, ma ora raccoglieva tavolette di cioccolato, 80% di cacao.

Volevo un pezzo di focaccia, con la mortadella.

Se ne uscì col suo pacchetto tiepido e profumato, diretta al piccolo viale alberato.

Mi fermerò su una panchina all’ombra.

Il sole stava alzandosi, le ombre dei pini e dei tigli si assottigliavano e, in alto, proprio dietro la macchia verde, si sentivano le risate della famigliola che stava salendo verso la Rocca. Come un piccolo stormo danzante, tra le urla dei bambini che avevano visto uno scoiattolo.

Era tanto tempo che non vedeva uno scoiattolo, e addentò la focaccia, a occhi chiusi.


Foto da Unsplash di dmitry-novikov

Un pomeriggio buttato

Camminava verso la macchina, fumando come se stesse respirando a pieni polmoni, inalava e sbuffava fumo. Il rumore dei tacchi sul marciapiedi bagnato, ritmato, interrotto solo quando schivava le piccole pozzanghere che si erano formate dopo il temporale. Aveva smesso di piovere, l’aria non si era rinfrescata, dava più la sensazione di afa tropicale e i raggi di un sole stanco, bucavano le pesanti nuvole scure, minacciose.

La aspettava un traffico delirante, di mezzi impazziti, accalcati, nervosi come uno sciame di api minacciato da qualche pericolo. Rimase seduta in macchina per un po’, proprio non ce la faceva a partire subito. Era scarica, spossata.

Un pomeriggio buttato.

Le erano rimaste in testa le risate di Laura, quel suo continuo parlare, agitarsi, le attenzioni mielose da padrona di casa, tutte quelle effusioni a fior di pelle e gli sguardi. Più che altro gli sguardi. Ti rimanevano addosso come i filamenti di una gomma da masticare su cui ti eri seduta incautamente.

Un pomeriggio buttato.

Laura aveva davvero una bella casa, un marito perfetto e due figli perfetti. Conosceva solo di vista le altre invitate. Di cosa si era parlato? Mah. Doveva essere un aperitivo di compleanno, ma il buffet, il personale di servizio, le mises delle ospiti, l’avevano frastornata. Conosceva Laura, sapeva che amava esagerare, ma oggi, era stato davvero troppo. Troppo”Ciao tesoro!”, troppo”Sei un incanto!”, troppo “Che piacere rivederti!”.

Il suo mazzo di fiori, peonie, gerbere, lillà e bocche di leone, buttato su un tavolo insieme ai regali, che presto ne avevano martoriato i petali, tutte quelle persone che non stavano ferme un attimo, con un bicchiere in una mano e un piattino nell’altra. Solo lei, aveva preso un fiore di zucca con un tovagliolino e lo aveva mangiato. Si era sentita fuori posto. La barca di suo marito era troppo piccola, sua figlia non era abbastanza bionda, suo nipote ancora non parlava e lei, non poteva sfoggiare un, seppur piccolo, successo patinato.

Aveva sorriso e ascoltato, osservato e invidiato. La perfezione dell’arredo, l’equilibrio dei colori, le piante sulla terrazza, rigogliose e fiorite. Poi, il temporale. Tutte in casa! Le finestre accostate, i tuoni e la torta, portata su un carrello, dalla colf più triste del mondo, tra applausi e baci.

Un pomeriggio buttato.

Mise in moto la macchina, pensando alla torta che, in fondo, non era stata granché.


Foto da Unsplash

Ora, no.

“Vuoi che venga da te? Salto in macchina e arrivo!”

Dall’altro capo del telefono, da circa venti minuti, la sua amica stava piangendo, singhiozzando, biascicando di tradimenti. Aveva scoperto dei messaggi inequivocabili, sul telefono di suo marito.

“Senti, non trarre conclusioni affrettate…” (Guardò l’ora)

Pessima risposta. Un fiume in piena di improperi e certezze, riempì l’auricolare. (Lo stomaco brontolò)

“Sono qui, ti sto ascoltando.”(Aprì il pensile: riso, no, pennette)

Così venne a conoscenza di dettagli intimi non richiesti, di debolezze e mancanze difficili da tollerare. (Prese le pentole)

“Scusami, se sei sicura, se mi stai dicendo che hai le prove, allora aspetta, calmati e, quando arriva, gli chiedi spiegazioni. Se ne ha. Ne deve avere.”

Altra valanga di insulti. A lui. ( Aggiunse al pomodoro, le olive verdi, quelle taggiasche, poco sale e pepe)

“Perché non vieni tu qui da me? Così ti sposti da quell’appartamento, ti rilassi e valuti con più freddezza come comportarti. O se preferisci, piangi finché ne hai voglia. Sono qui. Ci sei?” (I capperi, si era dimenticata i capperi)

Sente una voce, quella del marito sicuramente. Era tornato. (L’acqua bolle) I toni stanno cambiando, le voci si fanno concitate, qualche urlo. (Butta il sale nell’acqua) Rimane ferma davanti alla pentola, col sugo che borbotta, il vapore che riempie la cucina, le orecchie che stanno cercando di decifrare una conversazione lontana, confusa, interrotta. E cade la linea.

Guarda il telefono, butta la pasta e mescola. Aspetta.

(Il sugo si sta attaccando) Lo schermo del telefono diventa nero, mentre sta immaginandosi cosa sta succedendo. Non può farci niente. (Mescola il sugo) Si versa un bicchiere di vino, sa che prima o poi lei la richiamerà.

Spengo il telefono? Almeno finché ho finito di mangiare. (Versa la pasta condita nel piatto)

Maledetto senso di colpa.

Un piatto fumante, appetitoso, un film che l’aspetta. (Telefono. Spegne)


FOTO da UNSPLASH

Sballo nel silenzio

Era davvero tardi. Aveva promesso di rientrare al massimo per le due e, come al solito, la mezz’ora in più era diventata un’ora, due ore, quasi tre. Guardava fuori dal finestrino della macchina, di fianco all’unico del gruppo che se l’era sentita di guidare. Il finestrino un po’ abbassato, quel tanto da permettere all’aria di sfiorarle la fronte e le sopracciglia. Aria umida, appiccicosa, ma in fondo piacevole, così le sembrava, in quell’abitacolo pieno di braccia, gambe, capelli.

Silenzio.

Solo nella testa pulsava ancora il ritmo sordo della musica, un tamburo ancestrale che non si fermava, che oscillava da tempia a tempia.

Silenzio.

Chiuse gli occhi ma le facevano male, come se le stessero premendo le orbite con i polpastrelli. Strana sensazione. Qualcuno dietro di lei stava parlando, non si mosse. Sentiva ridere ma il tamburo non si fermava.

Fermi al semaforo rosso abbassò un po’ di più il finestrino e venne sopraffatta dall’odore, nauseabondo, di pesce, dei resti che galleggiavano in pozzanghere dense, lasciate forse da un grossolano lavaggio fatto alla fine del mercato. Era talmente forte da stordire, come l’odore delle alghe putrefatte tra gli scogli, portato dalla salsedine marina. Ti entra nelle narici e lì resta.

Chissà se rivedrò quel ragazzo. Troppo alcool. Aveva un bel sorriso e delle strane orecchie.

Non era da lei. Lidia sì, la sua amica sì, era quella che sembrava facile. Non lei. Le faceva male la testa, così rimase a fissare lo specchietto e vide i suoi amici, uno sopra all’altro, addormentati. Lidia era dall’altra parte.

Dall’altra parte.

Lei che va in bagno con lui, lei che si lascia fare. Lei che, in fondo, non ricorda molto bene, a parte le maioliche rotte nell’angolo in basso del muro, il suo piede appoggiato alla tazza del water e il rumore dei colpi della sua schiena contro la sottile parete divisoria dei bagni. Tira su col naso, cerca di fare un respiro profondo. Poi guarda il vestito, macchiato, e lo abbassa un po’ sulle cosce.

Semaforo verde. A sobbalzi, si riparte.

Silenzio.


Foto da unsplash

Pupille salate

Si accese una sigaretta. Era un comportamento assolutamente riprovevole, aveva giurato a se stessa di smettere. Per la terza volta. Ma le scuse erano traboccate, anestetizzando il senso di colpa. Rimaneva insoluta la questione della forza di carattere. Ne sentiva quasi la presenza fisica, come se un’educatrice severa, di quelle dal colletto inamidato e lo sguardo cattivo, stizzoso, la stesse fissando, proprio di fianco, muta e giudicante.

Le soffiò addosso una boccata di fumo. Non era il momento, tutto qui.

Si sdraiò sul divano e rimase a fissare il soffitto, mentre fuori il cielo cristallizzava nel perfetto indaco del crepuscolo. La televisione era accesa e senza volume, pulsava luci, visi, storie. Lanciò uno sguardo al telefono. Nessun messaggio, niente. E aprì Tinder, il suo “supermercato di contatti umani”. L’ultimo incontro era stato un disastro, ma sempre meglio del penultimo, un maschilista analfabeta. Perché non inserire dati reali? Descrizioni che tratteggino in maniera accurata la personalità e gli interessi? Hanno tempo da perdere. Non era facile, certo, non era facile. Il destino, le diceva sua madre, c’è un destino per tutto. Che sia tu? Sarai tu il mio destino? Stava aspettando un messaggio di riscontro, ma non arrivava.

Decise di prepararsi qualcosa di buono, aveva bisogno di qualcosa di buono. I tagliolini freschi, con un sugo ai funghi. Lavò e mondò i funghetti, prese due belle cipolle di Tropea e cominciò ad affettarle molto fini. Le avrebbe lasciate passire dolcemente nell’olio, per poi bagnarle con un goccio di vino bianco secco. Gli occhi le pizzicavano un pò, inumidendole le pupille. Musica, ci vuole un pò di musica! Ed eccolo il messaggio.

Ciao scusami ma oggi e domani non posso. Potrei vederti il prossimo venerdì. Ah, ti prego, non venire se hai più di 35 anni. Le ultime che ho incontrato sembravano mia madre!😜

L’olio si stava scaldando troppo, abbassò la fiamma e fece scivolare le cipolle affettate dal tagliere. Poi, prese un tovagliolo di carta e si asciugò le gocce salate che le rigavano il viso.

Più tardi sceglierò un film, più tardi.


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Revival

Si era perso. Il navigatore lo stava facendo andare in circolo, ricalcolava continuamente il percorso. Succede. Ma a quell’ora, notte fonda, la cosa era davvero irritante. Un bar, quello là in fondo sembra un bar. Decide di fermarsi per chiedere informazioni e, già che c’è, andare in bagno. Il beep della chiusura porte, i fari che lampeggiano, l’elettricità statica che scivola a terra è una scarica veloce, che lo lascia come se lo avesse investito una secchiata d’acqua fredda. L’effetto corroborante di un respiro a pieni polmoni, accompagnato da una strana sensazione di spossatezza, indolenzimento. Non riesce neanche a stiracchiarsi, troppe ore al volante.

Si avvicina alla porta del locale, sotto la luce fredda e pallida di un neon, accompagnato dal rumore dei suoi passi sul selciato. L’entrata è in legno e vetro, con appiccicati vecchi e consunti stickers, e una maniglia in ottone usurato. Entra e vede il posto affollato, stranamente gremito da personaggi, come un cast di comparse in pausa, sparsi a gruppetti. Due anziani eleganti, in giacca e cravatta, assorti davanti ad una scacchiera, una coppia gay che amoreggiava nell’angolo, quattro signori ad un tavolo vicino alla parete dove le carte da gioco volavano tra insulti bonari e bicchieri di vino rosso.

Si avvicinò al bancone dove una prosperosa signora dalle labbra carminio, lo stava fissando, senza sorriso.

“Il bagno è qui a destra, questa è la chiave. Le faccio un caffè?”

Prese la chiave e si avviò. Si aspettava una turca, e infatti. Sull’anta interna della porta era appeso un poster, con una bella ragazza ammiccante, in pantaloncini di jeans e camicetta annodata. L’impresa richiese la massima concentrazione, mentre i pensieri andavano ai clienti presenti a quell’ora di notte, in quella zona sperduta, periferica, lontana, col juke box che suonava canzoni dimenticate. Si era lavato le mani ma non c’era niente per asciugarle e non aveva neanche un fazzoletto. Le sfregò violentemente nel tentativo di togliere più umidità possibile. Una risata forte, femminile, come un verso di un animale, lo accolse al suo rientro nella sala.

Lei, era seduta su uno sgabello al bancone del bar, fasciata da un vestito in jersey che le lasciava scoperta una gamba, e parlava con labbra carminio. Ad ogni scambio di battute, la risata sguaiata, forzata, esplodeva nel locale, sovrastava la musica, rimaneva quasi sospesa vicino al soffitto, per poi svanire, fino alla seguente. Il caffè era buonissimo e glielo aveva servito accompagnato da un boero.

“Guarda se hai vinto”

“Prego?”

“Nel boero, guarda se hai vinto.”

Lo scartò, il cioccolato era vecchio, striato, ma, all’interno dell’involucro, sul biglietto, lesse: Hai vinto 10 boeri!

Sorpreso, imbarazzato come un ragazzino, mostrò il biglietto alla proprietaria che cominciò a staccare i cioccolatini dal totem rosso che li raccoglieva. Pagò e rimase a fissare quel mucchietto davanti a sé, sentendosi gli occhi di tutti addosso. La risata sardonica lo scosse e, come se fosse la cosa giusta da fare, lasciò un boero ad ogni persona presente in quel bar , alla risata sardonica, alle labbra carminio, ai quattro giocatori di carte, ai due gay e ai due che stavano sfidandosi a scacchi. Nessuno ringraziò, nessuno fece un cenno.

Uscì accompagnato da un revival e, chiusa la porta, tutto tacque.

In macchina, dallo specchietto retrovisore, vide la luce dell’insegna allontanarsi fino a sparire. E non aveva chiesto informazioni.


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Riscrivere la realtà non è menzogna

Il rumore della porta che si chiude dietro di lei, ed è al buio, in casa, col cuore che sembra essersi fermato. Si guarda le mani che stanno tremando, la saliva sa di metallo, il respiro è corto. Accenna qualche passo ma crolla sulle ginocchia con la testa tra le mani, sta piangendo, ma si ferma, e pensa.

Cerca di rialzarsi sulle gambe tremule, si appoggia al muro con gli occhi chiusi e, quell’immagine, quel tonfo, lo sbandamento dell’auto, tutto continua a venirle in mente.

Non riesce a pensare ad altro. Non si era fermata. Corre ad aprire la finestra, ha caldo, fa troppo caldo, non respira. Fuori è silenzio, persiane chiuse, asfalto illuminato a chiazze dai lampioni, zone buie, zone di pericolo.

Perché? Perché a lei? Forse non era successo niente, forse lo aveva solo ferito. Non aveva visto nessuno, era buio, non c’era nessuno.

Che fare? E se è morto? E se ha visto la mia targa? Che fare? Chi chiamare a quest’ora ? Se mi fanno l’alcool test mi tolgono la patente, non posso rimanere senza macchina. E se è morto? Mi arresteranno, perderò il lavoro, sarò sula bocca di tutti. Chi chiamo?

La curva, la musica alta, la sigaretta e, nel buio, un’ombra.

Era un’ombra, non si vedeva niente, sembrava un cespuglio, un piccolo albero. Non l’ho fatto apposta, quella curva è pericolosa, ho dovuto stringere, è stato impossibile evitarlo.

C’è solo una piccola rientranza sul paraurti davanti a destra, come se avesse preso un palo durante un parcheggio.

Chi chiamo?

L’immagine nel retrovisore di una sagoma che rotolava dietro di lei sull’asfalto, fino a rimanere a faccia in su, immobile.

Qualcuno si sarà fermato, sarà già in ospedale. Tra poco sarà chiaro, chiamerò un avvocato, mi farò consigliare. L’ho solo urtato, l’ho solo urtato. Dirò la mia verità, non è menzogna, è il mio ricordo.

Non ricordo.


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L’importanza dei dettagli

La fila alla cassa era immobile da un po’ e la gente cominciava a spazientirsi. La percezione del tempo, in certi momenti della vita, sembra alterata al punto di essere convinti di sprecare minuti preziosissimi. E così, gli animi cominciarono ad inquietarsi per l’attesa, mentre gli sguardi analizzavano, con precisione certosina, nei carrelli davanti al loro, la quantità di roba e il tempo che ci sarebbe voluto per scaricarla, registrarla, impacchettarla.

Le persone in fila stavano per arrivare al limite della sopportazione. Era evidente. Ma la cassiera, tra l’annoiato e lo stizzito, stava aspettando che il vecchio signore davanti a lei, finisse di pagare. Mancavano ancora circa due euro e, frugando, nelle tasche, dappertutto, l’anziano stava raccogliendo monete e monetine, poggiandole sull’acciaio dello scivolo della cassa. Niente da fare.

“Mancano ancora sessanta centesimi, che facciamo?”

Gli occhi di lui, velati dalla cataratta, il corpo perso in un completo diventato troppo largo, quelle mani un po’ tremanti e l’imbarazzo per gli sguardi addosso. La signora che era proprio dietro, col suo carrello pieno e il tempo contato, si avvicinò e mise, violentemente, sessanta centesimi sul mucchietto di monete.

“Ecco qua. Così ci muoviamo.”

E come se si fosse aperta una diga, lasciando scorrere l’acqua sui campi assetati, la cassa suonò emettendo lo scontrino, la cassiera tirò un sospiro e tutti nella fila mugugnarono contenti. L’anziano prese il suo pacchetto, si voltò per ringraziare la signora, scusandosi, ma lei era già indaffarata a sistemare la sua spesa, ingombrando, riempiendo sacchetti.

Quando il vecchio sparì oltre l’uscita, iniziarono i commenti, prima sommessi, poi ad alta voce, un serpente di malignità che si muoveva lento, tra sguardi eloquenti e certezze granitiche. Dal “Le pensioni che danno sono ridicole” al “A quell’età dovrebbe stare in un ricovero”, fino al commento più atteso, quello della signora, “Piuttosto che ridursi così, meglio morire.” Meravigliosamente malvagia, il diavolo è nei dettagli.

Tra le luci e la confusione sommessa del supermercato, in quel micro-mondo dai tempi accelerati, non sono permesse esitazioni né parole di troppo. Una volta usciti dal serpente, si riprende la propria vita, il proprio ritmo, e ci si avvia veloci, quasi si stesse per uscire di prigione.

E lei, s’incamminò. Appena fuori, proprio davanti alle porte che si aprivano e si chiudevano senza sosta, l’anziano signore, con sessanta centesimi in mano e una rosa, la stava aspettando, per ringraziarla. Nell’altra parte del mondo.


Foto da unsplash

OLODUMARE

Lei sembrava lontana, era solo andata sul balcone ma era altrove. La sottoveste sul corpo esile, il vento leggero che la muoveva appena, come poggiata su una scultura in radica, la spallina un pò scesa sulla spalla tornita, la luce dell’alba. Era giovane, quanto era giovane.

Lui, guardandosi allo specchio, si vide vecchio, per la prima volta.

Chiuse gli occhi cercando di ricordare i colori, gli odori, i suoni, tutte le sensazioni lasciate là, lontano, non appena l’isola era scomparsa dalla vista dell’oblò dell’aereo. Ed era con lei, seduta vicino, col suo vestitino leggero, un sorriso immenso e le lunghe dita della mano che si attorcigliavano alle sue.

Continuò ad osservare l’immagine del profilo di lei, così perfetto, quelle labbra dolci e quegli occhi che avevano perso la profondità. Illusione. Un malessere si stava insinuando come una mala erba, che cresce giorno dopo giorno, infesta e soffoca. Aveva cercato nel nero dei suoi occhi, ora vischioso e impenetrabile, lo scintillio in cui si era riflesso quando si erano incontrati, in quel locale che mai avrebbe trovato da solo.

I suoi due amici lo avevano condotto in un luogo che forse non esisteva, un salto nel passato, come se fosse entrato nel set di un film anni ’50. Pareti rosa antico scolorate e un pò scrostate, fili di luci appese qua e là, tavolini tondi, sovrastati dal fumo di sigari e sigarette forti che lasciavano intravedere le camicie a righe, con le maniche arrotolate, scarpe eleganti consunte, gambe affusolate e lucenti che si muovevano piano, dondolando al ritmo della musica. Due figure erano appoggiate al davanzale di una finestra, tra tende leggere e troppo lunghe, altri, erano seduti sugli scalini antichi di quella che doveva essere l’entrata di un salone, diventato ora palcoscenico. E la musica, un pianoforte sotto le dita impazzite di un musicista sudato e assorto, dai denti bianchi come i tasti, la voce di lei che era ovunque, catturava, stregava.

Il suo cuore aveva cominciato a battere come i tamburi dei santeros, il sangue palpitava fino alle tempie, arrivò a pensare che gli avessero messo un pò di peiote nel drink. Perché non era da lui perdere così il controllo, rimanere folgorato alla vista di una ragazza, balbettare ed essere imbarazzato. Eppure era successo, nessun appiglio alla ragione, nessun consiglio o avvertimento lo avevano distolto da quel periodo vissuto con lei, fatto di momenti, visceralmente desiderato, carnalmente avido eppure limpido. Le stesse mani che strappavano chele di aragosta sulla spiaggia, ancora bollenti, lasciando colare umori, e che bagnate dall’acqua di mare, scivolavano come meduse cercando di accarezzarla tutta, di afferrarla senza poterlo fare. Una magia, un sortilegio, Olodumare lo aveva imprigionato, incatenato, lui, schiavo senza colpa.

Lei si girò, il sole stava sorgendo proprio dietro e, camminando piano, cominciò a cantare, lieve come un fantasma, poggiando i piedi scalzi sulle maioliche.

ADESSO

E così, non c’era più. Mentre scendeva in ascensore, passando dal secondo piano, lanciò uno sguardo al portone dell’appartamento di Erika. Nulla di diverso rispetto al giorno prima, a parte il fatto che lei non sarebbe più tornata. Al piano terra, la portinaia stava parlando con due comari del palazzo di fianco. Si voltarono, smettendo di parlare, mentre stava chiudendo le porte dell’ascensore. Come ogni giorno, si fermò a controllare la cassetta della posta e sentì i loro sguardi addosso, malevoli, torbidi.

La portinaia, Cetta, dalla testa piccola, coperta da un elmetto di capelli neri, un mazzo enorme di chiavi sempre appeso alla cintura, sembrava una kapò dall’italiano stentato. Le altre due signore che invece comparivano sempre quando accadeva qualcosa, avevano la stessa pettinatura, capelli radi, cotonati, quasi due maschere del teatro popolare romano: Ada, dal seno enorme e la voce mielosa, Rina, magrissima e con gli occhi piccoli e pungenti.

S’incamminò per uscire ma venne bloccata da saluti che implicavano la condivisione di informazioni. Venne sommersa dalle loro versioni della storia su Erika, da occhiate eloquenti, mentre divagavano sulla leggerezza, gli incontri promiscui, un destino che, per loro, era quasi la conferma di un presagio.

Ma Erika aveva avuto un incidente in macchina, nulla di più, e lei non voleva parlarne, non voleva sentire sordidi racconti, pettegolezzi amari, curiosità morbose. Era catalizzata dall’enorme petto di Ada, la cui scollatura metteva in risalto la pelle stanca, bianca, come una burrata tagliata a metà da una lunga fessura.

Le parole rimbalzavano tra il tintinnio delle chiavi della portinaia. Chissà perché aveva tutte quelle chiavi? La Rina, con fare stizzito, fece per andarsene e lei ne approfittò per seguirla.

Camminando sul marciapiedi, il pensiero andò a tutte le volte in cui aveva incrociato Erika che stava rientrando a casa. Lei viveva nel suo universo, fatto di musica, artisti, nottate e albe. E sorrisi. Si ricordava quei sorrisi esplosivi, sotto il piercing, tra i tatuaggi e i lunghi capelli. Le era sempre piaciuta Erika, molto, ma le loro esistenze non erano mai state sincronizzate, s’inseguivano, come il giorno e la notte, s’incontravano per un attimo, per poi proseguire la loro storia. Così, quando in ascensore era scattato un bacio, dolce e improvviso, era stato come dare un’occhiatina al baratro, alla cascata impetuosa. Mi butto o no?

Il tempo che scorre, mentre ti fai mille domande e intanto, la notte era diventata giorno.

Il rimpianto aveva un sapore aspro e il potere di cancellare tutto, anche il sapore di quel bacio.

Erika non c’era più.

OTOHIME

Uno scroscio d’acqua, finto e continuo. Sono la Principessa del suono ,*OTOHIME. Sono una Otohime rosa, alla parete di un minuscolo bagno a Beppu, in Giappone.

Bella la storia della Principessa del suono: “Un pescatore salva una tartaruga e, come ricompensa, viene ospitato nel Palazzo del drago, tre giorni meravigliosi, tra divertimento e leggerezza, in un regno subacqueo, amato dalla Principessa Otohime. Ma, la nostalgia per la sua famiglia, lo porterà a chiedere alla Principessa di tornare nel suo mondo. Torna dunque nel mondo reale, che troverà nel frattempo invecchiato, e nessuno sa più chi sia. La Principessa gli aveva donato una scatola preziosa dicendogli di non aprirla mai. Il pescatore, solo e deluso, tornando sulla riva del fiume dove aveva salvato la tartaruga, aprirà alla fine la scatola e verrà avvolto da una nuvola bianca che lo farà improvvisamente invecchiare. La scatola custodiva la sua età reale.

I pochi giorni passati nel palazzo erano stati centinaia di anni nel mondo reale.

Il tempo, sempre il tempo, non è eternità, è prezioso e non va sprecato. Ma io non l’ho sprecato. Giuro. Forse qualche volta.

Il rumore dell’acqua che scroscia continua. La signora che sta in bagno non ha finito.

Del Giappone ho ricordi più belli, comunque.

Ma sì, il rosa del Otohime sta cambiando, sfuma e fiorisce, io fiorisco, petalo rosa, miliardi di petali rosa che, immobili, pendono dal glicine nel Ashikaga Flower Park, come l’Albero delle anime, l’essere vivente più sacro in assoluto nel Regno di Pandora.

Sto fluttuando come una scarica elettrica da braccio a braccio, in cerchio come se fossi nel film. Un’ellisse di luce che fluisce da vita a vita, che entra nelle radici, sale dalla corteccia ed esplode nei petali, fluorescenti. Sono luce e sono un piccolo fiore su un vassoio con tre *tamago sando e due *sakazuki.

Sei con me, nella vasca di acqua termale del piccolo Onsen. Preferivi gli alberghi più confortevoli, ma non importava, eravamo insieme. L’acqua è calda. Il mio cuore è caldo. Acqua che ti accarezza, acqua che ti abbraccia, acqua che evapora.

Il vento, il vento mi sta portando lontano da te. La musica, perché non sento più la musica? Perché non sento, non sento più niente?

Scroscia l’acqua. Io Principessa del suono, tu, pescatore che te ne sei andato.

Il tempo. Il tempo, non esiste. Io, non esisto.


* Otohime : dispositivo che riproduce il rumore dell’acqua

* tamago sando: sandwich

* sakazuki: coppette sake

Foto da Unsplash

Lo strano odore della notte

Le luci dei lampioni colpivano il cofano della macchina prima di ferire i suoi occhi. Aveva lasciato il finestrino un po’ abbassato, solo quel tanto che bastava a far entrare un soffio costante di aria fredda, che sfiorava la sua guancia e la sua spalla sinistra.

A quell’ora, non c’era molto traffico in autostrada, solo alcuni grossi camion che lo sorpassavano rumorosi, veloci, illuminando l’asfalto a giorno. L’ultimo che aveva visto, mostrava sul fianco un’immagine di un lupo dalle fauci aperte, e una serie di luci che trionfavano sul parabrezza.

Pensate che io non valga, mi rifiuto di essere piccolo perché voi pensate in piccolo.

Aveva acceso la radio e stava fumando. Le colline, massicce e scure, sembravano disegnate con la china, la luna era proprio dietro quei confini, nascosta. Vide una stazione di servizio.

La prossima, mi fermerò alla prossima.

Invece, di colpo, sterzò il volante ed entrò nel parcheggio immenso, desolato e deserto. Rimase seduto, col motore spento, in silenzio, poi, scese dalla macchina.

Non ridurrò la mia visone perché non riuscite a raggiungermi.

Camminò lentamente, respirando profondamente, ed entrò nel piccolo bar, dove un ragazzo stava lavando il pavimento.

Che strano odore ha la notte in questi posti, sa di metallo e sporco, pizzica il naso.

Prese un caffè, col sottofondo rumoroso del frigorifero, e vide il suo viso riflesso nello specchio dietro al bancone. Sembrava finto, grigio, una foto. Si girò verso il ragazzo che stava sistemando i pacchi di biscotti e gli sparò alla testa, appena sopra la nuca.

Un suono secco, come quello di un petardo, un tonfo, poi, più niente. Solo il rumore del frigorifero.


Foto di khamkeo-vilaysing da Unspalsh

Animo-sa-Mente

Se ne stava seduto, col suo turbante viola, le gambe incrociate e le braccia appoggiate sullo schienale della panchina. Si notava appena. La barba bianca e lunga, lo sguardo fisso ad un campetto di bocce coperto dalla plastica grigia. Era là, immobile, rilassato, mentre le persone gli passavano davanti, camminando senza vederlo.

Sotto quel turbante violaceo, la mente viaggiava sopra gli occhi stanchi che, lentamente, si spostavano, aprendosi e chiudendosi, quasi volessero mettere a fuoco un sogno lucido, dai colori vividi, la vita lasciata lontano da lì.

Piccole case tinte di rosso, con le tende colorate come porte, le stradine polverose battute dai piedi dei bambini che correvano ridendo, le chiacchiere delle donne sedute sulle stuoie, sgranando semi: finocchio,  anice, cumino, sesamo, cardamomo verde, dhania dal. Quanto era buono il Mukhwas! Era come se lo stesse gustando.

Di tutte le stuoie che aveva fatto in vita sua, la più bella era stata quella per sua figlia, arancio e blu. E le ciotole, impilate vicino al muro della loro cucina che profumava sempre di coriandolo.

Qualcuno si era avvicinato all’albero di fianco alla panchina, lasciando che il suo cane facesse i suoi bisogni. Il padrone parlava, parlava col cane. In quel paese parlavano molto con gli animali, strano. Anche nel suo succedeva, ma era per scusarsi se, incautamente, li uccidevano. C’erano molti cani, ma molte più mucche, magre e sacre. Non come qui, che dispensavano latte fino alla morte.

Lavorava in una stalla, molto organizzata, accarezzando le mucche ogni mattina, chiedendo scusa e ringraziando. Quando collegava le mammelle alle bocchette per mungere, gli sembrava di fare una cosa immonda. Kamdhenu‘ non avrebbe soddisfatto tutti i suoi desideri. Ma, in realtà, aveva anche mangiato la carne delle mucche, come tanti altri indù. Considerò che era sempre meglio che abbandonarle randagie e denutrite. Sentì il sangue scorrere nelle vene, arrivare alle mani callose, pulsare nei polpastrelli e le alzò al cielo, puntando in alto, come se volesse raggiungerlo. Kamdhenu‘, perdonami.

Il turbante viola si spostò, solo un poco.


Foto da unsplash

La Girafe

Tra arbusti bassi e terra rossa, sento strani versi di animali, nel crepuscolo, che vengono da fuori.

Sono in una tenda, sdraiata a terra, dopo un’altra giornata di safari fotografico, nella polvere, nel caldo secco che asciugava le gocce di sudore mentre scendevano. Avverto un gran movimento all’esterno. Alzo la testa e vedo piedi che corrono, fucili, e ancora polvere che si alza. Nell’accampamento ordinato, le jeep tutte intorno in circolo, il fuoco al centro illumina con sottili lingue gialle. Là, da quella parte, dove stanno andando tutti, là si è formato un gruppo di corpi, a terra, mimetizzati.

Esco e mi avvicino, mi sdraio anch’io.

E la vedo, la giraffa.

Sta correndo inseguita da una leonessa. È così alta che sembra correre da sola, ma sa che dietro di lei c’è il pericolo. Annuso l’aria, odore di selvatico, è la paura che preannuncia l’odore del sangue. Tensione, avverto la tensione, una nuvola di terra che aumenta, che corre per poi fermarsi e gonfiarsi, una danza macabra che parla di vita e morte.

Qualcuno sta fotografando e vorrebbe alzarsi. Una mano potente lo trascina a terra: “Stay down!” Ed io, che sono spalmata a terra, allungo più che posso il collo, vedo le corna, il manto pezzato, vedo le lunghe gambe sferrare calci contro il proprio destino.

Ed è silenzio, la massa di terra nell’aria, quasi densa, che sfuma lentamente, si estende  come a voler fondersi col tramonto. Arancio con l’arancio, rosso col rosso, nero col nero.

Ed è nero. Un nero quieto, placido, distaccato. La vita e la morte.

Gli strani versi, ricominciano.


Foto da unsplash

La Fama Postuma

Ho appena letto il post di Melissa Miele e lo trovo un bellissimo preambolo al mio.

Scrivere un romanzo è complicato. Gli Autori, quelli degni di questa qualifica, scrivono quello che hanno nel cuore e nella mente, strappano un pezzo della loro carne, delle loro viscere, per tradurle in parole. Non c’è niente di artefatto o forzato, è naturale. Nascono così i racconti, le poesie ed anche i romanzi.

Su questo Social ho letto molto, in cerca di sorprese, gemme nascoste, non ancora catturate dal marketing, non ancora su uno scaffale del supermercato. Autori. E ne ho trovati, così come ho trovato blog interessanti, ricchi di contenuti. Mi piace condividere, ripubblicare post che fanno riflettere, poesie o racconti talmente belli che vorrei averli scritti io.

È come essere Alì Baba di fronte alla grande Caverna WP, e “apriti sesamo” è l’augurio che faccio a tutti noi, perché si dischiuda lasciandoci girovagare nella ricerca di ciò che più ci aggrada. 

Questo lo possiamo fare, siamo al timone, in questa nuova comunicazione che sfreccia sul binario del marketing, noncurante del carico ma solo della meta.

Molti, forse anch’io, resteranno sconosciuti, anche se hanno avuto la fortuna di essere selezionati da una delle rare Case editrici che non chiedono una co-produzione, ma offrono un contratto normale (tralascio il capitolo provvigioni vendite che in Italia varia dall’8% al 10%). 

Soddisfatta? Mah. Sono due livelli separati, l’avere successo e il piacere di scrivere qualcosa di bello. Sì, di bello.”

bene sit vobis